Margaret atwood



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Sembrava la cosa migliore da fare per proteggere Laura.

«Viene da fuori città, signor Thomas?»

«Sì. Sono qui in visita da conoscenti». Sembrava quello che Reenie a-

vrebbe definito un simpatico giovanotto, intendendo non povero. Ma ne-

anche ricco.

«È un amico di Callie» disse Laura. «Era qui un attimo fa, ci ha presen-

tati lei. È venuto con il suo stesso treno». Stava dando un po' troppe spie-

gazioni.


«Hai conosciuto Richard Griffen?» chiesi a Laura. «Era con papà. Il ti-

zio che verrà a cena».

«Richard Griffen, il magnate, lo sfruttatore?» chiese il giovanotto.

«Alex, il signor Thomas, è un esperto dell'antico Egitto» disse Laura.

«Mi stava parlando dei geroglifici». Lo guardò. Non l'avevo mai vista ri-

volgere a nessun altro uno sguardo come quello. Spaventato, abbagliato?

Era difficile dare un nome a uno sguardo del genere.

«Sembra interessante» dissi. Sentii la mia voce pronunciare la parola in-

teressante con quel tono beffardo che usa la gente. Dovevo trovare il modo

per dire a questo Alex Thomas che Laura aveva solo quattordici anni, ma

non mi veniva in mente nulla che non l'avrebbe fatta arrabbiare.

Alex Thomas tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della camicia

- Craven A, se ben ricordo. Batté leggermente sul pacchetto per farne usci-

re una. Ero un po' sorpresa che fumasse sigarette bell'e pronte - la cosa mal

si accordava con la sua camicia. Le sigarette confezionate erano un lusso:

gli operai della fabbrica se le facevano da sé, qualcuno con una mano sola.

«Grazie, ne prendo una» dissi. Avevo fumato solo poche sigarette prima

d'allora, e anche quelle di nascosto, sgraffignate dalla scatola d'argento so-

pra il piano. Mi rivolse uno sguardo duro, il che credo fosse quello che vo-

levo, quindi mi offrì il pacchetto. Accese un fiammifero con il pollice e me

lo porse.

«Non dovresti farlo» disse Laura. «Potresti darti fuoco».

Elwood Murray ci comparve di fronte, di nuovo in piedi e pimpante.

Aveva il davanti della camicia ancora umido e macchiato di rosa, dove le

donne avevano provato a ripulire il sangue con i fazzoletti bagnati; l'inter-

no delle narici era orlato di rosso scuro.

«Salve, signor Murray» lo salutò Laura. «Sta bene?»

«Alcuni dei ragazzi si sono lasciati trascinare un po'» disse Elwood Mur-

ray, quasi stesse rivelando timidamente di avere vinto un qualche premio.

«È stato solo per divertirsi. Posso?» Quindi ci fece una foto con la sua

macchina col flash. Diceva sempre Posso? prima di scattare una fotografia

per il giornale, ma non aspettava mai la risposta. Alex Thomas sollevò la

mano come per schermirsi.

«Conosco queste due belle signore, naturalmente» gli disse Elwood

Murray, «ma qual è il suo nome?»

Reenie piombò lì all'improvviso. Aveva il cappello di traverso ed era

rossa in faccia e senza fiato. «Vostro padre vi sta cercando dappertutto»

disse.


Sapevo che non era vero. Ciò nonostante io e Laura dovemmo alzarci

dall'ombra dell'albero, spazzolarci le gonne e andare con lei, come ana-

troccoli chiamati a raccolta.

Alex Thomas ci fece un cenno di saluto. Era un cenno sardonico, o al-

meno così mi sembrò.

«Non sapete fare nulla di meglio?» disse Reenie. «Stare sedute scompo-

ste sull'erba con il Signore sa chi. E per l'amor del cielo, Iris, butta via

quella sigaretta, non sei una sgualdrina. E se tuo padre ti vede?»

«Papà fuma come un turco» dissi, in un tono che speravo insolente.

«È diverso» ribatté Reenie.

«Il signor Thomas» disse Laura. «Il signor Alex Thomas. Studia teolo-

gia. O almeno lo faceva fino a poco fa» aggiunse scrupolosamente. «Ha

perso la fede. La sua coscienza non gli avrebbe permesso di continuare».

Era chiaro che la coscienza di Alex Thomas aveva fatto una profonda

impressione su Laura, ma non scosse minimamente Reenie. «Cosa combi-

na, allora?» disse. «Qualcosa di equivoco, scommetto, o io sono una cine-

se. Ha un aspetto ambiguo».

«Cos'ha che non va?» chiesi a Reenie. Non mi era piaciuto, ma senza

dubbio ora veniva giudicato in maniera preconcetta.

«Cos'ha che va, piuttosto» disse lei. «E poi, rotolarsi sul prato sotto gli

occhi di tutti». Stava parlando più a me che a Laura. «Almeno avevi la

gonna tirata giù». Reenie diceva che una ragazza sola con un uomo do-

vrebbe poter tenere una moneta tra le ginocchia. Aveva sempre paura che

la gente - gli uomini - ci vedesse le gambe, la parte sopra il ginocchio. Del-

le donne che permettevano che ciò accadesse, diceva: Su il sipario, dov'è

lo spettacolo? O: Tanto vale che appenda un cartello. O, in tono più male-

fico: Lo vuole lei, avrà quanto si merita, o, nei casi peggiori: È un inciden-

te prevedibile.

«Non ci stavamo rotolando» disse Laura. «Non eravamo in pendio».

«Rotolare o no, sai cosa intendo» disse Reenie.

«Non stavamo facendo nulla» osservai. «Stavamo parlando».

«Questo non c'entra» replicò Reenie. «La gente potrebbe vedervi».

«La prossima volta che non faremo nulla ci nasconderemo tra i cespu-

gli» dissi.

«E chi è, a ogni modo?» chiese Reenie, che di solito ignorava le mie

provocazioni dirette, dal momento che ormai non poteva evitarle. Chi è si-

gnificava Chi sono i suoi genitori.

«È orfano» disse Laura. «È stato adottato, preso da un orfanotrofio. Lo

hanno adottato un ministro presbiteriano e sua moglie». Sembrava avere

strappato questa informazione ad Alex Thomas in pochissimo tempo, ma

era una delle sue abilità, se così può chiamarsi - tempestava l'interlocutore

di domande, del genere personale che ci era stato insegnato che era male-

ducato fare, finché quello, in preda alla vergogna o all'indignazione, era

costretto a smettere di rispondere.

«Un orfano!» disse Reenie. «Potrebbe essere chiunque!»

«Cos'hanno gli orfani che non va?» chiesi. Sapevo cos'avevano che non

andava secondo la modesta opinione di Reenie: non sapevano chi erano i

loro padri, e questo li rendeva inaffidabili, se non dei veri e propri degene-

rati. Nato in un fosso, ecco come la metteva Reenie. Nato in un fosso, la-

sciato davanti a una porta.

«Non ci si può fidare di loro» disse Reenie. «Avanzano strisciando. Non

conoscono limiti».

«Be', a ogni modo» disse Laura, «l'ho invitato a cena».

«Questo è davvero il colmo!» disse Reenie.

Dispensatrici di pane

C'è un susino selvatico sul retro del giardino, oltre il recinto. È antico,

nodoso, con i rami ritorti. Walter dice che dovremmo abbatterlo, ma io ho

osservato che, a ben guardare, non è mio. In ogni caso, ci sono affezionata.

Fiorisce ogni primavera, senza che nessuno glielo chieda, senza nessuna

cura; verso la fine dell'estate lascia cadere le susine nel mio giardino, pic-

cole, blu e ovali con sopra una patina simile a polvere. Che generosità.

Questa mattina ho raccolto gli ultimi frutti fatti cadere dal vento - quei po-

chi che gli scoiattoli, i procioni e le vespe intontite mi hanno lasciato - e li

ho mangiati avidamente, mentre il succo della loro polpa ammaccata mi

insanguinava il mento. Non ci ho fatto caso finché Myra non è passata con

un altro dei suoi pasticci di tonno. Santo cielo, ha detto, con la sua risata

ansimante da uccello. Con chi ti sei azzuffata?

Ricordo quella cena della Festa del Lavoro in ogni dettaglio, perché è

stata l'unica volta in assoluto che siamo stati tutti insieme nella stessa stan-

za.


Ai Campeggi i festeggiamenti erano ancora in corso, ma in nessuna for-

ma a cui sarebbe stato consigliabile assistere da vicino, giacché il consumo

clandestino di liquore a buon mercato andava ormai a ruota libera. Laura e

io ce n'eravamo andate presto, per aiutare Reenie nei preparativi della ce-

na.

Questi duravano ormai da qualche giorno. Appena Reenie era stata in-



formata di quella cena speciale, aveva disseppellito il suo unico libro di

cucina, Il libro di cucina della scuola di Boston, di Fannie Merritt Farmer.

In realtà non era suo: era appartenuto alla nonna Adelia, che lo aveva con-

sultato - insieme ai suoi svariati cuochi, naturalmente - nell'organizzare le

sue cene da dodici portate. Reenie lo aveva ereditato, sebbene non lo usas-

se per la cucina di tutti i giorni - quella ce l'aveva tutta in testa, a sentir lei.

Ma qui ci voleva qualcosa di alta classe.

Io lo avevo letto quel libro, o almeno lo avevo sfogliato, nei giorni in cui

avevo elaborato una visione romantica di mia nonna. (Ormai ci avevo ri-

nunciato. Sapevo che mi avrebbe dato addosso anche lei, come facevano

Reenie e mio padre, e come avrebbe fatto mia madre, se non fosse morta.

Darmi addosso era la ragione di vita di tutte le persone adulte. Non si de-

dicavano ad altro).

Il libro di cucina aveva una copertina scialba, di un assurdo color sena-

pe, e conteneva cose altrettanto scialbe. Fannie Merritt Farmer era impla-

cabilmente pragmatica - tutto secondo copione, in uno stringato stile New

England. Presumeva che il lettore non sapesse nulla, e cominciava da lì:

«Una bevanda è qualsiasi cosa da bere. L'acqua è la bevanda fornita al-

l'uomo dalla natura. Tutte le bevande contengono una larga percentuale di

acqua, e perciò dovrebbero essere considerati loro fini: I. Spegnere la sete.

II. Introdurre l'acqua nel sistema circolatorio. III. Regolare la temperatura

del corpo. IV. Aiutare lo smaltimento dei liquidi. V. Nutrire. VI. Stimolare

il sistema nervoso e svariati organi. VII. Scopi medici» e così via.

Il gusto e il piacere non rientravano nelle sue liste, ma sulla prima pagi-

na del libro c'era una curiosa epigrafe di John Ruskin:

Arte culinaria significa la conoscenza di Medea e di Circe e di E-

lena e della regina di Saba. Significa la conoscenza di tutte le erbe

e i frutti e i balsami e le spezie, e di tutto ciò che è salutare e dolce

nei campi e nei boschetti e saporito nelle carni. Significa prudenza

e inventiva e buona volontà e prontezza di esecuzione. Significa

la parsimonia delle vostre nonne e la scienza del moderno chimi-

co; significa provare e non sprecare; significa la meticolosità in-

glese e l'ospitalità francese e araba; e, infine, significa che dovete

essere sempre delle perfette signore - dispensatrici di pane.

Trovavo difficile immaginarmi Elena di Troia in grembiule, con le ma-

niche rimboccate fino al gomito e le guance sporche di farina; e da quanto

sapevo di Circe e Medea, le uniche cose che avessero mai preparato erano

pozioni magiche, per avvelenare eredi in linea diretta o trasformare uomini

in maiali. Quanto alla regina di Saba, dubito che avesse mai fatto anche so-

lo un toast. Mi chiedevo dove il signor Ruskin avesse preso quelle strane

idee, sia sulle signore che sull'arte culinaria. Eppure, era un'immagine che

deve essere piaciuta a moltissime donne della piccola borghesia dell'epoca

di mia nonna. Dovevano essere composte nel portamento, inavvicinabili,

perfino regali, ma dotate di ricette arcane e potenzialmente letali, e capaci

di ispirare le passioni più accese negli uomini. E per di più, perfette e sem-

pre signore - dispensatrici di pane. Distributrici di graziosa prodigalità.

Qualcuno aveva mai preso sul serio questo genere di cose? Mia nonna

sì. Bastava guardare i suoi ritratti - quel sorriso gongolante, quelle palpe-

bre abbassate. Chi credeva di essere, la regina di Saba? Senza alcun dub-

bio.


Quando tornammo dal picnic, trovammo Reenie che si affaccendava in

cucina. Non ricordava molto Elena di Troia: nonostante tutto il lavoro fatto

in anticipo, era agitata e di malumore; sudava e aveva i capelli che le cade-

vano giù. Disse che dovevamo accontentarci di quello che sarebbe venuto

fuori, perché cos'altro potevamo aspettarci, visto che lei non faceva mira-

coli, compreso cavar sangue da una rapa. E toccava anche mettere un posto

in più, proprio all'ora zero, per questo Alex, o comunque si chiamasse. A-

lex il Furbo, si sarebbe detto dall'aspetto.

«Si chiama con il suo nome» disse Laura. «Come tutti».

«Non è come tutti» disse Reenie. «Si capisce al primo sguardo. La cosa

più probabile è che sia un indiano meticcio, oppure uno zingaro. Certa-

mente non viene dallo stesso pezzo di terra coltivato a piselli di noi altri».

Laura non disse niente. Di norma non era incline ai sensi di colpa, ma

questa volta sembrava un po' pentita di avere invitato Alex Thomas sul-

l'impulso del momento. Tuttavia non poteva disdire l'invito, come osservò

- sarebbe stato mille miglia oltre la semplice maleducazione. Un invitato

era un invitato, chiunque fosse.

Anche mio padre la pensava così, sebbene fosse tutt'altro che contento:

Laura aveva bruciato le tappe e gli aveva usurpato la sua posizione di ospi-

te, ed era sicuro che ben presto avrebbe invitato alla sua tavola ogni orfano

e perdigiorno e caso pietoso, neanche lui fosse il buon re Venceslao del

canto natalizio. Quei suoi santi impulsi andavano frenati, disse; lui non ge-

stiva un ospizio di carità.

Callie Fitzsimmons aveva cercato di ammorbidirlo: Alex non era un ca-

so pietoso, lo aveva rassicurato. È vero, il giovanotto non poteva vantare

un lavoro, ma sembrava che avesse una fonte di reddito, o comunque non

si era mai saputo che avesse chiesto soldi a qualcuno. Quale poteva essere

la fonte delle sue entrate? chiese mio padre. Che fosse dannata se lo sape-

va, disse Callie: Alex aveva la bocca cucita sull'argomento. Magari rapina-

va banche, osservò mio padre con pesante sarcasmo. Niente affatto, ribatté

Callie; comunque, alcuni dei suoi amici conoscevano Alex. Mio padre dis-

se che una cosa non escludeva l'altra. A quel tempo stava diventando acido

nei confronti degli artisti. Troppi di loro avevano appoggiato il marxismo e

gli operai, e lo avevano accusato di opprimere i lavoratori.

«Alex è a posto. È soltanto un ragazzo» disse Callie. «È solo venuto a

fare una gita. È solo un amico». Non voleva che mio padre si facesse l'idea

sbagliata - che Alex Thomas fosse magari un suo boyfriend, in qualche

modo in competizione con lui.

«In cosa posso essere utile?» chiese Laura in cucina.

«L'ultima cosa di cui ho bisogno» disse Reenie, «è qualche altra maga-

gna. Tutto quello che ti chiedo è di tenerti lontana e non sgraffignare nien-

te. Mi aiuterà Iris. Lei almeno non è maldestra». Reenie pensava che aiu-

tarla fosse un segno di favore: era ancora irritata con Laura, e la stava e-

scludendo. Ma questa forma di punizione con lei non funzionava. Prese il

suo cappello da sole e andò a gironzolare sul prato.

Parte del lavoro che mi era stato assegnato consisteva nel preparare i fio-

ri per la tavola, nonché assegnare i posti. Per decorare la tavola avevo ta-

gliato alcune zinnie dalle bordure - non c'era quasi nient'altro in quel pe-

riodo dell'anno. Quanto all'assegnazione dei posti avevo messo Alex Tho-

mas accanto a me, con Callie dall'altro lato e Laura di fronte. In quel mo-

do, mi pareva, sarebbe stato isolato, o almeno lo sarebbe stata Laura.

Laura e io non avevamo vestiti adatti a una cena. Avevamo comunque

dei vestiti. Erano i soliti abiti di velluto blu scuro di quando eravamo più

piccole, allungati e con un nastro nero cucito sopra il segno consumato del

vecchio orlo per nasconderlo. Una volta avevano avuto dei colletti di mer-

letto bianco, e quello di Laura l'aveva ancora; al mio l'avevo tolto, in modo

da rendere la scollatura più profonda. Erano troppo stretti, o almeno il mio

lo era; anche quello di Laura, a pensarci bene. Per i normali standard Laura

non era abbastanza grande per partecipare a una cena come quella, ma Cal-

lie osservò che sarebbe stato crudele farla stare tutta sola nella sua stanza,

soprattutto dal momento che aveva personalmente invitato uno degli ospiti.

Mio padre disse che gli sembrava giusto. Poi disse che in ogni caso, ora

che era cresciuta a vista d'occhio come un'erbaccia, Laura sembrava della

mia stessa età. Era difficile dire che età pensava che avessimo. Non riusci-

va mai a ricordare i nostri compleanni.

All'ora fissata gli ospiti si raccolsero nel salotto per uno sherry, che fu

servito da una cugina zitella di Reenie arruolata per l'occasione. A Laura e

a me non era permesso di bere sherry o qualunque altro tipo di vino duran-

te i pasti. Laura non sembrava dispiacersi per questa esclusione, ma io sì.

Su questo punto Reenie stava dalla parte di papà, ma del resto lei era aste-

mia. «Labbra che toccano liquore non toccheranno mai le mie» diceva,

vuotando i fondi dei bicchieri di vino nel lavandino. (Tuttavia si sbagliava

al riguardo - meno di un anno dopo quella cena sposò Ron Hincks, un bel-

l'ubriacone ai suoi tempi. Myra, se stai leggendo prendi nota: prima che

venisse sbozzato in un pilastro della comunità da Reenie, tuo padre era una

bella spugna).

La cugina di Reenie era più grande di lei, e sciatta al punto che faceva

male guardarla. Indossava un vestito nero e un grembiule bianco, come si

conveniva, ma aveva calze di cotone marrone sformate, e le mani avrebbe-

ro dovuto essere più pulite. Di giorno lavorava dal fruttivendolo, dove uno

dei suoi compiti era insaccare patate; è duro sfregare via quel genere di

sporcizia.

Reenie aveva preparato delle tartine con olive a fette, uova sode e piccoli

sottaceti, nonché delle palline di pasta sfoglia al formaggio, che non erano

riuscite come avrebbero dovuto. Il tutto era disposto su uno dei vassoi mi-

gliori della nonna Adelia, di porcellana dipinta a mano proveniente dalla

Germania, con un disegno di peonie rosso scuro con foglie e gambi dorati.

Sul vassoio c'era un tovagliolo e al centro un piatto di nocciole salate, con

le tartine sistemate come i petali di un fiore, tutte spinose di stuzzicadenti.

La cugina le ficcava davanti ai nostri ospiti in maniera rozza, quasi minac-

ciosa, come se stesse inscenando una rapina a mano armata.

«Questa roba sembra pericolosa» disse mio padre con il tono ironico nel

quale ormai riconoscevo la rabbia camuffata. «Meglio rifiutarla o ve ne

pentirete quando sarà troppo tardi». Callie rise, ma Winifred Griffen Prior

sollevò con grazia una pallina al formaggio e se la infilò in bocca in quel

modo che hanno le donne quando non vogliono che il rossetto venga via -

con le labbra spinte in fuori in una specie di imbuto - e disse che era inte-

ressante. La cugina aveva dimenticato i tovaglioli da cocktail, perciò Wini-

fred fu lasciata con le dita unte. La guardai con curiosità per vedere se le

avrebbe leccate o pulite sul vestito, o magari sul divano, ma distolsi lo

sguardo al momento sbagliato, perciò mi persi la scena. Ebbi la sensazione

che lo avesse fatto sul divano.

Winifred non era (come avevo pensato) la moglie di Richard Griffen, ma

la sorella. (Era sposata, vedova o divorziata? Non era del tutto chiaro. Do-

po il «signora» usava il proprio nome di battesimo e non quello del marito,

il che faceva pensare a qualche incidente occorso al fu signor Prior, se dav-

vero era «fu». Veniva nominato di rado e nessuno l'aveva mai visto; di lui

si diceva che fosse ricco sfondato e «in viaggio». In seguito, quando Wini-

fred e io avevamo smesso di parlarci, avevo preso l'abitudine di inventare

per mio piacere storie su questo signor Prior: Winifred lo aveva fatto im-

balsamare e lo teneva sotto naftalina in uno scatolone di cartone, oppure

l'aveva murato in cantina con la complicità dell'autista, per potersi abban-

donare a orge lascive con quest'ultimo. Quanto alle orge forse non ero an-

data troppo lontana dal vero, sebbene debba riconoscere che qualsiasi cosa

Winifred facesse in quel senso era sempre nella più grande discrezione.

Copriva le tracce - cosa che richiede pur sempre una certa abilità, suppon-

go).

Quella sera Winifred indossava un abito nero, di taglio semplice ma esa-



geratamente elegante, messo in risalto da un triplo giro di perle. Gli orec-

chini erano piccoli grappoli d'uva, anch'essi di perle ma con gambi e foglie

dorati. Callie Fitzsimmons, per contrasto, era vestita volutamente sotto to-

no. Da un paio d'anni ormai aveva messo da parte il suo fucsia e le sue

stoffe zafferano, gli audaci disegni ispirati dai rifugiati politici russi e per-

fino il bocchino. Ora durante il giorno portava pantaloni e maglioni dalla

scollatura a V, con le maniche della camicia arrotolate; si era anche ta-

gliata i capelli e abbreviata il nome in Cal.

Aveva rinunciato ai monumenti ai caduti: non ce n'era più grande richie-

sta. Ora faceva bassorilievi di operai e contadini, e pescatori in pantaloni e

giacche impermeabili, e cacciatori indiani, e madri con grembiuli che si te-

nevano i bambini sui fianchi e si riparavano gli occhi mentre guardavano il

sole. Gli unici clienti che potessero permettersi di commissionare cose del

genere erano le compagnie di assicurazioni e le banche, che senza dubbio

volevano sistemarle fuori dei loro palazzi per dimostrare di essere in sin-

tonia con i tempi. Era scoraggiante essere al soldo di simili impudenti ca-

pitalisti, diceva Callie, ma quello che contava era il messaggio, e almeno

qualcuno che camminava per strada e passava davanti alle banche eccetera

avrebbe potuto vedere quei bassorilievi senza sborsare denaro. Era arte per

il popolo, diceva.

Si era messa in testa che mio padre avrebbe potuto aiutarla - procurarle

qualche altro lavoro con le banche. Ma mio padre aveva annunciato sec-

camente che lui e le banche non erano più quel che si dice in rapporti inti-

mi.


Per la serata Callie indossava un vestito di jersey del colore di uno stro-

finaccio - taupe era il nome del colore, ci disse; era la parola francese per

«talpa». Su chiunque altro avrebbe fatto l'effetto di un sacco floscio con

due maniche e una cintura, ma Callie riusciva a farlo sembrare il massimo,

non esattamente della moda o dello stile - quel vestito sottintendeva che

quelle cose erano irrilevanti -, ma piuttosto di qualcosa che era facile non

notare ma tagliente, come un comune utensile da cucina - un rompighiac-

cio, per esempio - subito prima di un delitto. Come abito era un pugno sol-

levato, ma in una folla silenziosa.

Mio padre indossava il suo smoking, che avrebbe avuto bisogno di esse-

re stirato. Richard Griffen indossava il suo, che non ne aveva bisogno. A-


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