L'autunno dell'innocenza



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L'autunno dell'innocenza
A George McLeod
Il corpo

(STAND BY ME)
1
Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci sì vergogna, perché le parole le immiseriscono le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov'è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.

Avevo dodici anni quasi tredici la prima volta che vidi un essere umano morto. Successe nel 1960, tanto tempo fa... anche se a volte non mi pare così lontano. Soprattutto la notte quando mi sveglio da quei sogni in cui la grandine cade nei suoi occhi aperti.
2
Avevamo una casa su un albero, un grande olmo che sovrastava un terreno vuoto a Castle Rock. Oggi in quel lotto c'è una società di traslochi, e l'olmo è scomparso. Progresso. Era una specie di circolo sociale, anche se non aveva nome. Eravamo cinque, forse sei, i fissi, più qualche altro di passaggio. Li facevamo salire quando c'era una partita a carte e avevamo bisogno di sangue fresco. Il gioco di solito era il blackjack e ci giocavamo solo qualche penny. Ma prendi il doppio, con blackjack e cinque carte sotto... e il triplo con sei carte sotto, anche se solo Teddy era così pazzo da tentarlo.

I fianchi della casa sull'albero erano delle assi che avevamo recuperato dal mucchio di rifiuti vicino alla Mackey Lumber & Building Supply di Carbine Road — erano piene di schegge e di buchi che otturavamo con la carta igienica o i tovagliolini di carta. Il tetto era una lastra di lamiera ondulata che avevamo predato dallo scarico, guardandoci alle spalle per tutto il tempo che la portavamo via, perché il cane del custode della discarica aveva fama di essere un vero e proprio mostro mangia-bambini. Trovammo una porta a zanzariera il giorno stesso. Era a prova di mosche, ma arrugginitissima — intendo dire, la ruggine era estrema. Poteva essere qualunque ora del giorno, ma quando si guardava da quella porta pareva sempre il tramonto.

Oltre a giocare a carte, il club era un buon posto per andare a fumare le sigarette e a guardare i giornali con le ragazze. C'era una mezza dozzina di portacenere di latta ammaccati che dice­vano CAMEL sul fondo, una quantità di paginoni centrali attaccati alla parete scheggiata, venti o trenta mazzi di carte Bike tutte sciupate (Teddy se le faceva dare dallo zio, il proprietario della cartoleria di Castle Rock — quando lo zio di Teddy gli chiese un giorno a che giocavamo, lui gli disse che si facevano dei tornei di cribbage e lo zio giudicò che andasse bene), una serie di gettoni di plastica da poker, e una pila di vecchissime riviste poliziesche, Master Detective, da sfogliare quando non c'era altro da fare. Costruimmo anche un nascondiglio, 30 x 20, sotto il pavimento per nasconderci parte di questa roba per le rare occasioni in cui il padre di uno di noi decideva che era tempo di fare la scena siamo-proprio-buoni-amici. Quando pioveva, stare nel club era come stare in un tamburo giamaicano, quelli fatti con i bidoni... ma quell'estate di pioggia non ce n'era stata.

Era stata l'estate più calda e più secca dal 1907 — o così dicevano i giornali — e quel venerdì che precedeva il weekend del Labor Day e l'inizio di un altro anno di scuola, anche l'erba nei campi e i fossati lungo le strade avevano un'aria secca e miserabile. Nessuno era riuscito a ricavare niente dall'orto, quel­l'estate, tranne, forse, il vino di tarassaco.

Teddy, Chris e io eravamo su nel club quel venerdì mattina, considerando tristemente che la scuola era vicina e giocando a carte e scambiandoci le solite vecchie barzellette sui piazzisti e i francesi. Come sai che un francese è passato dal tuo cortile? Be', se trovi i bidoni dell'immondizia vuoti e la cagna incinta. Teddy ci provava, a mostrarsi offeso, ma era il primo a portare una barzelletta nuova appena la sentiva, cambiando solo il francese in polacco.

L'olmo dava una bella ombra, ma già ci eravamo tolti le camicie per non inzupparle troppo di sudore. Giocavamo a three-penny-scat, il gioco di carte più idiota mai inventato, ma faceva troppo caldo per pensare a qualcosa di più complicato. Avevamo avuto una discreta squadra di baseball fino a metà di agosto, ma poi un sacco di ragazzi se n'erano andati. Troppo caldo.

Io andavo a picche. Avevo cominciato con tredici, avevo avuto un otto e faceva ventuno, e da allora non era successo più niente. Chris batté. Io presi la mia ultima carta e non arrivò niente di utile.

«Ventinove», disse Chris, calando quadri.

«Ventidue», fece Teddy, con un'aria disgustata.

«Andate a farvi fottere», dissi io, e buttai le carte sul tavolo a faccia in giù.

«Gordie è fuori, il vecchio Gordie è fuori dalla porta», cantilenò Teddy, e poi se ne uscì con la sua risata brevettata Teddy Duchamp — Eee-eee-eee, come un chiodo arrugginito tirato fuori lentamente da una tavola marcia. Be', era un tipo strano, lo sapevamo tutti. Aveva quasi tredici anni come tutti noi, ma quelle lenti spesse e l'apparecchio acustico qualche volta lo facevano sembrare un vecchio. I ragazzi cercavano sempre di scroccargli una sigaretta, in strada, ma il rigonfio nella camicia era solo la batteria dell'apparecchio acustico.

Nonostante gli occhiali e il bottone color carne sempre infilato nell'orecchio, Teddy non vedeva molto bene e spesso non capiva quello che gli si diceva. A baseball bisognava metterlo in fondo, molto oltre Chris sulla sinistra e Billy Greer sulla destra. Si sperava solo che nessuno ne lanciasse una così lontano perché Teddy le sarebbe andato dietro sparato, che la vedesse o meno. Ogni tanto ne prendeva una buona, e una volta finì in pieno contro la rete vicino all'albero della casa. Rimase steso sul dosso con gli occhi sbarrati per quasi cinque minuti, e io mi spaventai. Poi si riebbe e si mise a girare col naso sanguinante e un enorme livido blu sulla fronte, sostenendo che il tiro era irregolare.

Se la vista era cattiva per motivi naturali, non c'era niente di naturale in quello che gli era capitato alle orecchie. A quei tempi, quando era normale farsi tagliare i capelli in modo che le orecchie sporgevano come un paio di manici, Teddy portava il primo taglio alla Beatles mai visto a Castle Rock — quattro anni prima che in America si sentisse parlare dei Beatles. Si teneva le orecchie coperte perché sembravano due grumi di cera fusa.

Un giorno, quando aveva otto anni, il padre di Teddy si infuriò con lui perché aveva rotto un piatto. La madre era al lavoro nella fabbrica di scarpe quando successe, e quando lo venne a sapere era già tutto accaduto.

Il padre trascinò Teddy alla grande stufa a legna in fondo alla cucina e gli schiacciò il lato della testa contro una delle piastre di ferro dove si appoggiano le pentole per cucinare. Ce lo tenne per una decina di secondi. Poi lo tirò su per i capelli e fece l'altro lato. Poi chiamò l'ambulanza del Central Maine General Emergency e disse di venire a prendere suo figlio. Poi mise giù il telefono, andò in salotto, prese il suo calibro 410 e si mise seduto a guardare la TV col fucile sulle ginocchia. Quando Mrs. Burroughs, l'inquilina della porta accanto, venne a vedere se Teddy stava bene — aveva sentito le urla — il papà di Teddy le puntò contro il fucile. Mrs. Burroughs schizzò dalla casa dei Duchamp più o meno alla velocità della luce, e chiamò la polizia. Quando arrivò l'ambulanza, Mr. Duchamp fece entrare i barellieri e poi uscì sul portico per rimanere di guardia mentre loro caricavano Teddy sulla vecchia ambulanza Buick con una barella.

Il papà di Teddy spiegò agli infermieri che anche se quei fottuti di generali dicevano che la zona era stata ripulita, c'erano ancora dappertutto dei crucchi franchi tiratori. Uno degli infermieri chiese al papà di Teddy se pensava di poter resistere. Il papà di Teddy fece un sorriso tirato e disse all'infermiere che avrebbe resistito finché l'inferno non fosse diventato un frigorifero, se necessario. Il barelliere fece il saluto, e il papà di Teddy gli rispose scattando. Qualche minuto dopo che l'ambulanza era andata via, arrivò la polizia di stato e sollevò Norman Duchamp dalla sua consegna.

Era più di un anno che stava facendo cose strane, tipo spa­rare ai gatti e accendere il fuoco nelle cassette postali, e dopo l'atrocità che aveva perpetrato sul figlio, gli fecero un processo rapido e lo spedirono a Togus, che è una specie di ospedale per veterani. Togus è dove devi andare se sei un sezione otto. Il papà di Teddy aveva preso la spiaggia di Normandia, come l'ha sempre messa Teddy. Teddy era orgoglioso del suo vecchio no­nostante quello che gli aveva fatto, e andava a fargli visita tutte le settimane.

Era il più tardo di quelli con cui andavamo in giro, probabilmente, ed era matto. Correva i rischi più folli che si possano immaginare, e la faceva sempre franca. La cosa più grossa era quello che chiamava «scansa-camion». Spuntava all'improvviso davanti ai camion, sulla 196, e a volte quelli lo mancavano per un pelo. Lo sa Dio quanti attacchi di cuore deve aver provocato, e rideva mentre il gas di scarico del camion che passava gli agitava i vestiti. Ci terrorizzava perché aveva una vista che faceva schifo, con o senza quegli occhiali a fondo di Coca cola. Pareva solo una questione di tempo, quando avrebbe finalmente sbagliato i conti con uno di quei camion. E bisognava star at­tenti a che cosa lo si sfidava a fare, perché Teddy, sfidato, avrebbe fatto qualsiasi cosa.

«Gordie è fuori, eeeeee-eee-eee!»

«Fottiti», dissi io, e raccolsi una copia di Master Detective per leggere mentre loro finivano di giocare. Aprii a «Pestò a morte la bella Co-Ed in un ascensore bloccato», e mi ci immersi.

Teddy prese le sue carte, diede una breve occhiata, e disse: «Busso».

«Quattr'occhi di merda!» gridò Chris.

«La merda ha mille occhi», disse Teddy gravemente, e Chris e io scoppiammo a ridere. Teddy ci fissò un po' accigliato come chiedendosi che cosa ci aveva fatto ridere. Questa era un'altra cosa tutta sua — se ne usciva sempre con delle frasi incredibili tipo «La merda ha mille occhi», e non potevi mai essere sicuro se voleva essere spiritoso o se era così per caso. Guardava sempre quelli che ridevano con quell'espressione leggermente accigliata, come per dire Oh, Dio, cosa c'è questa volta?

Teddy aveva un trenta reale — jack, regina, e re di fiori. Chris aveva solo sedici.

Teddy stava mischiando le carte con quel suo modo goffo e io ero quasi arrivato alla parte più succosa della storia dell'omicidio, dove questo marinaio sbalestrato di New Orleans stava facendo il Bristol Stomp su questa studentessa di Bryn Mawr perché non ce la faceva più a stare in un luogo chiuso, quando sentimmo qualcuno che saliva in fretta su per la scala inchiodata al tronco dell'olmo. Un pugno picchiò sulla parte inferiore della porta.

«Chi va là?» strillò Chris.

«Vern!» Appariva eccitato e senza fiato.

Andai alla porta e tirai il catenaccio. La porta si aprì e Vern Tessio, uno degli altri fissi, si tirò dentro il club. Era tutto sudato, e i capelli, che solitamente portava pettinati in una imitazio­ne perfetta di Bobby Ryddel, il suo idolo del rock and roll, gli stavano incollati sul cranio a mazzetti.

«Wow, gente», ansimò. «Aspettate a sentire questa.»

«Sentire che?» chiesi io.

«Fatemi riprendere fiato. Sono venuto di corsa da casa.»

«Sono venuto di corsa da casa,» gorgheggiò Teddy in un terrificante falsetto alla Little Anthony, «solo per chiederti scu-u-sa...»

«Fatti una sega, amico», disse Vern.

«Crepa stecchito dentro un cesso», ribatté argutamente Teddy.

«Vieni di corsa da casa tua?» chiese incredulo Chris. «Amico, sei pazzo.» La casa di Vern era a due miglia giù per Grand Street. «Dev'essere novanta miglia da lì a qua.»

«Ne valeva la pena», disse Vern. «Cristosantissimo. Non ci crederete. Sinceramente.» Si batté la fronte sudata per mostrar­ci quanto fosse sincero.

«Va bene, ma che cosa?» chiese Chris.

«Potete dormire fuori in tenda stanotte?» Vern ci guardava con aria seria, eccitata. Gli occhi sembravano chicchi d'uva cac­ciati negli scuri cerchi di sudore. «Voglio dire, se dite ai vostri vecchi che dormiamo in tenda nel mio cortile?»

«Sì, io penso di sì», disse Chris, prendendo la sua nuova mano di carte e studiandola. «Ma mio padre è in vena cattiva. È bevuto, sapete.»

«Devi farlo, amico», disse Vern. «Sinceramente. Non ci crederete. Tu puoi, Gordie?»

«Probabilmente.»

Io potevo fare quasi tutto, di queste cose — anzi, in pratica ero stato come il «Ragazzo invisibile» per tutta l'estate. Ad aprile mio fratello maggiore, Dennis, era rimasto ucciso in un incidente di jeep. Era successo al Fort Benning, in Georgia, dove faceva l'addestramento da recluta. Lui e un compagno stavano andan­do allo spaccio e un camion dell'esercito li aveva presi di lato. Dennis era rimasto ucciso sul colpo e il suo passeggero era in coma fino da allora. Dennis avrebbe fatto ventidue anni alla fine di quella settimana. Gli avevo già comprato un biglietto di auguri al Dahlie's su a Castle Green.

Piansi quando lo seppi, e piansi ancora al funerale, e non riuscivo a credere che Dennis se ne fosse andato, che uno che mi picchiava in testa o mi spaventava con un ragno di gomma finché non mi mettevo a piangere o mi dava un bacio quando cadevo e mi sbucciavo tutt'e due le ginocchia e mi mormorava all'orecchio, «Ora basta piangere, moccioso!» — che una persona che mi aveva toccato potesse essere morta. Mi offendeva e mi spaventava che potesse essere morto... ma ai miei genitori pareva aver strappato via il cuore. Per me, Dennis era poco più che un conoscente. Aveva dieci anni più di me, capite, e aveva compagni e amici suoi. Mangiammo alla stessa tavola per un sacco di anni, e a volte era il mio amico e a volte il mio tormentatore, ma per lo più era, capite, solo un tizio. Quando morì era via da un anno a parte un paio di permessi. Non ci assomigliavamo neppure. Mi ci volle molto tempo dopo quell'estate per rendermi conto che la gran parte delle lacrime che piansi erano per mamma e papà. E fecero un sacco di bene a me, o a loro.

«Insomma di che stai blaterando, Vern-O?» chiese Teddy.

«Busso», fece Chris.

«Che cosa?» strillò Teddy, dimenticandosi immediatamente tutto di Vern. «Bugiardo fottuto! Non è la mano tua. Non ho preso, non è la mano tua!»

Chris fece un ghigno. «Fai la tua presa, merdoso.»

Teddy allungò la mano verso il mazzo di Bikes. Chris prese il pacchetto di Winston sulla mensola dietro di lui. Io mi chinai per raccogliere la rivista poliziesca.

Vern Tessio disse: «Gente, volete vedere un morto?»

Ci bloccammo tutti.


3
Lo avevamo sentito tutti alla radio, ovviamente. La radio, una Philco con la cassa spaccata raccolta anche lei dalla discarica dei rifiuti, era accesa tutto il tempo. La tenevamo sulla WLAM di Lewiston, che ci serviva la super-hit e i vecchi classici: «What in the World Come Over You» di Jack Scott e «This Time» di Xroy Shondell e «King Creole» di Elvis e «Only the Lonely» di Roy Orbison. Quando attaccava col notiziario di solito ci scattava un qualche interruttore mentale che la metteva a tacere. Le notizie erano sempre un cumulo di allegre puttanate su Kennedy e Nixon e Quemoy e Matsu e il gap dei missili e che merda dopo tutto si stava dimostrando quel Castro. Ma la storia di Ray Brower l'avevamo sentita tutti con un po' più di attenzione, perché era un ragazzo della nostra età.

Era di Chamberlain, una cittadina a una quarantina di miglia a est di Castle Rock. Tre giorni prima che Vern arrivasse sfinito al club dopo la corsa di due miglia per Grand Street, Ray Brower era uscito con una pentola della madre per raccogliere mirtilli. Quando si era fatto buio e lui non era ancora rientrato, i Brower chiamarono lo sceriffo di contea e iniziò una ricerca — prima limitata ai dintorni della casa del ragazzo e poi allargata ai paesi vicini di Motton e Durham e Pownal. Tutti si misero in attività — poliziotti, pompieri, guardiani delle riserve, volontari. Ma tre giorni dopo il ragazzo non era stato ancora trovato. Si capiva, sentendo la radio, che non avrebbero mai ritrovato vivo quel povero fesso; prima o poi la ricerca sarebbe semplicemente finita in niente. Poteva essere finito in una cava di pietre o annegato in una roggia, e tra dieci anni qualche cacciatore avrebbe ritrovato le ossa. Stavano già dragando gli stagni di Chamberlain, e il lago artificiale di Motton.

Una cosa del genere oggi non potrebbe succedere più nel Maine del sudovest; quasi tutta la zona si è suburbanizzata, e le comunità dormitorio attorno a Portland e Lewiston si sono allargate come tentacoli di un calamaro gigante. Le foreste ci sono ancora, e si fanno più fitte man mano che ci si inoltra verso le White Mountains, ma oggigiorno, se tieni la testa a posto abbastanza a lungo da camminare per cinque miglia nella stessa direzione, sei sicuro di incontrare una strada asfaltata a due corsie. Nel 1960 però tutta la zona tra Chamberlain e Castle Rock non era sviluppata, e c'erano punti dove non si era fatto legna da prima della seconda guerra mondiale. A quei tempi era ancora possibile entrare nella foresta, perdere l'orientamento e morirci.
4
Vern Tessio era stato sotto il suo portico, quella mattina, a scavare.

Noi lo capimmo subito tutti, ma forse è meglio che vi spieghi un attimo. Teddy Duchamp era poco intelligente, forse, ma neppure Vern Tessio avrebbe mai passato un minuto del suo tempo libero su College Bowl. Eppure, suo fratello Billy era ancora più idiota, come vedrete. Ma prima devo dirvi perché Vern stava scavando sotto il portico.

Quattro anni prima, quando aveva otto anni, Vern seppellì una brocca da un quarto piena di penny sotto il lungo portico davanti casa sua. Vern chiamava quel luogo buio sotto il portico la sua «caverna». Faceva una specie di gioco dei pirati, e i penny erano il tesoro sepolto — solo che se giocavate con Vern ai pirati non potevate chiamarlo tesoro sepolto, dovevate chiamarlo «bottino». Insomma, seppellì in profondità la brocca di monete, riempì la buca e coprì il terreno fresco con un po' delle foglie secche che aveva accumulato là sotto negli anni. Disegnò una mappa del tesoro e la mise in camera sua col resto della sua roba. Per un mesetto si scordò di tutto. Poi, a corto di soldi per il cinema o per qualcosa, si ricordò dei penny e andò a prendere la sua mappa. Ma la mamma aveva fatto pulizia due o tre volte da allora, e aveva raccolto tutti i vecchi fogli dei compiti e le carte dei dolci e i fumetti e i giornali di barzellette. Una mattina li aveva bruciati nella stufa per accendere il fuoco per cucinare, e la mappa del tesoro di Vern se n'era andata in fumo su per il camino.

O almeno lui così se l'era immaginato.

Aveva tentato di ritrovare il posto a memoria e si era messo a scavare. Non aveva avuto fortuna. A destra e a sinistra di quel punto. Ancora niente fortuna. Per quel giorno ci aveva rinunciato e da allora aveva fatto ancora qualche tentativo di tanto in tanto. Quattro anni, gente. Quattro anni. Non è pazzesco? Non sai se ridere o piangere.

Per lui era diventata una specie di ossessione. Il portico anteriore dei Tessio correva lungo tutto il fronte della casa, un dodici metri di lunghezza per due di larghezza. Aveva scavato fino all'ultimo dannato centimetro di quell'area, forse due o tre volte, e niente penny. Il numero delle monete cominciò a crescere nella sua mente. Quando per la prima volta lo disse a Chris e a me saranno state tre dollari di monetine. Un anno dopo era arrivato a cinque e da poco si avviava ai dieci, più o meno, a seconda di quanto era al verde.

Ogni tanto cercavamo di dirgli una cosa che per noi era chiarissima — Billy aveva saputo del vaso e lo aveva tirato fuori. Vern rifiutava di crederci, anche se odiava Billy come gli arabi odiano gli ebrei, e probabilmente avrebbe votato per la con­danna a morte del fratello per un furto in un negozio, se si fosse presentata l'opportunità. Rifiutava d'altra parte di chiederlo chiaro e tondo a Billy. Probabilmente aveva paura che quello si mettesse a ridere e dicesse Certo che li ho presi io, imbecille, e c'erano penny per venti dollari e me li sono spesi fino all'ultimo centesimo. Invece, Vern usciva a scavare ogni volta che lo spirito lo spingeva (e che Billy non era in giro). E ogni volta strisciava da sotto il portico con i jeans sporchi e i capelli infangati e le mani vuote. Noi lo sfottevamo pesante su questa storia, e gli avevamo dato come soprannome Penny — Penny Tessio. Se­condo me era venuto di corsa al club con la notizia non solo per darcela, ma per mostrarci che dai suoi scavi finalmente qualcosa di buono era venuto.

Si era alzato, quella mattina, prima degli altri, aveva man­giato i suoi cornflakes, ed era uscito a tirare il pallone nel vec­chio canestro inchiodato sopra il garage, senza un gran che da fare, nessuno con cui giocare a Ghost o a nient'altro, e decise di farsi un'altra scavata in cerca dei penny. Era sotto il portico quando la porta a zanzariera si aprì sopra di lui. Rimase immo­bile, senza fare il minimo rumore. Se era suo padre, sarebbe strisciato fuori; se era Billy sarebbe rimasto lì finché Billy e il suo amico delinquente Charlie Hogan non se ne fossero andati.

Due paia di passi risuonarono sul portico, e poi Charlie Ho­gan in persona disse con una voce tremante, sul punto di pian­gere: «Gesù Cristo, Billy, che facciamo?»

Vern disse che solo sentire Charlie Hogan parlare così — Charlie, uno dei più duri della città — gli fece rizzare le orec­chie. Charlie in fin dei conti se la faceva con Ace Merrill ed Eyeball Chambers, e se te la fai con gente del genere devi per forza essere un duro.

«Niente», disse Billy. «Questo è quello che facciamo. Nien­te.»

«Qualcosa dobbiamo farla», disse Charlie, e si sedettero sul portico proprio vicino a dov'era nascosto Vern. «Non lo hai visto?»

Vern si arrischiò a farsi un po' più vicino agli scalini, prati­camente sbavando. A quel punto pensava che probabilmente Billy e Charlie, sbronzi marci, avevano investito qualcuno. Vern faceva la massima attenzione a non far rumore con le foglie secche mentre si muoveva. Se quei due scoprivano che c'era lui là sotto, e che li aveva sentiti, lo avrebbero ridotto in modo tale che quello che ne rimaneva potevate metterlo in un barattolo di cibo per cani Ken-L Ration.

«A noi non ci frega», disse Billy Tessio. «Il ragazzo è mor­to e così non gli frega nemmeno a lui. Chi se ne fotte se lo troveranno mai? Io no.»

«Era quello di cui parlava la radio», disse Charlie. «Era lui, quanto è vera la merda. Brocker, Brower, Flowers, come cazzo si chiama. Un fottuto treno deve averlo beccato.»

«Già», fece Billy. Rumore di un fiammifero sfregato. Vern lo vide cadere sulla ghiaia e poi sentì l'odore del fumo di sigaret­ta. «E tu hai vomitato.»

Nessuna parola, ma Vern avvertì le onde emotive della ver­gogna che partivano da Charlie Hogan.

«Be', le ragazze non l'hanno visto», disse Billy dopo un po'. «Per fortuna.» Dal rumore, doveva aver battuto una mano sul­la spalla di Charlie per tirarlo su. «Sono arrivate fin qui blate­rando da Portland. Noi le abbiamo portate via di corsa, però. Dici che hanno capito che c'era qualcosa che non andava?»

«No», disse Charlie. «A Marie non piace andare giù per la Harlow Road dietro il cimitero, comunque. Ha paura dei fan­tasmi.» Poi di nuovo con quella voce spaventata e piagnucolosa: «Gesù, vorrei proprio che non avessimo preso quella mac­china ieri sera! Potevamo andare solo al cinema come avevamo detto!»

Charlie e Billy andavano in giro con due che si chiamavano Marie Dougherty e Beverly Thomas; due tipe così rozze si ve­dono difficilmente fuori da uno spettacolo di carnevale — fo­runcoli, baffi, tutto quanto. Qualche volta loro quattro — o magari in sei o otto se c'erano anche Fuzzy Bracowicz o Ace Merrill con le ragazze — si facevano una macchina in un par­cheggio di Lewiston e se ne andavano in giro per la zona con due o tre bottiglie di vino, Wild Irish Rose, e una confezione da sei di Ginger Ale. Portavano le ragazze a parcheggiare da qual­che parte, a Castle View o a Harlow o a Shiloh, bevevano Pur­ple Jesus, e se le facevano. Poi mollavano la macchina da qual­che parte vicino casa. Brivido nella casa delle scimmie, come diceva Chris. Non li avevano mai beccati, ma Vern continuava a sperare. Lo entusiasmava l'idea di andare la domenica a trovare Billy al riformatorio.

«Se lo diciamo ai piedipiatti quelli vogliono sapere come diavolo siamo arrivati a Harlow», disse Billy. «La macchina non ce l'abbiamo, né io né tu. La cosa migliore è tenere la bocca chiusa. Così non ci possono fare niente.»

«Potremmo fare una telefonata anonima», disse Charlie.

«Quelle fottute chiamate le rintracciano», disse Billy con aria sinistra. «L'ho visto in Highway Patrol. E in Dragnet.»

«Già, è vero», disse Charlie avvilito. «Gesù. Se Ace fosse stato con noi. Potevamo dire ai poliziotti che eravamo nella sua macchina.»

«Be', ma non c'era.»

«Già», fece Charlie. Sospirò. «Probabilmente hai ragione tu.» Un mozzicone di sigaretta rimbalzò sul vialetto. «Dove­vamo proprio andare a pisciare sulle rotaie? Non potevamo an­dare dall'altra parte, no? E mi sono vomitato sulle scarpe nuo­ve.» Abbassò la voce. «Quel fottuto ragazzo era proprio steso, lo sai? Tu l'hai visto quel figlio di troia, Billy?»

«L'ho visto», disse Billy, e un secondo mozzicone andò a raggiungere il primo sul vialetto. «Andiamo a vedere se Ace è sveglio. Voglio bere qualcosa.»

«Glielo diciamo?»

«Charlie, non lo diciamo a nessuno. A nessuno mai. Mi hai capito?»

«Ti ho capito», disse Charlie. «Cristo, vorrei che non aves­simo preso mai quella fottuta Dodge.»

«Bah, chiudi quella fogna e vieni con me.»

Due paia di gambe in jeans scoloriti, due paia di piedi in stivaletti neri con la fibbia di lato, scesero gli scalini. Vern rima­se immobile sulle mani e le ginocchia («Le palle mi erano risali­te così in alto che pensavo adesso mi rientrano dentro», ci dis­se), sicuro che il fratello si sarebbe accorto di lui e lo avrebbe tirato fuori e ammazzato — lui e Charlie gli avrebbero tirato fuori a calci quel poco cervello che il Signore gli aveva messo tra le orecchie e poi gli sarebbero passati sopra con i loro stivali. Ma continuarono a camminare e quando Vern fu sicuro che se n'erano proprio andati, si era tirato fuori dal portico ed era corso fin qui.


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