Sulla posizione degli imputati
I difensori degli imputati CARBONI e CALO’ hanno segnalato l’incongruenza della sentenza di I grado, la quale ha, per un verso, dichiarato inattendibili i collaboratori di giustizia, laddove hanno lanciato accuse nei confronti degli imputati, mentre, per l’altro, le ha considerate attendibili con riferimento alle cause della morte del banchiere e all’attività di riciclaggio dei denari provento dell’attività di Cosa Nostra e della Camorra, effettuata da Roberto CALVI per il tramite del Banco Ambrosiano.
Invero, ciò che appare singolare è esattamente l’opposto. Il ragionamento deve essere capovolto. Il giudice in prime cure, da un lato, ha correttamente riconosciuto l’affidabilità dell’apporto fornito dai collaboratori di giustizia, con riferimento al fatto che CALVI fu assassinato con una messa in scena (valorizzando, dunque, anche l’apporto di GIUFFRE’, il quale ha riferito, sin dal primo interrogatorio reso il 4.12.2002 - pag. 21 e 22 verbale riassuntivo e pag. 172-184 della trascrizione –vedi all. n. 22) e l’innegabile circostanza inerente all’attività di riciclaggio effettuata da CALVI e dal Banco Ambrosiano (che ha trovato riscontri, difficilissimi da individuare, posto che la documentazione relativa alle operazioni estero su estero venne fatta sparire, anche obiettivi, successivi alle indicazioni rese dai collaboranti: il versamento di parte del riscatto di Pietro TORRIELLI, in titoli e in contanti, con il coinvolgimento di Agostino COPPOLA, Giuseppe e Ignazio PULLARA’: Giuseppe PULLARA’ versò, dal 7.2.1973 al 8.8.1973, 332.230.000 di Lire, e ciò costituisce conferma del racconto di MANNOIA). Dall’altro lato, la sentenza ha ritenuto non attendibili le indicazioni dei collaboranti, nelle parti in cui hanno fornito indicazioni accusatorie nei confronti degli odierni imputati con riferimento al coinvolgimento nell’omicidio. L’incongruenza deriva dal fatto che tale giudizio di inaffidabilità è stato effettuato senza un’adeguata motivazione, senza soppesare adeguatamente la valenza criminale dei dichiaranti, senza tenere conto: del peso dagli stessi rivestito in seno all’organizzazione criminale di appartenenza; del reticolo dei rapporti dagli stessi avuti; delle regole esistenti in seno al sodalizio (quali l’obbligo di dire il vero tra sodali, regola riconosciuta dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 30.1.1992, che ha definito il “maxi processo”); porsi il problema di graduare l’attendibilità in modo comparato, riconducendo il loro racconto sul punto alla categoria delle “chiacchiere” (per usare l’espressione dell’avvocato GIONNI). Nella sentenza di I grado si sono persino scritte cose non aderenti al vero (il riferimento è a MANNOIA): in un primo momento ha affermato di non sapere nulla della morte di CALVI e in dibattimento… ha stranamente rammentato una serie di circostanze che non aveva affatto menzionato nei precedenti interrogatori”, e si è formulato un generico giudizio di inattendibilità di tutti i “pentiti della Camorra napoletana” (vedi pag. 73), le cui dichiarazioni sono state cumulativamente ritenute “fantasiose”, prescindendo da un adeguato e approfondito vaglio critico. Una valutazione effettuata dimenticando che la prova si forma in dibattimento, ove le dichiarazioni vengono rese in contraddittorio e non in fase d’indagine.
Sulle tardive indicazioni dei collaboranti
La rivelazione di una conoscenza, di una confidenza, di una confessione di responsabilità non devono essere necessariamente fornite immediatamente da un collaboratore di giustizia e la tardiva affermazione non può condurre automaticamente a ritenere l’inattendibilità come pretende la difesa. Le dichiarazioni vanno analizzate a fondo e comprese. La stessa Corte di Cassazione (V sez., sent. nr. 18061 del 13.3.2002, motivazione depositata il 13.5.2002, pres. FOSCANINI, est. COLAIANNI, imp. BAGARELLA L. ed altri, PM VIGLIETTA), soffermandosi sulle dichiarazioni rese in dibattimento oltre il centottantesimo giorno da quello in cui fu manifestata la volontà di collaborare, ha stabilito che la sanzione di inutilizzabilità “… che, ai sensi dell'art. 16 quater, comma 9, del D.L. 15 Gennaio 1991 n. 8, conv. con modifica in L. 15 Marzo 1991 n. 82 (introdotto nel corpo del citato D.L. dall'art. 14 della L. 13 Febbraio 2001 n. 45), colpisce le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio e non, dunque, alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento, anche in considerazione del fatto che, se la collaborazione si manifesta proprio in tale fase processuale, all'interessato possono esser concesse, ai sensi dell'art. 16 quinquies, comma 3, del D.L. n. 8/1991, le attenuanti conseguenti alla collaborazione, pur in mancanza del verbale illustrativo, che dovrà essere redatto successivamente”.
Idoneità dell’interesse all’eliminazione a rappresentare un riscontro alle dichiarazioni “de relato”
La sentenza inerente all’omicidio del giornalista Mino PECORELLI, nei confronti dell’on. Giulio ANDREOTTI e altri, richiamata dal difensore di CALO’, ha consacrato il principio per cui il possibile interesse di un imputato può di per sé costituire elemento di riscontro estrinseco e individualizzante di una dichiarazione “de relato”.
In proposito, va rilevato che, sebbene il contenuto di quella pronuncia presenti delle anomalie, sulle quali non è opportuno soffermarsi in questa sede, nella motivazione della stessa si dà atto di quanto segue. In tema di prova del mandato omicidiario, questa Corte ha già affermato il principio per il quale la "causale", pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto, interessato all'eliminazione fisica della vittima, quando per la sua specificità ed esclusività converge in una direzione univoca, tuttavia, conservando di per sè un margine di ambiguità, funge da elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l'esistenza del fatto incerto - l'attribuibilità del crimine all'imputato, in qualità di mandante -, soltanto a condizione che, all'esito dell'apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale d'insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione (Sez. I, 28.10.1991, Tropea, rv. 189926; Sez. V, 14.11.1992, Madonia, rv. 193555). “Ebbene, pur essendo rimasti senza alcuna risposta tali quesiti, cruciali per l'identificazione di un "movente" certo, significativo e coerente con l'INDIRETTA chiamata in reità di Buscetta, la Corte di assise d'appello ha apoditticamente qualificato come "indizio", secondo la tradizionale e ormai ripudiata teoria del "cui prodest", la generica ed equivoca individuazione di un'area di "interesse" all'eliminazione del giornalista, facente capo ad Andreotti”.
In definitiva, la causale, sia pure se munita di determinate caratteristiche, assume la valenza di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto interessato all’eliminazione fisica della vittima e di “elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità”.
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