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RAPPRESENTANZA POLITICA E DIRITTO DI VOTO IN ITALIA

3.1. Introduzione.

La trattazione che segue riguarda alcune significative esperienze italiane di partecipazione politica dei residenti stranieri. Si tratta di iniziative a livello comunale e regionale, alcune già avviate, come nel caso di Lecce o Torino, altre in itinere, come nel caso di Genova o Venezia. Sono esperienze diverse tra loro, anche se perseguono uno stesso scopo, in quanto le soluzioni di rappresentanza scelte sono di diverso tipo.

Alcune esperienze si potrebbero definire più avanzate ed innovative, come nel caso di Forlì, altre più istituzionali, come nel caso di Bolzano. Sono esperienze volute da giunte di sinistra, come nel caso della Regione Toscana, ma anche di destra, come a Lecce.

Emerge spesso la tendenza delle istituzioni a coinvolgere l’associazionismo, specie le realtà di volontariato italiano, al fine di trovare un raccordo con le comunità. Le comunità sono riconosciute come interlocutori delle amministrazioni locali più dei singoli, e questo perché gli stessi immigrati si relazionano alla politica più come esponenti della comunità, che come candidati individuali. In questo tipo di Consultazione politica degli stranieri è raro che si formino liste, non ci sono “partiti”, per lo meno a livello ufficiale. Il candidato è espressione della comunità, magari di un’associazione, quasi sempre a base etnica, o come si diceva, “sponsorizzato” da una realtà del volontariato italiano.

L’associazionismo straniero sembra languire in alcune realtà, come emerge dal caso di Torino, oppure sembra essere un ottimo canale di raccordo tra istituzioni e stranieri come nel caso delle Marche. L’esperienza di Torino porta infine in evidenza un’altra questione: quella se sia più efficace procedere per nomina o per elezione nella costituzione di organi collegiali come una Consulta.

Gli organismi elettivi di rappresentanza degli stranieri esistono da diversi anni, da prima dell’attuale dibattito sul diritto al voto (si veda tabella riassuntiva delle esperienze italiane). Il primo organismo di rappresentanza eletto è stato, storicamente, il Consigliere aggiunto del comune di Nonantola (Mo), nel 1994.

Le varie esperienze italiane, secondo la Caritas (Dossier Caritas, 2004), hanno avuto il merito di svolgere interventi a favore del diritto di voto, proponendosi come esempio di good practices, alimentando il dibattito politico nazionale, e iniziative a livello locale in vari settori (sociale, scuola, abitazione…) finalizzate alla elaborazione di progetti a favore di un’effettiva integrazione dei cittadini stranieri. La funzione di Consultazione, tipica di questo genere di organi, a livello teorico, risulta dall’analisi Caritas, scarsa o inesistente.

Secondo il Dossier Caritas 2004, le esperienze italiane, in questo senso, anche se positive, possono essere migliorate:



  1. alla rappresentanza occorre garantire un supporto materiale e finanziario;

  2. vi è la necessità di porre attenzione al rafforzamento delle competenze degli interessati (conoscenza dei sistemi istituzionali, amministrativi e politici locali);

  3. occorre prevedere forme di accompagnamento non invasivo (nei processi decisionali o nei rapporti con i media);

  4. vanno chiariti i ruoli, le funzioni e migliorata la qualità dell’interazione con le istituzioni.

Si sottolinea la necessità di non limitare l’intervento degli stranieri alla segnalazione dei “problemi degli stranieri”, o presunti tali, manca inoltre un reale rapporto delle Giunte con le Consulte e di queste con la base.

Le rappresentanze dovrebbero curare il loro rapporto politico con la base ed evitare di essere dimenticate dagli elettori o di farsi dimenticare.

Recentemente numerosi comuni, partendo dalle proprie prerogative di autonomia, hanno introdotto nei propri statuti norme specifiche che prevedono la partecipazione politica dei residenti stranieri. Le modifiche apportate al titolo V della Costituzione hanno aperto la via italiana ad un “federalismo possibile” (Mosconi R., 2002).


    • Le leggi in materia di immigrazione.

Le norme in materia di ingresso e di soggiorno in Italia dei cittadini extracomunitari sono stabilite dal D. Lgs. N. 286/1998, che costituisce il “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Questo provvedimento, oltre a dettare norme innovative, raccoglieva organicamente, al momento della sua emanazione, e risistemava la legislazione previdente in tema di disciplina del lavoro delle persone straniere non appartenenti all’Unione Europea ed agli apolidi. Recentemente, pur mantenendo il suo impianto strutturale, esso è stato oggetto di profonde modifiche dopo l’approvazione della L. 23 agosto 2002, n. 189 pubblicata sulla G. U. 31 agosto 2002. Così come la versione originaria del testo era nota come “legge Turco-Napolitano” dal nome dei due esponenti politici che l’avevano ispirato, così la sua riforma è detta Bossi-Fini sempre dal nome degli esponenti dell’attuale governo ai quali è stata attribuita l’idea di partenza.

Il testo non costituisce il primo intervento sulla materia, che si ebbe invece con la legge n. 943/1986 che recava “norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”, completato ed integrato con la successiva legge n. 39/1990. ambedue queste leggi, che vengono comunemente citate come “legge Martelli”, affrontano la problematica ancora in maniera incompleta, cercando di dare le prime risposte ad un fenomeno che cominciava a manifestarsi senza precisi confini legislativi, avendo comunque già da allora il merito di aprire la strada a successivi tentativi di sistematizzazione organica della questione immigrazione. È stato importante che, in sede di legge n. 943/1986, per la prima volta si sia data soluzione normativa riguardo l’accesso per motivi di lavoro e che la n. 39/1990 abbia disposto in materia di diritto di asilo. Inoltre quest’ultimo provvedimento ha avuto il merito di essersi collocato in un contesto culturale di apertura, più civile ed umanitaria che politica, verso il fenomeno dell’immigrazione, che si stava consolidando e stava favorendo nuove dinamiche nel mondo del lavoro e specie nella vita delle grandi città. Il limite maggiore di questa legge è stato individuato nella sanatoria a cui diede inizio, e secondo alcuni nel permissivismo eccessivo che avrebbe causato un collettivo deficit di sicurezza e un appesantimento nei rapporti tra la cittadinanza italiana e le comunità di immigrati. Rispetto la situazione precedente si attuano alcuni importanti riconoscimenti:



  1. il diritto di cittadinanza viene inteso come un diritto realmente fruibile, in quanto lo straniero iscritto al collocamento può infatti lavorare godendo gli stessi diritti del lavoratore italiano;

  2. l’accesso alla sanità diventa automatico dal momento in cui l’immigrato ottiene il permesso di soggiorno;

  3. si costituiscono i centri di prima accoglienza;

  4. si inaugura la fase di programmazione dei flussi;

  5. vengono previsti fondi destinati alle politiche di immigrazione.

In seguito, dopo la legislazione del 1995 (decreto 416, cosiddetta “legge Dini” ) che si occupava essenzialmente della regolarizzazione delle posizioni contributive, si arriva alla “legge Turco-Napolitano”. Si tratta del provvedimento legislativo che è stato in vigore fino all’approvazione della “legge Bossi-Fini”, che vi ha apportato delle modifiche in senso restrittivo.

Rispetto ai precedenti legislativi, il Testo Unico ha l’ambizione di rappresentare un corpo organico di disposizioni. Esso affronta gruppi di questioni che non esauriscono completamente tutto il terreno dei rapporti che coinvolgono gli stranieri, ma che inquadrano certo i problemi principali. Vengono affrontati quattro gruppi di argomenti fondamentali:



  1. ingresso e soggiorno degli stranieri;

  2. controllo delle frontiere e provvedimenti ad esso connessi;

  3. disciplina del lavoro;

  4. sanità, istruzione, alloggio e partecipazione degli stranieri alla vita pubblica e sociale,

il tutto inquadrato sotto una duplice ottica: da una parte la necessità di assicurare la regolarità delle condizioni di ingresso e di soggiorno, dall’altra l’esigenza di garantire un’effettiva parità di trattamento tra cittadini stranieri e cittadini italiani o comunitari e un’efficace tutela a favore di chi possa trovarsi in condizioni di svantaggio.

    • Il dibattito sul diritto di voto.

Raramente si riscontrano disposizioni costituzionali che esplicitamente sbarrino la strada all’estensione del diritto di voto ai non cittadini. Le Costituzioni europee contengono in genere espressioni non dissimili da quella utilizzata nell’art. 48 della Costituzione italiana, la quale, se da un lato si riferisce esplicitamente ai cittadini, dall’altro, sembra offrire loro la tutela costituzionale del diritto di voto, non la riserva dello stesso. Una risposta alla questione non è da rintracciarsi nella lettura “letterale” della costituzione, ma nel riconoscimento dell’appartenenza alla comunità politica.

Una parte della giurisprudenza italiana, fedele all’insegnamento di Paolo Barile (sostenitore di un’interpretazione aperta del dettato costituzionale) sostiene che l’art. 48 non andrebbe letto come norma che precluda l’estensione al non cittadino, delle libertà politiche, ma esclusivamente come autorizzazione al legislatore a operare una differenziazione dove lo ritenga politicamente opportuno. Dopo l’entrata in vigore della cittadinanza europea, la rigidità della connessione cittadinanza-diritto di voto non ha più ragione di essere: l’art. 48 ha la portata di riconoscere e garantire ai cittadini l’inviolabilità del diritto di voto e quindi di non precluderlo agli stranieri o a talune loro categorie che il legislatore volesse identificare. Ne segue che mentre il diritto di voto per i cittadini costituisce l’oggetto di una tutela di rango costituzionale, quello ai non cittadini rimane legalmente o politicamente condizionato (Franchi Scarselli G., 2003). Come dimostra anche il dibattito e la giurisprudenza costituzionale dei paesi europei che hanno affrontato la questione, l’esame dell’opportunità di concedere il diritto di voto amministrativo ai residenti extracomunitari chiama in causa categorie fondanti: il concetto di democrazia, sovranità, popolo. Tutta la giurisprudenza è d’accordo che è in discussione solo il diritto di voto amministrativo.

Per Grosso ( Grosso E., 2001) si potrebbe leggere il corpo elettorale non come composto da cittadini ma come un organo costituzionale della Repubblica, in grado di simboleggiare i principi della comunità politica. Potrebbe essere una base di identificazione diversa dalla comunità nazionale, un luogo dove si affermano i diritti e si richiede l’adempimento dei doveri. Di una comunità costituita in seno alla Repubblica farebbero parte tutti coloro che, sebbene stranieri senza cittadinanza, convivono stabilmente con i cittadini italiani godendo di diritti e adempiendo a dei doveri: persone integrate nella nozione di Repubblica se non necessariamente in quella di popolo. Secondo Franchi Scarselli (Franchi Scarselli G., 2003), invece, l’improvvisa urgenza delle amministrazioni locali di stabilire il riconoscimento del voto potrebbe tradire l’esigenza di doversi sollevare dall’onere di politiche sociali divenute insostenibili (questo anche perché lo Stato si sarebbe limitato a gestire le politiche degli ingressi senza fornire agli Enti Locali gli strumenti per organizzare l’accoglienza e l’integrazione). Sottolinea però che la giurisprudenza si sta aprendo all’opportunità di voto, mentre sembra mancare “l’opportunità politica” di un simile cambiamento. Del resto il T. U. dispone che allo straniero (anche se irregolare) “sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana” (art. 2, comma 1), e che quello “regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano” (comma 2), tant’è che la “Repubblica […] garantisce a tutti i lavoratori stranieri […] piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani” (comma 3). Riconosciuta ai cittadini comunitari una cittadinanza politica a prescindere dal requisito della nazionalità, il collegamento con la comunità politica non è più da riconoscersi nel possesso della cittadinanza.

In Italia l’idea di popolo sovrano non è mai stata da impedimento ( a differenza di Francia e Germania) ad un’interpretazione estesa della norma costituzionale che garantisce il diritto di voto. La visione habermasiana (cit. in Grosso E., 2001) vede la comunità di cittadini fondata non sui legami di sangue ma sui diritti individuali e sui principi di libertà e democrazia politica sanciti dalle costituzioni. Sartori (Sartori, cit. in Grosso E., 2001) sostiene che, entrato in crisi il tradizionale concetto di comunità nazionale, gli europei sono oggi alla ricerca di una diversa idea di comunità nella quale riconoscersi, comunità che sono tali perché mantengono un confine tra noi e loro. Ogni comunità presupporrebbe quindi un’esclusione, anche la comunità più aperta e pluralista rifiuterebbe di accettare “l’irrimediabilmente diverso”. Certo entrare in una comunità pluralistica presuppone un acquisire e un concedere, ma è sicuro che i residenti stranieri interessati da questo discorso sono persone che adempiono doveri e reclamano diritti, che chiedono il voto proprio in virtù di una volontà di adesione, di un sentimento di appartenenza che chiede solo di avere la possibilità di accrescersi.

Nel febbraio 1997 il governo presentò, all’interno del disegno di legge sull’immigrazione, una proposta diretta a consentire il voto attivo e passivo alle elezioni locali a tutti gli stranieri in possesso della carta di soggiorno17. L’iniziativa era in qualche modo giustificata dalla firma della Convenzione di Strasburgo “sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale”, adottata dal Consiglio d’Europa il 5 febbraio 1992, il cui capitolo C, all’articolo 6, riconosce il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni locali per chi risieda abitualmente e legalmente in uno Stato firmatario, indipendentemente dalla sua cittadinanza nazionale.

“ Ogni partito si impegna, sotto riserva delle disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 1, ad accordare il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni locali a tutti i residenti stranieri, purché costoro rispettino le stesse condizioni che si applicano ai cittadini e , inoltre, abbiano risieduto legalmente e abitualmente nello Stato in questione durante i cinque anni precedenti le elezioni”. (Consiglio d’Europa, 1992).

L’Italia ha sottoscritto la Convenzione nel 1992, ma la legge di ratifica del 1994 ha espressamente escluso, diversamente da quanto accaduto altrove, l’adesione del capitolo C18.

La disposizione sul voto dopo breve discussione parlamentare fu stralciata dal testo del disegno di legge poi approvato definitivamente nel 1998, con la motivazione che essa avrebbe portato l’intervento della Corte Costituzionale per violazione dell’art. 48. Ma, secondo Franchi Scarselli (Franchi Scarselli G., 2003), si è trattato piuttosto di una preoccupazione di rango politico, appurato che la lettura dell’art. 48 non fosse rigida, dato che “tutto ciò che la Costituzione espressamente non vieta, la Costituzione permette” (Luciani M., 1999).

I critici del voto amministrativo in Italia non si sono mai mobilitati per la revisione della legge 91 del 1992, che ha reso l’accesso alla cittadinanza per i non comunitari più difficile, raddoppiando il numero degli anni richiesti da 5 a 10, ed ha indurito anche i requisiti per i minori nati in Italia, ai quali si richiede la residenza legale continuativa.

Più di recente, il 5 e 6 novembre 1999, il Conseil Consultatif des étrangers di Strasburgo e il Congrès des pouvoir locaux et régionaux del Consiglio d’Europa hanno adottato « l’appello di Strasburgo » :



"agli Stati membri del Consiglio d’Europa…perché permettano ai residenti stranieri senza distinzione di nazionalità di ottenere il diritto di voto e di eleggibilità a livello locale".

Questo appello afferma saldamente nel suo punto 4:



"in questo spirito, i partecipanti ritengono discriminatoria una cittadinanza limitata ai soli cittadini dell’Unione europea […] la democrazia, la libertà e la prosperità in Europa passano per l’impegno di tutti i cittadini residenti a partecipare all’edificazione di un’Europa democratica per tutti ".

Due nozioni sono qui importanti: attribuire il diritto di voto ai soli cittadini europei è considerato discriminatorio. Non si parla delle modalità delle elezioni del parlamento europeo, riservate ai soli cittadini membri, perché il Consiglio d’Europa cerca ovviamente di non interferire nelle questioni dell’Unione Europea. Viene però rilevata l’importante nozione di cittadino residente.

Il dibattito a livello nazionale sul diritto di voto amministrativo per gli immigrati è stato improvvisamente rilanciato da una dichiarazione dell’allora vice-presidente del Consiglio dei Ministri Gianfranco Fini nell’ottobre 2003, il quale nel corso di un convegno svoltosi al Cnel ha ventilato tale ipotesi. In seguito il suo partito, Alleanza Nazionale, ha concretizzato l’iniziativa, presentando una proposta di legge costituzionale per modificare l’articolo 48 (A.C. 4397, Annedda e altri).

Le proposte in questo momento in esame sono sette (più una presentata dall’assemblea regionale siciliana per la modifica del proprio statuto, che richiede una legge costituzionale), e prevedono tutte una modifica o una riformulazione dell’art. 48 della Costituzione. Mentre alcune proposte attribuiscono ai cittadini stranieri sia l’elettorato attivo che passivo, altre si limitano a proporre il diritto di votare, escludendo quello di essere eletti e di candidarsi alle elezioni. Anche gli anni di residenza necessari ad esercitare il diritto variano da un minimo di tre (A.C. 1616, Soda), a sei anni (è il caso della già citata proposta di AN). Quest’ultima proposta prevede inoltre che “l’esercizio del diritto cui al comma 1 è riconosciuto a coloro che ne fanno richiesta”. Inutile rilevare che in tal modo si limita fortemente l’effettivo accesso al diritto di voto, scoraggiando la partecipazione politica con una ulteriore procedura burocratica. Ecco la proposta di modifica dell’art. 48 della proposta di legge di AN:

Articolo 48-bis.

Agli stranieri non comunitari che hanno raggiunto la maggiore età , che soggiornano stabilmente e regolarmente in Italia da almeno sei anni, che sono titolari di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi, che dimostrano di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari e che non sono stati rinviati a giudizio per reati per i quali è obbligatorio o facoltativo l’arresto, è riconosciuto il diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni amministrative in conformità alla disciplina prevista per i cittadini comunitari.

L’esercizio del diritto cui al comma 1 è riconosciuto a coloro che ne fanno richiesta e che si impegnano contestualmente a rispettare i principi fondamentali della Costituzione italiana.”

La scelta di proporre un disegno di legge costituzionale sposa, di fatto, la tesi di chi ritiene che la formulazione attuale della Costituzione rappresenti un ostacolo insormontabile alla concessione del diritto di voto agli stranieri. Come già detto, parte della dottrina non ritiene necessaria questa modifica, anche perché le elezioni amministrative non coinvolgerebbero organi legislativi. Va notato poi che lo stesso T.U all’articolo 9 comma d afferma:

Il titolare di carta di soggiorno può (…) partecipare alla vita pubblica locale, esercitando anche l’elettorato quando previsto dall’ordinamento ed in armonia con le previsione del capitolo C della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992.”


    • Forme di consultazione

In Italia già la legge del 1986, n. 943 prevedeva l’istituzione di una Consulta nazionale per i problemi dei lavoratori non comunitari e delle loro famiglie (art. 2 comma 1), composte secondo logiche di concertazione tra le parti sociali19, nonché di Consulte regionali (art. 2 comma 7) la cui composizione e le cui modalità di formazione dovevano essere stabilite con legge regionale20. Il modello è quasi subito entrato in crisi, per alcuni a causa della scarsa partecipazione degli stessi immigrati, per altri a causa di un problema sulle modalità di rappresentanza: infatti l’individuazione degli esponenti delle associazioni più rappresentative si è rivelato difficile, il numero dei rappresentati stranieri è stato triplicato rimandando di tre anni l’attuazione dell’istituzione. Forse per questo le analoghe iniziative degli ultimi anni tentano di avvicinarsi maggiormente alle singole realtà locali. Alcuni comuni hanno difatti istituito Consulte municipali direttamente elette dagli immigrati residenti, che funzionano da organismi consultivi del Consiglio o della Giunta su tutte le questioni riguardanti l’immigrazione. La legge Martelli del 1990 non ha introdotto grandi innovazioni sul tema dell’integrazione e partecipazione, limitandosi ad un impulso importante all’associazionismo, cresciuto numericamente ma ancora debole sul piano organizzativo e della legittimità istituzionale. Il ruolo dell’associazionismo è sancito dalla legge 40 del 1998 (cui ha fatto seguito un Testo Unico) proponendo politiche locali a sostegno dell’associazionismo, con messa a disposizione di sedi, contributi finanziari, assistenza tecnica, partenariati con istituzioni pubbliche, gestione di progetti di integrazione.

La legge del 1998 ha poi istituito i Consigli territoriali per l’immigrazione, con compiti di programmazione delle politiche di integrazione e di coordinamento delle singole Consulte comunali. A tali organismi paritetici partecipano, oltre a una rappresentanza politica dei comuni, le associazioni del volontariato che si occupano di immigrati, le associazioni degli immigrati, i sindacati e le associazioni imprenditoriali. I Consigli territoriali per l’immigrazione sono istituiti a livello locale, privilegiando la dimensione provinciale o le grandi aree metropolitane per favorire la partecipazione degli immigrati stessi. La legge prevede che i Consigli territoriali abbiano il compito di monitorare, a livello locale, l’insieme dei problemi connessi al fenomeno migratorio, quindi non soltanto la politica di integrazione, ma l’insieme delle dimensioni e delle caratteristiche del fenomeno a livello locale, ma anche quello di avanzare proposte e suggerimenti all’azione del governo e di tutti gli attori locali che intervengono su questa materia.21

Un altro strumento molto importante sancito dalla Turco-Napolitano è stato la Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati22: un organismo di grande rilievo, la cui esperienza è oggi conclusa (ha redatto due rapporti sull’integrazione degli immigrati) Si tratta di un organismo nuovo per il nostro paese, che ha avuto il compito di avanzare al governo proposte sui temi complessivi della politica dell’immigrazione, soprattutto sulle politiche di integrazione degli immigrati, e di aiutare il governo a dirimere eventuali controversie o comunque di dare risposte a quesiti che emergevano dalle diverse situazioni.

Il Testo Unico ha istituito ai sensi dell’art. 42 comma 4 la Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, presso la presidenza del Consiglio dei ministri e presieduta dal presidente del Consiglio o da un ministro delegato.



Si pone come sede di raccolta di tutte le informazioni riguardanti l’applicazione della legge, semplifica e omogeneizza le procedure per il rilascio dei permessi di soggiorno, tutela la maternità delle donne straniere, chiarisce la documentazione per i ricongiungimenti familiari e le modalità di riconoscimento dei leader o delle associazioni rappresentative. Lo stesso articolo 42, comma 3 del T.U. ha istituito inoltre presso il Cnel un organismo di coordinamento delle amministrazioni locali che prevede anche la partecipazione di esponenti delle comunità di stranieri.
forme sperimentali di rappresentanza degli immigrati in italia

Città

Forma

Base giuridica- regolamento

Ultime elezioni

Membri

Di cui donne

% votanti

Padova

Consigli comunità straniere

Delibere di giunta: 51, 105 e 477 del 2002

2003

6

2




Torino

Consulta com.




1995







21,0%

Ancona

Consiglieri aggiunti

Atto del consiglio num.11 del 2001

2001

2

0

26,5%

Lecce

Consigliere agg.

Delibera 122 del 2002

2003

1

0

24,8%

Roma

Consulta cittadina e Consiglieri aggiunti

Delibera 190 e 191 del 2003

2004

23 + 4

7

57,3%

Bolzano

Consulta

degli immigrati



Delibera 38 del C.C. del 2003

2004

16

6

43,0%

Modena

Consulta com.

Delibere del C.C. 83/1996, 66/1999, 40/2003

1999

20

4

23,0%

Ravenna

Consulta Com.

Delibera di C.C. 49/2003 e deliberazione del 29 aprile 2003

2003

21

3

22,7%

Forlì

Consulta com.

Delibere di C.C. 205/1997 e 48/2000

2000

11

1

32,2%

Cesena

Consulta com.

Delibera di C.C. 94/2001

2002

17

2

19,1%

Rimini Prov.

Consulta prov.

Delibera di C.C.

2002

11

0

25,0%

Fonte: Caritas, 2004, p. 194

Negli anni Novanta si sono andate diffondendo in molte città italiane esperienze di partecipazione elettorale che supplissero alla scarsa rappresentatività dell’associazionismo straniero interpellato dai canali tradizionali. Sono state istituite Consulte comunali o Consiglieri aggiunti, designati direttamente dagli immigrati regolarmente residenti. La prima Consulta comunale ad essere stata istituita, nel 1995, è quella di Torino, cui hanno fatto seguito nel 1996 Modena e Padova, nel 1999 Palermo, nel 2004 Roma. Si tratta di organismi consultivi del Consiglio e della Giunta regionale che possono interpellarli quando siano in discussione questioni riguardanti l’immigrazione. Hanno quindi poteri e autonomia scarsi.



I Consiglieri aggiunti sono rappresentanti eletti dagli immigrati che hanno il diritto di partecipare alle sedute del consiglio comunale, di intervenire su tutte le questioni poste all’ordine del giorno, di avanzare proposte ed interpellanze, ma non hanno diritto di voto. Il primo comune ad istituire nel 1994 due Consiglieri aggiunti è stato quello di Nonantola (Modena), seguito da Empoli (un Consigliere), Bologna (tre Consiglieri comunali aggiunti più uno per ciascuna delle nove circoscrizioni cittadine), Macerata, Urbania, Chiaravalle, Ancona (due Consiglieri aggiunti nel Consiglio Provinciale e uno in quello Comunale), Roma. A Pompei all’istituzione formale nel 1998 non ha ancora fatto seguito l’attivazione concreta.23


    • Associazionismo

La legge prevede che gli immigrati possano partecipare alla pari degli italiani ad organismi di rappresentanza degli interessi, come sindacati, associazioni di categoria, comitati di quartiere, e possano comunque avere proprie associazioni nelle quali ritrovarsi, custodire la propria cultura e le proprie tradizioni, ricevere e dare solidarietà, trovare l’energia per affrontare la nuova realtà. La legge non prevede quindi una partecipazione politica su base etnica, ma una forma di partecipazione alla vita pubblica alla pari dei cittadini italiani.

La disponibilità a riconoscere agli stranieri regolarmente residenti le più ampie garanzie sul piano delle libertà associative, sia sindacali che politiche, e attraverso tale canale garantirne in qualche misura l’accesso al decision making, si accompagna spesso alla rigida chiusura in merito alla questione della partecipazione diretta alla formazione delle assemblee politiche locali. Proprio per questo i canali della partecipazione politica degli stranieri sono per lo più mediati, in quanto vengono gestite dalle stesse associazioni di volontariato volute dai governi, le quali, nate con l’obiettivo della prima assistenza, sono ormai ovunque impegnate nella promozione dei diritti e nella rappresentanza delle istanze politiche provenienti dal mondo dell’immigrazione. Come è avvenuto in passato in paesi di più vecchia immigrazione, gli interessi degli immigrati sono tutelati oggi in Italia da una costellazione di associazioni di volontariato, sindacati, gruppi di avvocati progressisti e dei settori più illuminati dei pubblici amministratori locali, degli operatori dei servizi sociali, dei giudici (specie dei tribunali minorili), degli studiosi della materia. Questa costellazione benevola viene definita da Zincone “lobby dei gruppi deboli” ( Zincone G., 1999, p. 17), essa ha premuto perché si avviassero comportamenti e pratiche che all’inizio aggiravano o violavano le leggi vigenti (come la fruizione dell’istruzione o della sanità da parte di immigrati irregolari), ma che sono poi divenuti circolari, in seguito decreti, ed infine leggi dello stato. Ha premuto per ottenere regolarizzazioni frequenti e per ammorbidire i requisiti di ammissione, fornendo pezze d’appoggio a volte non proprio inoppugnabili. Proprio perché indirizzata ai deboli, questa lobby si è occupata prioritariamente della protezione primaria: il permesso di soggiorno per gli irregolari.

Il voto agli immigrati non solo riporterebbe la rappresentanza di questa fascia di popolazione, almeno in parte, sui binari principali e corretti, ma riequilibrerebbe l’eccesso di attenzione e di tutela che hanno avuto in Italia i comportamenti illegali rispetto a quelli legali e, nel lungo periodo, potrebbe contribuire a rendere possibile un’apertura reale di flussi regolari, e quindi praticabile e persino più conveniente entrare e lavorare nel nostro paese.

A tali associazioni si sono gradualmente affiancate quelle costituite dagli stessi immigrati a fini di autoespressione culturale (incontro con i connazionali, celebrazione di feste e ricorrenze…) e di affermazione e difesa della propria identità, le quali fungono da ponte tra le comunità e le istituzioni. All’inizio le associazioni hanno solo un carattere informale, e assolvono soprattutto alla prima funzione. La seconda è invece caratteristica di un processo di stabilizzazione, e richiede che le associazioni medino istanze differenti attenuando i conflitti.

L’associazionismo immigrato, nato per tenere i contatti con il paese di origine e con i connazionali, con il tempo si è trasformato, soprattutto attraverso le nuove associazioni, in uno strumento di “tutela dei bisogni degli immigrati”, assorbito quindi dalla necessità di “creare e mantenere rapporti con le amministrazioni locali” svolge una modesta attività clientelare. In realtà non è detto che le associazioni dei residenti stranieri siano realmente rappresentative, nel senso che queste possono diventare una sorta di “contenitore etnico” la cui formazione è incoraggiata dalle istituzioni per cooptare degli interlocutori.

In base ai dati raccolti nel 1999 dalla Fivol - Fondazione Italiana per il Volontariato (Frisanco R., Ranci C., 1999) sono presenti sul territorio nazionale 470 associazioni di immigrati e 631 associazioni di volontariato che si occupano di immigrazione, il 35% nel nord ovest, il 25% nel nord est, il 27% al centro, il 10% al sud e il restante 3% nelle isole. Presso il Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei ministri è istituito il “Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati”, l’attività di istruttoria delle richieste è stata, come segnalato dal Secondo Rapporto sull’integrazione degli immigrati, molto intensa. A partire dal primo gennaio 2000, l’iscrizione è condizione necessaria per accedere, direttamente o attraverso convenzioni con gli enti locali, ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche migratorie. Il registro è diviso in tre sezioni: la prima è riservata agli enti che svolgono attività a favore dell’integrazione sociale degli stranieri, la seconda agli enti che offrono garanzie per l’ingresso di stranieri in Italia per inserimento nel mercato del lavoro; la terza agli enti che svolgono programmi di assistenza e protezione sociale.



Associazionismo in Italia.

Regioni

Associazioni

Totale




Straniere

Italiane




Piemonte

49

160

209

Val d’Aosta

1

1

2

Liguria

31

14

45

Lombardia

36

91

127

Friuli V.G.

2

20

22

Trentino A.A

1

12

13

Veneto

49

33

82

Emilia R.

50

102

152

Umbria

10

9

19

Marche

8

18

26

Toscana

62

23

85

Lazio

128

41

169

Abruzzo

3

3

6

Molise

-

1

1

Campania

8

30

38

Puglia

24

36

60

Basilicata

-

1

1

Calabria

2

8

10

Sicilia

6

25

31

Sardegna

-

-

-

Totale

470

631

1101

Fonte: Frisanco R., Ranci C., 1999

Possono iscriversi al Registro tutte quelle associazioni, enti ed organismi privati che abbiano un’organizzazione interna democratica, una sede legale in Italia, un bilancio pubblico e accertate modalità di finanziamento, almeno due anni di esperienza nel settore dell’integrazione degli stranieri e che non abbiano fini di lucro. Queste condizioni risultano un filtro di selezione per molte associazioni. È il triennio 1990-1992 che si ha un incremento nella formazione di nuove associazioni. Tale fenomeno trova giustificazione nel fatto che gli anni 1987-91 sono quelli di un fermento politico favorevole al mondo dell’immigrazione (nel 1990 viene promulgata la legge Martelli).

Probabilmente anche la concorrenza con le più forti associazioni italiane, spesso religiose, ha contribuito al successivo affievolimento del mondo associativo straniero. Inoltre le associazioni immigrate sono soggette a continui cambiamenti dei referenti e delle sedi e quindi sono difficili da monitorare.

La fondazione Corazzin di Venezia ha svolto un’analisi sull’associazionismo straniero per conto dell’Organismo Nazionale per il Coordinamento delle politiche migratorie del Cnel (Vincentini A., Fara T., 2001). Dall’analisi emerge che le associazioni africane rappresentano la maggioranza (40%), seguono quelle asiatiche (13%), quelle dell’est Europa (6%), e dell’America Latina (6%). Il campione restante è rappresentato da associazione che nascono all’interno di strutture o associazioni italiane, oppure da associazioni “miste” che fanno cioè riferimento a più gruppi di immigrati.





Fonte: Vincentini A., Fara T., 2001

In base al criterio dell’appartenenza si può fare la distinzione tra associazioni etniche, formate dai membri di un’unica comunità; interetniche, caratterizzate dalla collaborazione tra la componente immigrata ed una componente italiana; multietniche, che vedono l’associazione di stranieri di diverse nazionalità. Le associazioni etniche sono le più numerose. Le tematiche principali che le associazioni di stranieri affrontano sono quelle legate al lavoro e all’inserimento degli immigrati a livello locale. A tale scopo gli interlocutori privilegiati risultano Enti Locali, Questure, Prefetture, cioè le strutture competenti in materia di regolarizzazione e di altre procedure amministrative di interesse per gli stranieri. C’è da aggiungere che le organizzazioni possono essere “trapiantate”, vale a dire succursali di associazioni già esistenti nei paesi di origine, o “costituite ex novo”. Le organizzazioni trapiantate sono spesso di tipo religioso e partecipano attraverso azione aggregativa all’assistenza e alla promozione dell’inserimento socio-economico.

I sacerdoti, pastori, o imam sono spesso mandati all’estero dalle congregazioni di appartenenza, oppure direttamente dagli organi istituzionali competenti, con lo scopo di animare le rispettive comunità. Potrebbero avere anche natura politica, e sono volte a tenere alta l’attenzione sulle vicende dei propri paesi d’origine, magari tentando di organizzare un’opposizione lì dove queste formazioni risultano illegali in patria.

Le associazioni nate in Italia, invece, si sono trovate spesso in conflitto con le realtà locali, soprattutto con i sindacati, che si muovono con più autorevolezza in base ad una più alta capacità di contrattazione. La conflittualità è andata poi risolvendosi con l’ingresso di leader stranieri nelle organizzazioni sindacali.





A proposito di leaderhip, se ne potrebbero individuare tre tipologie principali: la prima vede un leader integrato nella comunità di riferimento, ma distaccato dalle istituzioni e dalle altre organizzazioni settoriali. Si tratta dunque di una leaderhip limitata a determinate attività di supporto ai connazionali, di circolazione di informazioni, di mobilitazione di reti primarie di servizi. Il secondo tipo di leaderhip risulta invece piuttosto distaccata dalla comunità di riferimento, ma integrata nelle relazioni con le istituzioni e con le altre organizzazioni settoriali.

Negli anni, poi, abbiamo visto la Consulta diventare un momento di rappresentanza di élite, all’interno del quale un gruppo etnico organizzato delegava un suo rappresentante”. (Maricos M., 1999, p.76).

Mentre la prima forma potrebbe essere definita come emergenziale ed etnica (CNEL, 2000), quest’ultima è una modalità “politica” di rappresentanza. Infine si può far riferimento ad una leaderhip integrata sia nelle collettività di riferimento che nelle relazioni con istituzioni ed associazioni. Quest’ultima forma, evidentemente più efficace, costituisce un luogo di incontro dove formulare domande ed elaborare risposte. In questo modo si darebbe voce alla comunità attraverso la rappresentanza diretta data dal leader che comunica le istanze all’esterno, colmando la debolezza politica delle associazioni straniere, troppo spesso relegate al mantenimento dell’identità culturale, ma poco abituate ad agire politicamente. Il problema, emerso anche nelle elezioni romane dei Consiglieri aggiunti, è un po’ quello che tutti cercano di rappresentare gli immigrati quando invece gli immigrati dovrebbero rappresentarsi da sé, proprio attraverso l’associazionismo.


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