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3.3. San Francesco d'Assisi


(via san Francesco d'Assisi, n. 11)
Il 6 giugno 1841, domenica della SS. Trinità, Don Bosco sa­cerdote novello celebra la sua prima messa in questa chiesa, all'altare dell'Angelo Custode. È assistito dal suo direttore spirituale san Giuseppe Cafasso che, nei locali annessi alla chiesa, collabora con il teologo Luigi Guala nella direzione del Convitto Ecclesiastico. Dal novembre successivo, fino all'estate 1844, don Bosco abiterà in questi ambienti.

3.3.1. La chiesa e il convento di san Francesco


La costruzione originaria risale al sec. XIII e si dice fon­data da san Francesco stesso, in occasione del suo viaggio in Francia (1215), o dai suoi primi compagni. Il convento era abita­to dai Minori conventuali ed acquistò presto grande importanza in città, tanto che - tra sec. XIII e sec. XIV - fu sede dell'archi­vio e del tesoro comunale. Nel vasto refettorio poi, si radunava spesso il Consiglio della città e si tenevano i pubblici esami di laurea per gli studenti di legge.

Nel corso dei secoli chiesa e convento subirono restauri e ritocchi. Tra 1602 e 1610 si pose mano ad una generale ristruttu­razione degli edifici che persero totalmente le primitive linee architettoniche gotiche. Un secondo notevole restauro fu effet­tuato nel 1761: in quell'occasione vennero ricostruite la faccia­ta e la cupola, su disegno dell'architetto Bernardo Vittone. Gli ultimi interventi di un certo rilievo risalgono agli anni 1863-1865.

Tra le opere d'arte segnaliamo: nel prebiterio, l'altare in marmo risalente al 1673, gli affreschi della volta (sec. XVII) ritoccati dal Morgari, e la vetrata raffigurante san Fran­cesco che riceve le stimmate, dei fratelli Bertini di Milano (sec. XIX); nella prima cappella a destra, due tele (Annunciazio­ne e Visitazione) di Giovanni Antonio Molineri (1577-1645); nella seconda cappella a destra, il bel crocifisso attribuito al luganese Carlo Giuseppe Plura (1655-1737); nell'ultima cappella a sinistra, il quadro dell'Angelo Custode di Pietro Ayres (1794-1878).

Il primo confessionale nella navata sinistra è quello in cui san Giuseppe Cafasso trascorreva molte ore della sua giornata. Attraverso il sacramento della Penitenza egli era guida spiritua­le di numerosi sacerdoti, di personaggi influenti della vita cit­tadina, ma anche di molti popolani. Aveva il dono di intuire le coscienze e convertire anche i cuori più duri. A lui si ricorreva nei casi disperati; in particolare gli si affidavano i condannati a morte più restii alla conversione.



3.3.2. Il Convitto Ecclesiastico


I Francescani furono allontanati dal convento annesso alla chiesa durante l'occupazione francese e lo stabile venne venduto in gran parte a privati. La parte adiacente alla chiesa fu desti­nata ad alloggio militare e ad abitazione per il rettore della chiesa stessa.

Il teologo Guala e le origini del Convitto


A questo compito nel 1808 fu nominato il teologo Luigi Guala (1775-1848). Egli era membro delle Amicizie Cattoliche, un'as­sociazione fondata dall'ex gesuita Nicolao de Diessbach (1732-1798) negli ul­timi decenni del Settecento e riorganizzata dal padre Pio Brunone Lanteri (1759-1830; fondatore degli Oblati di Maria Vergine), che tra i suoi scopi aveva la formazione del giovane clero e la diffusione di buoni libri tra il popolo.

Il Guala, constatando il vuoto formativo in cui, anche per le difficoltà del momento storico, erano lasciati i neo-sacerdoti, appena nominato rettore iniziò a tenere lezioni di teologia morale ad alcuni di essi. Con la Restaurazione l'inizia­tiva si consolidò ed egli ottenne l'uso degli ambienti rimasti invenduti dell'antico convento. Su suggerimento del Lanteri vi a­prì un Convitto Ecclesiastico (1817) al fine di perfezionare la formazione culturale, pastorale e spirituale di coloro che termi­navano gli studi seminaristici.



Impostazione del Convitto


I corsi duravano un biennio ed offrivano lezioni di teologia morale speculativa e pratica, affrontando problemi etici e modo di confessare e dirigere spiritualmente la varie categorie di persone. Erano anche offerte lezioni di omiletica.

La linea teologica adottata dal Lanteri e dal Guala era quella ignaziana ed alfonsiana, più benigna e positiva rispetto a quella rigorista tradizionalmente insegnata alla Facoltà Teologi­ca dell'Universita e perseguita da gran parte del clero piemonte­se.

Gli allievi venivano anche avviati all’attività pastorale con diverse esperienze nelle parrocchie della città. Si curava poi in modo particolare la loro vita spirituale e la preghiera. A questo scopo, ogni anno erano tenuti a frequentare gli esercizi spiri­tuali al santuario di sant'Ignazio di Lanzo, restaurato apposita­mente dal Guala che ne era anche rettore.

La giornata dei preti studenti si svolgeva secondo il se­guente orario:



Mattino: ore 5,30 levata, preghiera vocale e meditazione in comune; dalle 6,45 alle 9,00 tempo dedicato allo studio, durante il quale ognuno celebra privatamente la santa Messa e l'Ufficio; alle ore 9,00 tutti insieme assistono ad una Messa; dalle 9,30 alle 11,00 nuovamente un periodo di studio, cui fa seguito un "saggio" dello studio fatto e la lezione del Ripetitore; alle 12,00, dopo l'Angelus e l'ora media, pranzo con lettura, seguito da un momento di ricreazione.

Pomeriggio: ore 14,00 visita breve al SS. Sacramento e pas­seggio; 14,45 conferenza morale "pubblica", cioè aperta anche ai sacerdoti della città; 16,15 passeggio; 17,00 Rosario in comune e studio; 19,00 conferenza di morale e di confessione pratica; 20,00 lettura spirituale comunitaria su testi di ascetica; 20,30 cena e ricreazione; 21,45 silenzio, preghiere comuni, esame di coscienza e riposo.

Don Cafasso al Convitto


Don Giuseppe Cafasso, entrato al Convitto come studente nel 1834, e rimastovi poi come collaboratore del Guala, gli succedet­te prima come professore Ripetitore (1836), poi come professore principale (1843), infine, alla sua morte (1848), come rettore della chiesa e direttore del Convitto. Mons. Fransoni aveva tale fiducia nei due sacerdoti che affidava loro la scelta dei vice­parroci.

Sotto la direzione del Cafasso (1848-1860) il Convitto visse il suo periodo aureo. Uomo equilibratissimo e saggio, di­rettore spirituale ricercato, fu maestro di vita spirituale per il clero e contribuì in maniera determinante a quel fiorire di­ santità sacerdotale che è caratteristico dell'Ottocento torinese.



Cenni sulle vicende successive


Dopo la scomparsa del Cafasso il Convitto continuò sulla scia tracciata dal santo. Nel 1877 però, l'arcivescovo Gastaldi - che non condivideva le dottrine troppo benigniste propugnate dal direttore teologo Giovanni Battista Bertagna - intervenne pesan­temente, prima imponendo un altro direttore, poi, per la reazione degli studenti, chiudendo il Convitto (1878).

L'istituzione fu riaperta nel 1882, per incarico dello stes­so arcivescovo, dal canonico beato Giuseppe Allamano (nipote del Cafas­so e fondatore delle Missioni della Consolata), nei locali adia­centi al santuario della Consolata.



Don Bosco allievo del Convitto


Il 3 novembre 1841 don Bosco, seguendo il consiglio del Ca­fasso - che gli aveva detto: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto” (MO 116) - si trasferisce a Torino.

Del Convitto Ecclesiastico don Bosco darà questa sintetica descrizione:


“Il Convitto Ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico, perciocché ne' nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di morale si studia soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti. Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodi­tà di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine” (MO 116).
Egli viene accolto gratuitamente dal teologo Guala, del quale ha un'ottima impressione:
“Uomo disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di coraggio, si era fatto tutto a tutti in tempo del governo di Napoleone I (...). Era agitatissima la questione del proba­bilismo e del probabiliorismo (ndr.: due scuole di interpre­tazione morale, una meno e l'altra più rigorista).

(...)


Il T. Guala si mise fermo in mezzo ai due partiti, e per centro di ogni opinione mettendo la carità di N.S.G.C. riuscì a ravvicinare quegli estremi. Le cose giunsero a tal segno che, mercé il T. Guala, S. Alfonso divenne il maestro delle nostre scuole con quel vantaggio, che fu lungo tempo desiderato, e che oggidì se ne provano i salutari ef­fetti” (MO 117-118).

Don Cafasso maestro di Don Bosco


Per il giovane sacerdote il maestro vero è però il Cafasso alle mani del quale egli si abbandona con fiducia.

Alla scuola di questo formatore don Bosco accresce la sua cultura ecclesiastica e pastorale; è iniziato ad una robusta spi­ritualità sacerdotale; viene progressivamente introdotto a cono­scere, analizzare ed affrontare situazioni pastorali completamen­te diverse da quelle degli ambienti provinciali da cui proviene.

Don Cafasso gli insegna a coniugare santità personale, zelo apostolico ed arte pastorale. Lo avvia particolarmente alla cura di quelle categorie di persone che restano ai margini della ordinaria azione parrocchiale. Conosciuta la sua spiccata propensione al lavoro tra i giovani, lo mette a contatto con le fasce giova­nili più povere e abbandonate della città. Lo coinvolge nei cate­chismi ai piccoli muratori e agli spazzacamini; lo impegna nella assistenza spirituale presso i nuovi istituti di carità e di i­struzione che stanno sorgendo nella capitale (Cottolengo, Opera Pia Barolo, scuole della Regia Opera della Mendicità Istruita dirette dai Fratelli delle Scuole Cristiane); lo porta con sé nelle carceri; gli facilita la conoscenza con don Cocchi e gli altri sacerdoti che, in quegli anni, stanno iniziando l'esperien­za degli oratori.

Di questo maestro eccezionale Don Bosco testimonia:


“Don Caffasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio Direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di be­ne lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione del­la mia vita” (MO 119).
Grazie alla scuola del Cafasso e alle esperienze pastorali in cui egli lo coinvolge, il nostro Santo intuisce già l'impor­tanza di un metodo educativo e pastorale "preventivo", soprattut­to a favore di certe categorie di giovani più esposte al perico­lo:
“Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull'età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d'ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorri­dire (...). Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo pro­posito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti.

Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito, perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se quei giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li i­struisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere? Comunicai que­sto pensiero a D. Caffasso, e col suo consiglio e co' suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo, abbando­nandone il frutto alla grazia del Signore, senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini” (MO 119-120).



Nascita dell'Oratorio


Il fascino esercitato dal giovane sacerdote sui ragazzi si manifesta fin dai primi giorni della sua permanenza in Torino: e­gli lo interpreta come un appello del Signore a fare qualcosa di concreto per loro:
“Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, subito mi trovai una schiera di giovanetti, che mi seguivano pei via­li, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell'Istituto. Ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale” (MO 120-121).
L'occasione per iniziare gli è offerta dall'incontro provvi­denziale con Bartolomeo Garelli nella sacrestia di san Francesco, a poco più di un mese dal suo arrivo al Convitto, l'8 dicembre 1841, festa dell'Immacolata:
“Il giorno solenne dell'Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre 1841) all'ora stabilita era in atto di vestirmi dei sacri paramentali per celebrare la santa messa. Il cherico di sacristia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto lo invita di venirmi a servire la messa. Non so, e­gli rispose tutto mortificato.

- Vieni, replicò l'altro, voglio che tu serva messa.

- Non so, replicò il giovanetto, non l'ho mai servita.

- Bestione che sei, disse il cherico di sacristia, tutto furioso, se non sai servire messa, a che vieni in sacristia?

Ciò dicendo dà di piglio alla pertica dello spolverio, e giù colpi sulle spalle o sulla testa di quel poverino. Men­tre l'altro se la dava a gambe: Che fate? gridai ad alta voce. Perché battere costui in cotal guisa? che ha fatto?

- Perchè viene in sacristia, se non sa servir messa?

- Ma voi avete fatto male.

- A Lei che importa?

- Importa assai, è mio amico; chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui.

- Tuder, tuder, si mise a chiamare; e correndogli die­tro, e assicurandolo di miglior trattamento me lo ricondus­se vicino.

L'altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute. Hai già udita la messa? gli dissi colla amorevolezza a me possibile.

- No, rispose l'altro.

- Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlar­ti di un affare, che ti farà piacere. Me lo promise. Era mio desiderio di mitigare l'afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con quella sinistra im­pressione verso ai direttori di quella sacristia. Celebrata la santa messa e fattone il dovuto ringraziamento, condussi il mio candidato in un coretto. Con faccia allegra ed assi­curandolo, che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo così:

- Mio buon amico, come ti chiami?

- Mi chiamo Bartolomeo Garelli.

- Di che paese tu sei?

- D'Asti. - Vive tuo padre? - No, mio padre è morto. - E tua madre? - Mia madre è anche morta.

- Quanti anni hai? - Ne ho sedici.

- Sai leggere e scrivere? - Non so niente.

- Sei stato promosso alla s. comunione? - Non ancora.

- Ti sei già confessato?

- Sì, ma quando ero piccolo.

- Ora vai al catechismo? - Non oso. - Perché?

- Perché i miei compagni più piccoli sanno il catechismo; ed io tanto grande ne so niente. Perciò ho rossore di recar­mi a quelle classi.

- Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascol­tarlo?

- Ci verrei molto volentieri.

- Verresti volentieri in questa cameretta?

- Verrò assai volentieri, purché non mi diano delle ba­stonate.

- Sta tranquillo, ché niuno ti maltratterà. Anzi tu sarai mio amico, e avrai da fare con me e con nissun altro. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?

- Quando a Lei piace. - Stasera? - Sì.

- Vuoi anche adesso?

- Sì, anche adesso, con molto piacere.

Mi alzai, e feci il segno della S. Croce per cominciare, ma il mio allievo nol faceva, perché ignorava il modo di farlo. In quel primo catechismo mi trattenni a fargli ap­prendere il modo di fare il segno della Croce e a fargli co­noscere Dio Creatore e il fine per cui ci ha creati” (MO 121-122).
Un particolare, qui taciuto da don Bosco, sarà da lui rife­rito nel 1885 ai salesiani. Dopo il segno della croce aveva­no detto insieme un'Ave Maria: “Tutte le benedizioni piovuteci dal cielo sono frutto di quella prima Ave Maria detta con fervore e con retta intenzione insieme col giovanetto Bartolomeo Garelli là nella chiesa di S. Francesco d'Assisi” (MB 17, 510).
Dopo quel primo incontro, ogni domenica, si raduna al Con­vitto un gruppetto di ragazzi che va crescendo: nel febbraio suc­cessivo sono una ventina; trenta alla fine di marzo; quasi un centinaio per sant'Anna (26 luglio), festa patronale dei murato­ri.

I ragazzi che in questi primi tempi frequentano il nascente oratorio sono in prevalenza operai e manovali che trascorrono a Torino soltanto una parte dell'anno, quella libera dalle attività agricole (dal tardo autunno alla fine di giugno). Si tratta di “Savoiardi, Svizzeri, Valdostani, Biellesi, Novaresi, Lombardi” (MO 142). “In generale - don Bosco ci informa - l'Oratorio era composto di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, qua­dratori e di altri che venivano di lontani paesi. Essi non essen­do pratici né di chiese né di compagni erano esposti ai pericoli di perversione, specialmente nei giorni festivi” (MO 124).

Questo tipo di giovani, migratori stagionali, continuerà ad essere prevalente nell'Oratorio di don Bosco fin verso la metà degli anni Cinquanta, quando l'immigrazione in Torino divenne stabile.

È ancora don Bosco che ci descrive lo svolgimento di quelle riunioni domenicali al Convitto:


“Qui l'Oratorio si faceva così: Ogni giorno festivo si dava comodità di accostarsi ai santi sacramenti della con­fessione e comunione; ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera, ad un'ora determinata si cantava una lode, si faceva il ca­techismo, poi un esempio colla distribuzione di qualche co­sa ora a tutti ora tirata in sorte (...).

Il buon Teologo Guala e D. Caffasso godevano di quella raccolta di fanciulli e mi davano volentieri immagini, fo­glietti, libretti, medaglie, piccole croci da regalare. Tal­volta mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in mag­gior bisogno; e dar pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene da sé. Anzi, essendo cresciuto assai il loro numero, mi concedettero di poter qualche volta radunare il mio piccolo esercito nel cortile annesso per fare ricreazione. Se la località l'aves­se permesso, saremmo presto giunti a più centinaia, ma do­vemmo limitarci ad ottanta circa.

Quando si accostavano ai santi sacramenti lo stesso T. Guala e D. Caffasso solevano sempre venirci a fare una visi­ta e raccontarci qualche episodio edificante” (MO 123-125).
Durante la settimana, nei momenti di ricreazione, don Bosco teneva contatto con i ragazzi:
“Andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle offici­ne, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana e più ne' giorni festivi che sono giorni di maggior pericolo.

Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle sempre nell'oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la di­sgrazia di essere colà condotti; assisterli, rendermeli ami­ci, e così eccitati di venire all'Oratorio, quando avessero la buona ventura di uscire dal luogo di punizione” (MO 125).


L'amicizia, l'assistenza e l'attenzione personale ottengono risultati insperati anche per i ragazzi più difficili e convinco­no don Bosco dell'importanza di elaborare un metodo pedagogico e pastorale preventivo, basato su “amorevolezza, religione e ragio­ne”:
“Fu allora che io toccai con mano, che i giovanetti usci­ti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto padrone, e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, que­sti giovanetti si davano ad una vita onorata, dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini” (MO 122-123).
Alla conclusione del triennio trascorso al Convitto, Don Bosco, che sente sempre più forte la chiamata ad essere pastore dei giovani, resta tuttavia ancora incerto sulle scelte concrete a cui lo chiama il Signore:
“Un giorno D. Caffasso mi chiamò a sé e mi disse: Ora avete compiuto il corso de' vostri studi; uopo è che andiate a lavorare. In questi tempi la messe è copiosa assai. A qua­le cosa vi sentite specialmente inclinato?

- A quella che Ella si compiacerà di indicarmi.

- Vi sono tre impieghi: Vicecurato a Buttigliera d'Asti; Ripetitore di morale qui al Convitto; Direttore del piccolo Ospedaletto accanto al Rifugio. Quale scegliereste?

- Quello che Ella giudicherà.

- Non vi sentite propensione ad una cosa più che ad un'altra?

- La mia propensione è di occuparmi per la gioventù. Ella poi faccia di me quel che vuole; io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio.

- In questo momento, che cosa occupa il vostro cuore, che si ravvolge in mente vostra?

- In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi dimandano aiuto.

- Andate adunque, a fare qualche settimana di vacanza. Al vostro ritorno vi dirò la vostra destinazione.

Dopo quelle vacanze D. Caffasso lasciò passare qualche settimana senza dirmi niente; io gli chiesi niente affatto.

- Perché non dimandate quale sia la vostra destinazione? mi disse un giorno.

- Perché io voglio riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione e voglio metter niente del mio volere.

- Fatevi il fagotto e andate col T. Borrelli (ndr.: il teologo Borel); là sarete direttore del piccolo Ospedale di S. Filomena; lavorerete anche nell'Opera del Rifugio. Intan­to Dio vi metterà tra mano quanto dovrete fare per la gio­ventù” (MO 127-128).



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