L'autunno dell'innocenza



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Da La Vendetta di Culo di Lardo Hogan, di Gordon Lachance. Pub­blicato originariamente in Cavalier, marzo 1975. Per gentile concessione.
Salirono sul palco uno per uno e si misero dietro un lungo tavolo su cavalietti coperti da una tovaglia di lino. Il tavolo era carico di torte e stava sull'orlo della piattaforma. Sopra, c'erano le ghirlande delle lam­padine da cento watt, con le falene e le zanzare che vi giravano attorno e picchiandoci contro. Sopra la piattaforma, immersa nella luce, una lunga scritta diceva LA GRANDE MANGIATA DI TORTE DI GRETNA DEL 1960; dalle due parti della scritta pendevano gli alto­parlanti ammaccati forniti da Chuck Day del Great Day Appliance Shop. Bill Travis, il campione in carica, era cugino di Chuck.

Appena salito, a ogni concorrente venivano legate le mani dietro e gli veniva aperta la camicia sul davanti, come Sydney Carton sulla via della ghigliottina; il sindaco Charbonneau annunciava il nome dell'im­pianto di amplificazione di Chuck e legava un grande bavaglio bianco attorno al collo. Calvin Spier si ebbe solo un applauso di cortesia; no­nostante la sua pancia, grande quanto un barile da venti galloni, era considerato un perdente, secondo solo al ragazzo Hogan (molti vede­vano Culo di Lardo come una speranza, ma troppo giovane e inesperto per far bene quest'anno).

Dopo Spier fu presentato Bob Cormier. Cormier era un disc jockey che aveva un popolare programma pomeridiano al WLAM di Lewiston. Ebbe un applauso caloroso, accompagnato da qualche urletto del­le ragazzine del pubblico. Le ragazze dicevano che era «carino». John Wiggins, direttore della scuola elementare di Gretna, seguì a Cormier. Ricevette un cordiale applauso dalla sezione più anziana del pubblico — e qualche fischio sparso da membri del suo corpo studentesco. Wig­gins riuscì a sorridere paternamente e al tempo stesso a lanciare un'oc­chiata severa al pubblico.

Quindi, il sindaco Charbonneau presentò Culo di Lardo.

«Un nuovo partecipante alla Grande Gara di Gretna, ma uno da cui ci aspettiamo grandi cose in futuro... il giovane signor David Hogan!» Culo di Lardo si prese un grosso scroscio di applausi mentre il sindaco Charbonneau gli legava il bavaglino, e quando gli applausi si smorzarono un coro ben esercitato raggiunse le lampadine da cento: «Fatteli-tutti-CuIo-di-Lardo!»

Ci furono risolini soffocati, passi di corsa, delle ombre che nessuno poté (o volle) identificare, qualche risata nervosa, qualche cipiglio giu­dizioso (il più severo da Hizzoner Charbonneau, l'autorità più visibile). Culo di Lardo, lui, pareva non essersene neppure accorto. Il sorrisetto che gli increspava le labbra grosse e che gli tendeva le gonfie guance non si mosse mentre il sindaco, ancora lanciando il suo sguardo severo, finì di legargli il tovagliolo dicendogli di non prestare attenzione agli sciocchi del pubblico (come se il sindaco avesse anche la più vaga idea di che mostruosi sciocchi Culo di Lardo fosse stato costretto a soppor­tare, e avrebbe continuato a sopportare, avanzando nella vita come un carro armato tedesco). Il fiato del sindaco era caldo e sapeva di birra.

L'ultimo partecipante a montare sul palco decorato dai festoni strappò l'applauso più forte e più sostenuto; era il leggendario Bill Travis, un metro e novantacinque, dinoccolato, voracissimo. Travis faceva il meccanico nella locale stazione di servizio della Amoco giù lungo la ferrovia, simpatico tipo se mai ce n'è stato uno.

Era ben noto in paese che nella Grande Gara c'era di più che sem­plicemente i cinque dollari — almeno, per Bill Travis era così. C'erano due ragioni per questo. Primo, la gente andava sempre alla stazione di servizio a congratularsi con Bill dopo che aveva vinto la gara, e quasi tutti quelli che ci andavano si fermavano a farsi fare il pieno. E i due posti dell'officina erano a volte prenotati per un mese buono dopo la gara. La gente veniva a farsi sostituire una marmitta, ingrassare un ingranaggio, e sedeva nelle sedie da cinema sistemate lungo la parete (Jerry Maling, il proprietario dell'Amoco, le aveva recuperate dal vecchio cinema Gem quando era stato abbattuto, nel 1957), bevendo Coca e Moxie del distributore, e scambiando battute con Bill sulla gara mentre lui cambiava una candela o si muoveva su un carrello a ruote per infi­larsi sotto il furgoncino International Harvester in cerca di un buco sul sistema di scappamento. Bill sembrava sempre disposto a parlare, e questo era uno dei motivi per cui a Gretna era così benvoluto.

Si discuteva in paese se Jerry Maling desse a Bill un premio per gli affari extra procurati dalla sua impresa annuale, o se ricevesse ogni volta un aumento. Comunque sia, era innegabile che a Travis andasse molto meglio che altri meccanici di officina di paese. Aveva una bella casa a due piani sulla Sabbatus Road, e qualche maligno la chiamava «la casa costruita torta su torta». Questo probabilmente era un'esage­razione, ma Bill aveva altre entrate — e questo ci porta alla seconda ragione per cui per Travis c'era più che i cinque dollari.

La gara delle torte era una manifestazione su cui si puntava forte, a Gretna. Forse i più ci andavano solo per farsi una risata, ma una di­screta minoranza ci veniva anche per metterci su dei soldi. I concorrenti venivano osservati e discussi da questi scommettitori con la passione con cui vengono osservati e discussi i purosangue alle corse di cavalli. I giocatori accostavano gli amici dei partecipanti, i loro parenti, perfino semplici conoscenti. Ne spremevano fino alla minima informazione sul­le abitudini alimentari del concorrente. C'erano sempre una quantità di discussioni sulla torta ufficiale dell'anno — quella di mela era conside­rata una torta «pesante», mentre quella di albicocca «leggera» (anche se un concorrente doveva rassegnarsi a uno o due giorni di corse al cesso dopo essersi ingollato tre o quattro torte di albicocca). La torta ufficiale di quell'anno, ai mirtilli, era considerata una felice via di mez­zo. Gli scommettitori, ovviamente, erano particolarmente interessati al­la disposizione dello stomaco del loro uomo verso i piatti di mirtilli. Com'era messo con i pasticcini di mirtilli? Preferiva la marmellata di mirtilli o la conserva di fragole? Era noto per aggiungere mirtilli ai fiocchi d'avena della colazione, o era una personalità strettamente ba­nane e panna?

C'erano altre questioni di una certa importanza. Era un mangiatore veloce che poi rallentava o uno lento all'inizio che poi prendeva veloci­tà quando le cose si facevano serie, o solo un costante dall'inizio alla fine? Quanti hotdog poteva farsi guardando una partita della Babe Ruth League giù al campo di baseball di St. Doni? Era un bevitore di birra, e, in questo caso, quante bottiglie normalmente faceva fuori nel corso di una serata? Era uno che ruttava? Si riteneva che un bravo ruttatore fosse un po' più duro da battere sul lungo percorso.

Tutto questo più altre informazioni venivano raccolte, venivano fatti i conti, poste le scommesse. Quanto denaro passasse effettivamente di mano durante la settimana che seguiva la notte delle torte non ho modo di saperlo, ma se mi puntate una pistola alla testa e mi costringete a fare un'ipotesi, direi che ci avviciniamo ai mille dollari — forse sembra una cifra da niente, ma erano un sacco di soldi per un paese così piccolo e per quindici anni fa.

E dato che la gara era onesta e il limite di tempo di dieci minuti veniva osservato strettamente, nessuno faceva obiezioni a che un con­corrente scommettesse su se stesso, cosa che Bill Travis faceva ogni anno. Si diceva, mentre lui annuiva sorridendo al suo pubblico in quel­la sera d'estate del 1960, che avesse scommesso di nuovo su se stesso una bella somma, e che il meglio che aveva avuto quell'anno era uno a cinque. Se non siete esperto di scommesse, lasciate che vi spieghi in questo modo: avrebbe dovuto giocare duecentocinquanta dollari per rischiare di vincerne cinquanta. Non un grande affare, ma questo era il prezzo del successo — e mentre se ne stava lì, a raccogliere gli applausi sorridendo a suo agio, non pareva affatto preoccupato.

«Ed ecco a voi il campione in carica», strombazzò il sindaco Charbonneau, «il nostro Bill Travis

«Hoo, Bill!»»

«Quante te ne fai stasera, Bill?»

«Te ne fai dieci, Billy-boy?»

«Ne ho puntati due su di te, Bill! Non deludermi, ragazzo!»

«Lasciami una di quelle torte, Trav!»

Annuendo e sorridendo con la modestia del caso, Bill Travis lasciò che il sindaco gli legasse il suo bavaglino attorno al collo. Poi sedette all'estremità destra della tavola, vicino al posto dove sarebbe stato il sindaco Charbonneau durante la gara. Da destra a sinistra, quindi, i mangiatori erano Bill Travis, David «Culo di Lardo» Hogan, Bob Cormier, il direttore John Wiggins, e Calvin Spier che occupava lo sgabello dell'estrema sinistra.

Il sindaco Charbonneau diede la parola a Sylvia Dodge, che era un personaggio tipico della gara anche più dello stesso Bill Travis. Era stata presidentessa della Gretna Ladies' Auxiliary per un numero indi­cibile di anni (fin dalla Prima Manassas, secondo qualche spiritoso del paese), ed era lei che sovrintendeva alla preparazione delle torte tutti gli anni, sottoponendo severamente ciascuna al suo rigoroso controllo di qualità, che comprendeva una cerimonia di pesata sulla bilancia da ma­cellaio di Mr. Bancichek giù al Freedom Market — questo per accer­tarsi che ogni torta non differisse dalle altre di più di un'oncia.

Sylvia dedicò un sorriso regale alla folla, i capelli azzurrini luccicanti sotto il bagliore delle lampadine. Fece un breve discorso su quanto era lieta che tanta parte del paese aveva partecipato alla celebrazione dei loro duri antenati pionieri, la gente che ha fatto grande questo pae­se, perché era grande, e non solo al nostro livello, al livello delle radici dell'erba, dove il sindaco Charbonneau avrebbe condotto di nuovo i repubblicani ai seggi della città a novembre, ma anche a livello naziona­le dove il gruppo Nixon-Lodge avrebbe raccolto la fiaccola della libertà dal Nostro Grande e Amato Generale e l'avrebbe tenuta alta per...

La pancia di Calvin Spier brontolò rumorosamente — ci furono delle risate e anche qualche applauso. Sylvia Dodge, che sapeva benis­simo che Calvin era democratico e pure cattolico (da sole le due cose sarebbero state perdonabili, ma combinate, mai), riuscì ad arrossire, a sorridere e a mostrarsi furiosa contemporaneamente. Si schiarì la gola e attaccò una sonante esortazione a ogni ragazzo e ragazza tra il pubbli­co, dicendo loro di tenere sempre alto il rosso, bianco e blu, nelle mani e nel cuore, e di ricordare che il fumare è un'abitudine sporca e dan­nosa e che fa venire la tosse. I ragazzi e le ragazze tra il pubblico, molti dei quali di lì a otto anni avrebbero portato distintivi della pace e fuma­to non Camel ma marijuana, strisciarono i piedi e attesero che l'azione iniziasse.

«Meno chiacchiere, più mangiate!» gridò qualcuno in fondo, e ci fu un altro scoppio di applausi — più caloroso questa volta.

Il sindaco Charbonneau porse a Sylvia un cronometro e un fischiet­to argentato della polizia, che doveva suonare alla fine dei dieci minuti di spazzolamento-torte. Il sindaco Charbonneau si sarebbe allora fatto avanti e avrebbe alzato la mano del vincitore.

«Siete pronti?» La voce di Hizzoner rotolò trionfante per il palco e lungo la Main Street.

I cinque mangiatone dichiararono che erano pronti.

«A POSTO?» si informò ulteriormente Hizzoner.

I mangiatori grugnirono che erano proprio a posto. Giù in strada, un ragazzo accese una fila di castagnole.

Il sindaco Charbonneau alzò una mano suina e la lasciò ricadere. «VIA!!!»

Cinque teste caddero in cinque piatti di torte. Il rumore fu come di cinque piedi che pestassero sodo nel fango. I nasi intasati si alzarono nella tiepida aria della sera e poi si sturarono mentre scommettitori e sostenitori cominciavano a incitare i loro favoriti. E la prima torta non era stata ancora demolita che i più si resero conto che era in corso un possibile rovesciamento.

Culo di Lardo Hogan, perdente sicuro dato sette a uno per l'età e l'inesperienza, stava mangiando come un invasato. Le sue mascelle ma­cinavano la crosta (le regole della gara prevedevano che fosse mangiata solo la crosta superiore e l'interno, non il fondo) e quando questa fu sparita, un enorme rumore di risucchio partì dalle sue labbra. Era come un aspirapolvere industriale in funzione. Poi tutta la testa scomparve nel piatto. La alzò quindici secondi dopo per segnalare che aveva finito. Le guance e la fronte erano sporche di sugo di mirtilli, e sembrava un cantante truccato da negro in un minstrel show. Aveva finito — finito prima che il leggendario Bill Travis fosse arrivato a metà della sua pri­ma torta.

Applausi di sorpresa scoppiarono quando il sindaco esaminò il piat­to di Culo di Lardo e lo dichiarò sufficientemente pulito. Ne piazzò un secondo davanti al battistrada. Culo di Lardo si era ingoiato una torta di grandezza regolamentare in appena quarantadue secondi. Un record.

Si avventò sulla seconda torta con furia ancora maggiore, la testa che andava su e giù nel morbido ripieno di mirtilli, e Bill Travis gli lanciò un'occhiata preoccupata mentre chiedeva la sua seconda torta. Come disse poi agli amici, sentì di essere per la prima volta veramente in gara dal 1957, quando George Gamache si era ingurgitato tre torte in quattro minuti e poi era stato portato via svenuto. Dovette chiedersi, disse, se si trovava davanti un ragazzo o un demonio. Pensò ai soldi che aveva in gioco e raddoppiò gli sforzi.

Ma se Travis aveva raddoppiato, Culo di Lardo aveva triplicato. I mirtilli volavano dal secondo piatto, macchiando la tovaglia attorno a lui come un quadro di Jackson Pollock. C'erano mirtilli tra i suoi ca­pelli, mirtilli appiccicati alla fronte come se, in un tremendo sforzo di concentrazione, avesse preso davvero a sudare mirtilli.

«Finito!» gridò, sollevando la testa dal secondo piatto prima che Bill Travis avesse consumato anche la crosta della sua nuova torta.

«È meglio che rallenti, ragazzo», mormorò Hizzoner. Charbonneau stesso aveva puntato dieci dollari su Bill Travis. «Devi darti un ritmo se vuoi arrivare alla fine.»

Ma come se Culo di Lardo non avesse sentito, si buttò sulla terza crostata con rapidità folle, le mandibole che si muovevano alla velocità della luce. E poi...

Ma devo interrompere per un momento per dirvi che c'era una boc­cetta vuota nell'armadietto dei medicinali a casa di Culo di Lardo Hogan. Prima, la boccetta era stata piena per tre quarti di olio di castoro giallo perla, forse il liquido più nocivo che il buon Dio, nella Sua infini­ta saggezza, abbia mai permesso di comparire sulla faccia della terra. Culo di Lardo se l'era svuotata lui quella bottiglia, bevendone fino all'ultima goccia e poi leccando il bordo, la bocca contratta, lo stomaco in subbuglio, il cervello pieno di pensieri di dolce vendetta.

E mentre si faceva strada rapidamente in mezzo alla sua terza torta (Calvin Spier, buon ultimo come da previsioni, non aveva ancora finito la prima), Culo di Lardo cominciò a torturarsi deliberatamente con fantasie disgustose. Non erano torte quelle che stava mangiando: erano merde di vacca. Stava mangiando grossi pezzi di intestino viscido di marmotta. Stava mangiando intestino di marmotta affettato e cosparso di salsa di mirtillo. Salsa di mirtillo rancida.

Finì la terza torta e chiamò la quarta, e adesso era avanti al leggen­dario Bill Travis di una intera torta. La fitta folla, avvertendo la pre­senza di un nuovo e inatteso campione, cominciò a incitarlo eccitata.

Ma Culo di Lardo non aveva né speranza né intenzione di vincere. Non avrebbe potuto continuare al ritmo a cui stava andando neppure se fosse stata in gioco la vita della madre. E poi, per lui vincere signifi­cava perdere; la vendetta era l'unica medaglia a cui tendeva. La pancia gemente per l'olio di castoro, la gola stretta per la nausea, finì la quarta torta e chiese la quinta, la Torta Ultima Definitiva — Il Mirtillo si addice a Elettra, per così dire. Lasciò cadere la testa nel piatto, rom­pendo la crosta, e aspirò mirtilli su per il naso. Mirtilli gli si riversarono sulla camicia. Il contenuto del suo stomaco parve all'improvviso gua­dagnare peso. Masticò la crosta friabile e l'inghiottì. Aspirò mirtilli.

E improvvisamente il momento della vendetta fu a portata di mano. Il suo stomaco, caricato al di là del tollerabile, si rivoltò. Si strinse come una mano infilata in un liscio guanto di gomma. La gola si aprì.

Culo di Lardo alzò la testa.

Sorrise a Bill Travis con denti blu.

Il vomito rombò su per la sua gola come un Peterbilt da sei tonnel­late sparato attraverso un tunnel.

Uscì ruggendo dalla sua bocca in una massa blu e gialla, calda e allegramente fumante. Ricoprì Bill Travis, che ebbe il tempo di emet­tere una sola sillaba insensata — «Gug!», così sembrava. Delle donne tra il pubblico strillarono. Calvin Spier, che aveva osservato questo evento inatteso con un'espressione vacua e sorpresa sulla faccia, si sporse con aria da conversazione sopra la tavola come per spiegare al pubblico a bocca aperta cos'era successo, e vomitò sulla testa di Marguerite Charbonneau, moglie del sindaco. Lei urlò e indietreggiò, por­tandosi inutilmente le mani ai capelli, ormai coperti di una miscela di bacche masticate, fagioli stufati e wurstel parzialmente digeriti. Si volse verso la sua buona amica Maria Lavin e vomitò sul davanti della giacca di daino di Maria.

In rapida successione, come una serie di mortaretti:

Bill Travis lanciò un grande — e apparentemente sovraccarico — getto di vomito sulle prime due file di spettatori, con la faccia sbalordi­ta che proclamava a ciascuno e a tutti. Gente, non posso crederci che sono io a far questo;

Chuck Day, che aveva ricevuto una generosa porzione del dono a sorpresa di Bill Travis, vomitò sulle sue Hush Puppies e poi le fissò con aria interrogativa, ma sapendo benissimo che quella roba non sa­rebbe mai andata via dalla pelle scamosciata;

John Wiggins, direttore delle elementari di Gretna, aprì la bocca macchiata di blu e disse con tono di disapprovazione: «Davvero, que­sto è... YURRK!» Come si addice a un uomo della sua educazione e della sua posizione, lo fece dentro il suo piatto;

Hizzoner Charbonneau, che improvvisamente si trovò a presiedere su quello che doveva sembrare più un reparto ospedaliero di malati di stomaco che una gara di mangiatorte, aprì la bocca per dichiarare chiuso il tutto e vomitò tutto sul microfono.

«Gesù ci aiuti!» gemé Sylvia Dodge, e poi la sua cena oltraggiata — molluschi fritti, insalata mista di cavoli, granturco burro e zucchero (per due pannocchie) e una porzione generosa di torta al cioccolato di Muriel Harrington — schizzò su dall'uscita di emergenza e atterrò con un gran tonfo umido sulle spalle dell'abito del sindaco.

Culo di Lardo Hogan. ora all'apogeo assoluto della sua giovane vita, gongolava beato sul pubblico. Il vomito era dappertutto. La gente bar­collava in cerchio come ubriaca, tenendosi la gola e facendo versi stroz­zati. Il pechinese di qualcuno corse oltre il palco ululando come impaz­zito, e un uomo in jeans e camicia di seta gli vomitò addosso, quasi annegandolo. Mrs. Brockway, la moglie del ministro metodista, fece un lungo basso verso eruttivo seguito da un getto di roastbeef semidigerito e di puré di patate e di succo di mela. Il succo non doveva essere male quando era andato giù la prima volta. Jerry Maling, che era venuto a vedere come il suo coccolato meccanico se ne andava via con tutti i suoi soldini, decise di allontanarsi dignitosamente da quel manicomio. Fece una quindicina di metri prima di inciampare sull'automobilina rossa di un bambino e di rendersi conto che era atterrato in una pozza di bile calda. Jerry si depose in grembo la cena e più tardi disse alla gente che aveva ringraziato la Provvidenza perché aveva adosso la tuta di lavoro. E Miss Norman, che insegnava latino e inglese alla Consolidated High School di Gretna, si vomitò dentro la borsa in uno sforzo di decenza.

Culo di Lardo osservava tutto ciò, il faccione calmo e sorridente, lo stomaco improvvisamente raddolcito e tranquillizzato da un caldo bal­samo che forse non avrebbe mai più provato — quel balsamo era una sensazione di completa e totale soddisfazione. Si alzò, prese il microfo­no leggermente appiccicoso dalla mano tremante del sindaco Charbonneau, e disse...
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«'Dichiaro nulla questa gara'. Poi mette giù il microfono, si avvia verso il fondo della piattaforma e se ne va dritto a casa. Sua madre è lì, visto che non è riuscita a trovare una baby sitter per la sorellina di Culo di Lardo, che ha solo due anni. Non appena lui entra in casa, coperto di vomito e di torta sbavata, ancora col bavaglino addosso, lei dice, 'Davie, hai vinto tu?' Ma lui non dice una fottutissima parola, sapete. Se ne va su in ca­mera sua, chiude la porta e si sdraia sul letto.»

Bevvi l'ultimo sorso dalla bottiglia di Chris e la buttai tra gli alberi.

«Sì, bene, e poi che è successo?» chiese ansioso Teddy.

«Non lo so.»

«Come sarebbe, non lo sai

«Sarebbe che è finito. Quando non sai dopo che cosa è suc­cesso, allora è finito.»

«Coooome?» esclamò Vern. C'era uno sguardo stravolto, sospettoso sulla sua faccia, come se avesse appena cominciato a divertirsi al bingo della Fiera di Topsham. «Com'è questa sto­ria? Come ne esce

«Devi usare la tua immaginazione», spiegò Chris paziente­mente.

«Ma neanche per sogno!» fece Vern arrabbiato. «È lui che deve usare la sua immaginazione! È lui che ha fatto questa fot­tutissima storia!»

«Sì, che è successo al tizio?» insisté Teddy. «Dai, Gordie, diccelo.»

«Secondo me suo padre era alla gara e quando è tornato a casa gliele ha suonate a sangue, a Culo di Lardo.»

«Sì, giusto», disse Chris. «Scommetto anche io che è suc­cesso questo.»

«E», continuai, «i ragazzi continuarono a chiamarlo Culo di Lardo. Solo che magari qualcuno di loro cominciò a chiamar­lo anche Vomita-Budella.»

«Che finale di merda», disse Teddy tristemente.

«Per questo non ve lo volevo dire.»

«Potevi fare che lui stendeva il padre e scappava ed entrava nei Texas Rangers», disse Teddy. «Che te ne pare?»

Chris e io ci scambiammo un'occhiata. Chris sollevò imper­cettibilmente una spalla.

«Può andare», dissi io.

«Ehi, hai qualche nuova storia di Le Dio, Gordie?»

«Ora no. Magari ne penserò una.» Non volevo sconvolgere Teddy, ma non mi interessava troppo sapere che cosa stava suc­cedendo a Le Dio. «Mi dispiace che questa non ti è piaciuta.»

«No, era buona», fece Teddy. «Fino alla fine era buona. Tutto quel vomito era a posto.»

«Sì, quello era a posto, forte», convenne Vern. «Ma Teddy ha ragione sul finale. È una specie di bidone.»

«Già», dissi io, e sospirai.

Chris si alzò. «Camminiamo un po'», disse. Era ancora pieno giorno, il cielo di un azzurro caldo, metallico, ma le no­stre ombre avevano cominciato ad allungarsi. Mi ricordo che da ragazzo le giornate di settembre mi parevano finire sempre troppo presto, cogliendomi di sorpresa — era come se qualcosa dentro il mio cuore si aspettasse che fosse sempre giugno, con la luce in cielo fino quasi alle nove e mezzo. «Che ora è, Gordie?»

Guardai l'orologio e rimasi stupito a vedere che erano le cinque passate.

«Sì, andiamo», fece Teddy. «Ma mettiamo il campo prima di buio così che ci vediamo per prendere la legna e la roba. E poi mi sta venendo fame.»

«Alle sei e mezzo», promise Chris. «Per voi va bene?»

Andava bene. Riprendemmo a camminare, tenendoci sui ciottoli di fianco alle rotaie, ora. Presto il fiume fu così lontano dietro di noi che non potevamo neppure sentirne più il rumore. Le zanzare ronzavano e io me ne schiacciai una sul collo. Vern e Teddy camminavano avanti, elaborando un qualche complicato accordo di scambio di fumetti. Chris era accanto a me, le mani in tasca, la camicia che gli sventolava contro le ginocchia e le cosce come un grembiule.

«Ho portato qualche Winston», disse. «Fregate dal casset­to del mio vecchio. Una per uno. Per dopo cena.»

«Sì? Magnifico.»

«È allora che le sigarette sono più buone», disse Chris, «Dopo cena.»

«Esatto.»

Camminammo in silenzio per un po'.

«È una storia bellissima», disse Chris all'improvviso. «So­no proprio un po' troppo stupidi per capirla.»

«No, non è un gran che. È una fesseria.»

«Dici sempre così. Non raccontarmi cazzate che non ci credi nemmeno tu. La scrivi, la storia?»

«Può darsi. Ma per ora no. Non posso scriverle subito dopo averle raccontate. Aspetterà.»

«Sai, quello che ha detto Vern? Del finale che sarebbe un bidone?»

«Be'?»

Chris rise. «La vita è un bidone, lo sai? Guarda noi.»



«Ma no, ce la stiamo spassando.»

«Come no, tutto il tempo, moccioso.»

Risi. Anche Chris.

«Ti vengono fuori così, come bolle dalla coca», fece dopo un po'.

«Che cosa?» Ma credevo di sapere a che si riferiva.

«Le storie. Mi fai morire, amico. È come se potessi raccon­tare un milione di storie e ne avessi sempre una da aggiungere. Sarai un grande scrittore un giorno, Gordie.»

«No, non credo.»

«Ma sì invece. Forse scriverai anche su di noi se mai ti tro­vassi a secco di materiale.»

«Dovrei essere proprio maledettamente a secco!» Gli diedi di gomito.

Ci fu una breve pausa di silenzio e poi mi chiese, all'improv­viso: «Sei pronto per la scuola?»

Mi strinsi nelle spalle. E chi lo è mai? Ci si eccita un po' a pensare di ritornare, di rivedere gli amici; ci si incuriosisce sugli insegnanti nuovi e su come saranno — giovanissimi appena usciti dall'università che puoi maltrattare o qualche vecchia ca­riatide che è lì dai tempi di Alamo. In un certo senso strano ci si può anche sentire eccitati per le lunghe pallose lezioni, perché con l'avvicinarsi della fine delle vacanze estive a volte ci si sente così stufi da credere che sia possibile anche imparare qualcosa. Ma la noia estiva non ha niente a che fare con la noia della scuola, che si instaura immancabilmente entro la fine della se­conda settimana, e all'inizio della terza sei immerso nella so­stanza vera della faccenda: Sarai in grado di colpire Stinky Fiske dietro la testa con la sua Art-Gum mentre l'insegnante sta scri­vendo alla lavagna le principali esportazioni del Sudamerica? Quanti bei cigolii forti sarai capace di estrarre dalla superficie verniciata del banco se hai le mani sudate come si deve? Chi sa fare la scorreggia più forte negli spogliatoi mentre ci si cambia per ed fis? Quante ragazze sarai capace di portarti a giocare al dottore nell'ora del pranzo? Istruzione superiore, gente.

«La prima delle superiori», disse Chris. «E sai una cosa, Gordie? Per giugno prossimo saremo tutti divisi.»

«Che stai dicendo? Perché dovrebbe succedere una cosa del genere?»

«Non è come le elementari, ecco perché. Tu sarai nei corsi di college. Io e Teddy e Vern saremo nei corsi professionali, a giocare a biglie con il resto dei ritardati, a fare posacenere e ripari per uccelli. Vern potrebbe addirittura dover andare al cor­so di recupero. Tu incontrerai un sacco di compagni nuovi. Gente in gamba. È così che va, Gordie. È così che l'hanno or­ganizzata.»

«Incontrerò un sacco di femminucce, è questo che devi di­re.»

Mi strinse il braccio. «No, amico. Non dirlo. Non pensarlo neanche. Accetteranno le tue storie. Non come Vern e Teddy.»

«Al diavolo le storie. Non ho intenzione di farmela con un mucchio di femminucce. Nossignore.»

«Se non lo fai, sei una testa di cazzo.»

«È una testa di cazzo uno che vuole stare con i suoi amici?»

Mi guardò pensieroso, come decidendo se dovesse o no dir­mi qualcosa. Avevamo rallentato il passo; Vern e Teddy erano ormai quasi mezzo miglio avanti a noi. ll sole, ora più basso, ci arrivava attraverso l'intrico degli alberi, in raggi spezzati e pol­verosi, mutando tutto in oro — ma era un oro pacchiano, da bottega di paccottiglia, se capite che intendo. I binari si stende­vano davanti a noi nella foschia che cominciava a raccogliersi — sembravano quasi scintillare. Puntini luminosi, come stelle, bril­lavano sulle rotaie qua e là, come se qualche ricco strampalato travestito da operaio delle ferrovie avesse deciso di ficcare un diamante nell'acciaio ogni sessantina di metri. Faceva ancora caldo. Il sudore ci scorreva addosso, ungendo i nostri corpi.

«È una testa di cazzo se i suoi amici possono trascinarlo a fondo», disse finalmente Chris. «Io conosco te e i tuoi. Tuo fratello maggiore, a lui sì ci tenevano. Come mio padre, quando Frank fu messo dentro a Portsmouth. Fu allora che cominciò a prendersela sempre con noialtri e a picchiarci sempre. Tuo pa­dre non ti batte, ma forse così è anche peggio. Ti ha messo a dormire. Potresti dirgli che ti sei iscritto alla fottuta divisione commerciale e sai che farebbe lui? Girerebbe la pagina del gior­nale e direbbe: Bene, bravo Gordon, vai a chiedere a tua madre che c'è per cena. E non provare a dirmi che non è così. L'ho conosciuto.»

Non provai a dirgli che non era così. Fa paura scoprire che qualcun altro, anche un amico, sa come stanno le cose per te.

«Sei solo un ragazzo, Gordie...»

«Ghii, grazie, papà.»

«Ti farei vedere io se fossi tuo padre!» disse con rabbia. «Non te ne andresti in giro a cianciare di fare quegli stupidi corsi commerciali, se io fossi tuo padre! È come se Dio ti avesse dato qualcosa, tutte quelle storie che sai inventare, e ti dicesse: Questo è quello che abbiamo per te, ragazzo. Cerca di non perderlo. Ma i ragazzi perdono tutto se non c'è qualcuno che li tiene d'occhio, e se i tuoi sono troppo distrutti per farlo loro, allora dovrei farlo io.»

Dalla faccia sembrava che si aspettasse che gli allungassi un pugno; era chiusa e infelice in quella luce verde dorata del tardo pomeriggio. Aveva infranto la regola base che vigeva tra i ra­gazzi a quei tempi. Potevi dire qualsiasi cosa di un altro ragaz­zo, potevi trattarlo come un cane, ma non dovevi dire mai nien­te di male di sua madre e suo padre. Questo era il Mitico Auto­matico, allo stesso modo che non invitare a cena un amico cat­tolico di venerdì senza prima accertarsi che non ci fosse carne era il Mitico Automatico. Se un compagno parlava male di tua madre o di tuo padre, eri obbligato a fargli assaggiare i pugni.

«Queste storie che racconti, non servono a nessuno oltre che a te, Gordie. Se continui a fartela con noi perché non vuoi che la banda si spacchi, finirai come un deficiente qualunque. An­drai alla stessa fottuta scuola commerciale a lanciare gomme e a tirare avanti insieme al resto dei deficienti. Avrai le punizioni. Le fottutissime sospensioni. E dopo un po' la sola cosa che ti importerà sarà procurarti una macchina per portare una polla­stra a fare due salti o giù alla fottuta Two Bridges Tavern. Poi la metterai incinta e passerai il resto della vita in fabbrica o in qualche fottuto calzaturificio di Auburn o magari anche su a Hillcrest a curare i polli. E quella storia delle torte non sarà mai scritta. Niente sarà mai scritto. Perché sarai uno dei tanti furboni con merda al posto del cervello.»

Chris Chambers aveva dodici anni mentre mi diceva tutto questo. Ma mentre me lo diceva la sua faccia si era raggrinzita e trasformata in qualcosa di più vecchio, di vecchissimo, di senza età. Parlava senza tono, senza colore, ma ciononostante quello che diceva riempì di terrore le mie viscere. Era come se avesse già vissuto tutta quella vita, quella vita dove vi dicono di salire su e far girare la Ruota della Fortuna, e quella gira alla perfe­zione e uno spinge sul pedale e viene fuori il doppio zero, il banco vince, perdono tutti. Ti danno l'ingresso libero e poi ti mettono il secchio d'acqua sulla porta, divertentissimo, ah ha, uno scherzo che anche Vern Tessio potrebbe apprezzare.

Mi afferrò per il braccio nudo e le sue dita si strinsero. Mi segnavano dei solchi nella carne. Stritolavano le ossa. I suoi oc­chi erano velati e morti — così morti, amico, che pareva appena uscito dalla bara.

«Lo so che cosa pensa della mia famiglia la gente di que­sto paese. Lo so che cosa pensano di me e che cosa si aspettano. Nessuno mi ha mai nemmeno domandato se avevo preso io i soldi quella volta. Mi dettero semplicemente una vacanza di tre giorni.»

«Li avevi presi tu?» chiesi. Non gliel'avevo mai chiesto, e se qualcuno mi avesse detto che un giorno l'avrei fatto, gli avrei dato del pazzo. Le parole mi uscirono come un piccolo proiettile secco.

«Già», disse. «Già, li ho presi io.» Rimase in silenzio per un momento, guardando avanti verso Teddy e Vern. «Tu lo sapevi che li avevo presi io, Teddy lo sapeva. Tutti lo sapevano. Perfino Vern lo sapeva, credo.»

Feci per negarlo, e poi chiusi la bocca. Aveva ragione. No­nostante tutto quello che potessi sostenere con mio padre e mia madre sul fatto che una persona deve essere ritenuta innocente finché non si dimostra colpevole, lo sapevo.

«Allora forse mi pentii e cercai di restituirli», disse Chris.

Lo fissai, con gli occhi sgranati. «Tu cercasti di restituirli

«Forse, ho detto. Solo forse. E forse li portai alla vecchia Simons e glielo dissi, e forse i soldi erano tutti lì ma io ebbi lo stesso i tre giorni di vacanza, perché i soldi non sono mai saltati fuori. E forse la settimana dopo la vecchia Simons aveva quella gonna nuova nuova quando venne a scuola.»

Fissai Chris, senza parole per l'orrore. Lui mi sorrise, ma era un sorriso tirato, spaventoso, che non gli arrivò mai agli occhi.

«Solo forse», ripeté ancora, ma io ricordai la gonna nuova, una gonna di lana, grigio chiara. Ricordai di aver pensato che la faceva sembrare più giovane, la vecchia Simons, quasi carina.

«Chris, quanti erano quei soldi?»

«Quasi sette dollari.»

«Cristo», mormorai.

«E così diciamo che io ho rubato i soldi del latte ma poi la vecchia Simons li ha rubati a me. Supponiamo che fossi andato a raccontare questa teoria. Io, Chris Chambers. Fratello minore di Frank Chambers e di Eyeball Chambers. Pensi che qualcuno ci avrebbe mai creduto?»

«Mai», mormorai ancora. «Gesù Cristo!»

Fece ancora quel sorriso gelido, spaventoso. «E pensi che quella cagna avrebbe mai osato tentare una cosa del genere se fosse stato uno di quei fighetti su a The View a prendere i sol­di?»

«No», dissi.

«Già. Se fosse stato uno di loro, la Simons avrebbe detto: Va be', va be', per questa volta perdoniamo, ma una bella bac­chettata sulla mano non te la toglie nessuno e se lo fai ancora, la bacchettata sarà su tutt'e due le mani, e forte. Ma io... be', forse teneva d'occhio quella gonna da chi sa quanto tempo. Comun­que, vide l'occasione e la colse. Sono stato io l'idiota a tentare di restituire i soldi. Ma non avrei mai pensato... non avrei mai pensato che un'insegnante... oh, chi se ne fotte, comunque? per­ché poi ne sto parlando?»

Si strofinò un braccio sugli occhi e mi resi conto che stava quasi piangendo.

«Chris», dissi, «perché non vai nel corso del college? Sei abbastanza in gamba.»

«Questo lo decidono tutto nell'ufficio. E nelle loro piccole eleganti riunioni. Gli insegnanti, loro siedono attorno in questo grande cerchio e tutti dicono Sì, Sì, Giusto, Giusto. Non gliene frega un cazzo a nessuno se ti sei comportato bene alle elemen­tari e che ne pensa il paese della tua famiglia. Tutto quello che decidono loro è se contaminerai o no tutti quei preziosi fighetti destinati al college. Ma forse proverò a farcela da solo a uscirne. Non lo so se ci riesco, ma posso provare. Perché voglio andar­mene da Castle Rock e andare al college e non voglio rivedere mai più il mio vecchio o i miei fratelli. Voglio andarmene in qualche posto dove nessuno mi conosce e dove non ho nessuna macchia nera addosso prima di cominciare. Ma non so se ce la faccio.»

«Perché?»

«La gente. La gente ti trascina giù.»

«Chi?» chiesi io, pensando che si riferisse agli insegnanti, o a mostri adulti come Miss Simons, che aveva desiderato una gonna nuova, o magari a suo fratello Eyeball che se ne andava in giro con Ace e Billy e Charlie e gli altri, o magari a suo padre e a sua madre.

Ma lui disse: «I tuoi amici, loro ti trascinano giù, Gordie. Non lo sai?» Indicò Vern e Teddy, che si erano fermati e aspet­tavano che li raggiungessimo. Stavano ridendo di qualcosa; Vern, anzi, era piegato in due dalle risate. «I tuoi amici. Sono come quelli che ti annegano attaccandosi alle gambe. Non puoi salvarli. Puoi solo annegare con loro.»

«Avanti, lumache fottute!» gridò Vern, sempre ridendo.

«Ecco, arriviamo!» rispose Chris, e prima che potessi dire altro, si mise a correre. Corsi anch'io, ma lui li raggiunse prima che io riuscissi a raggiungere lui.


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