periodo successivo di parecchi millenni all'epoca di cui parliamo. Arriva-
rono qui ottomila anni fa. Portarono con sé i semi di molte piante, ed è per
questo che abbiamo mele e arance, per non parlare delle banane - basta da-
re un'occhiata a una banana per capire che viene dallo spazio. Portarono
anche animali - cavalli, cani, capre e così via. Furono loro a costruire At-
lantide. Poi esplosero per voler essere troppo furbi. Noi discendiamo dai
superstiti.
Oh, fa lei. Questo spiega tutto. E ti torna comodo.
Lo farà all'occorrenza. Quanto alle altre caratteristiche di Zycron, ha set-
te mari, cinque lune e tre soli, di varia potenza e colore.
Che colori? Cioccolato, vaniglia e fragola?
Non mi prendi sul serio.
Mi dispiace. Piega la testa verso di lui. Ora sto ascoltando. Vedi?
Lui dice: Prima di essere distrutta, si diceva che la città - chiamiamola
con il suo vecchio nome, Sakiel-Norn, traducibile approssimativamente
con Perla del Destino - fosse stata una delle meraviglie del mondo. Anche
chi si vanta che furono i propri antenati ad annientarla ricava un gran pia-
cere nel descriverne la bellezza. Sorgenti naturali erano state fatte scorrere
attraverso fontane scolpite nei cortili rivestiti di piastrelle e nei giardini dei
suoi numerosi palazzi. C'erano fiori in abbondanza, e l'aria era piena di uc-
celli canori. Nelle sue vicinanze si stendevano pianure lussureggianti, dove
pascolavano greggi di grassi gnarr, e frutteti, boschetti e foreste di alti al-
beri non ancora abbattuti dai mercanti o bruciati dai nemici malevoli. Allo-
ra le gole aride erano fiumi; i canali che partivano da essi irrigavano i
campi attorno alla città, e il terreno era talmente ricco che si racconta che
le spighe di grano avessero un diametro di sette centimetri e mezzo.
Gli aristocratici di Sakiel-Norn erano chiamati Snilfard. Abili a lavorare
il metallo, erano inventori di complicati congegni meccanici di cui conser-
vavano gelosamente il segreto. A quel tempo avevano già inventato l'oro-
logio, la balestra e la pompa a mano, sebbene non si fossero ancora spinti
fino al motore a combustione interna e per il trasporto si servissero di ani-
mali.
Gli Snilfard maschi portavano maschere di platino intessuto, che segui-
vano i movimenti del loro viso ma servivano a nascondere le loro vere
emozioni. Le donne si velavano il volto con una stoffa simile a seta ricava-
ta dal bozzolo delle falene chaz. Coprirsi il viso se non si era uno Snilfard
era punibile con la morte, dal momento che impenetrabilità e sotterfugio
erano appannaggio della nobiltà. Gli Snilfard vestivano lussuosamente, e-
rano conoscitori di musica e suonavano svariati strumenti per fare sfoggio
del loro gusto e della loro abilità. Indulgevano negli intrighi di corte, tene-
vano feste sontuose e intrecciavano complicati amori con le mogli degli al-
tri. A causa di ciò venivano combattuti duelli, sebbene in un marito fosse
più apprezzabile fingere di non sapere.
I piccoli proprietari, i servitori e gli schiavi erano chiamati Ygnirod. In-
dossavano logore tuniche grige che lasciavano scoperta una spalla, e anche
un seno nel caso delle donne, che erano - inutile a dirsi - facile bersaglio
degli uomini Snilfard. Gli Ygnirod erano pieni di risentimento per il desti-
no riservato loro nella vita, ma lo nascondevano fingendosi sciocchi. Una
volta ogni tanto organizzavano una rivolta, che veniva spietatamente sof-
focata. Tra loro il gradino più basso era occupato dagli schiavi, che pote-
vano essere comprati, barattati e anche uccisi a piacimento. La legge proi-
biva loro di leggere, ma avevano codici segreti che graffiavano nella terra
per mezzo di pietre. Gli Snilfard li attaccavano agli aratri.
Se uno Snilfard andava in rovina, poteva essere retrocesso a Ygnirod.
Oppure aveva la possibilità di evitare questo destino vendendo la moglie o
i figli per estinguere il suo debito. Era molto più raro che un Ygnirod rag-
giungesse lo stato di Snilfard, giacché di solito la salita è molto più ardua
della discesa: anche se era in grado di accumulare il denaro necessario a
procurare una sposa Snilfard per sé o per il figlio, la cosa comportava
sempre una certa dose di corruzione, e poteva passare del tempo prima che
egli venisse accettato dalla società degli Snilfard.
Credo che ora stia venendo fuori il tuo bolscevismo, dice lei. Sapevo che
avresti trovato il modo di infilarcelo, prima o poi.
Al contrario. La cultura che descrivo si basa sull'antica Mesopotamia. È
nel Codice di Hammurabi, le leggi degli ittiti e così via. O c'è almeno in
parte. In ogni modo, il passo sui veli c'è, e anche la vendita delle mogli.
Potrei citarti capitolo e versetto.
Per favore, oggi non citarmi capitolo e versetto, dice lei. Non ne avrei la
forza, sono troppo debole. Sono spossata.
È agosto, fa fin troppo caldo. L'umidità galleggia sopra di loro in una
nebbia invisibile. Le quattro del pomeriggio, la luce sembra burro fuso.
Sono seduti su una panchina nel parco, non troppo vicini l'uno all'altra; un
acero con foglie esauste sopra le loro teste, terra screpolata sotto i loro pie-
di, erba avvizzita tutt'intorno. Una crosta di pane beccata dai passeri, car-
tacce spiegazzate. Non è la zona migliore. Una fontanella che gocciola; tre
bambini sporchi, una femmina in prendisole e due maschi in calzoncini,
stanno cospirando lì accanto.
Lei indossa un abito giallo primula; sotto il gomito ha le braccia nude,
coperte di sottili peli chiari. Si è tolta i guanti di cotone, li ha schiacciati in
una palla, le sue mani sono nervose. Lui non si cura del suo nervosismo:
gli piace pensare di costarle già qualcosa. Lei porta un cappello di paglia
rotondo, come quello di una scolara; ha i capelli appuntati indietro; una
ciocca madida spunta fuori. Un tempo la gente usava tagliare ciocche di
capelli, conservarle, portarle dentro medaglioni; o, nel caso degli uomini,
vicino al cuore. Prima di allora lui non aveva mai capito il perché.
Dove credono che tu sia? chiede.
A fare spese. Non vedi il sacchetto delle compere? Ho preso un po' di
calze; sono molto buone, della seta migliore. È come non indossare niente.
Accenna un sorriso. Ho soltanto un quarto d'ora.
Ha fatto cadere un guanto, è accanto al suo piede. Lui lo tiene d'occhio.
Se nell'andarsene lo dimentica, se ne impadronirà. In assenza di lei, ne a-
spirerà il profumo.
Quando posso vederti? chiede. La brezza calda smuove le foglie, la luce
cade attraverso di esse, attorno a lei c'è del polline, una nuvola dorata. In
realtà è polvere.
Mi stai vedendo adesso, dice lei.
Non fare così, ribatte lui. Dimmi quando. La pelle nella scollatura a V
del suo vestito brilla, una pellicola di sudore.
Non lo so ancora, risponde. Si guarda al di sopra la spalla, scruta il par-
co.
Non c'è nessuno qui intorno, dice lui. Nessuno che conosci.
Non si sa mai quando potrebbe esserci, fa lei. Non si sa mai chi si cono-
sce.
Dovresti prendere un cane, dice lui.
Ride. Un cane? Perché?
Allora avresti una scusa. Potresti portarlo a passeggio. Il cane e me.
Il cane sarebbe geloso di te, dice lei. E tu penseresti che io preferisca il
cane.
Ma tu non lo preferiresti, fa lui. Vero?
Lei spalanca ancora di più gli occhi. Perché non dovrei?
Lui dice: I cani non parlano.
The Toronto Star, 25 agosto 1975
NIPOTE DI ROMANZIERA
VITTIMA DI UNA CADUTA
SPECIALE PER THE STAR
Aimee Griffen, trentotto anni, figlia del defunto Richard E.
Griffen, l'eminente industriale, e nipote della nota scrittrice Laura
Chase, è stata trovata morta nella cantina del suo appartamento di
Church St. mercoledì, con il collo rotto in seguito a una caduta.
Apparentemente il decesso risale al giorno precedente. I vicini Jos
e Beatrice Kelly sono stati messi in allarme dalla figlia di quattro
anni della signorina Griffen, Sabrina, che spesso si recava da loro
in cerca di cibo quando non trovava la madre.
Corre voce che la signorina Griffen abbia lottato a lungo contro
tossicodipendenza e alcolismo, e sia stata ricoverata in ospedale
in parecchie occasioni. Sua figlia è stata affidata alle cure della
signora Winifred Prior, sua prozia, mentre è imminente un'indagi-
ne. Né la signora Prior né la madre di Aimee Griffen, signora Iris
Griffen di Port Ticonderoga, hanno voluto rilasciare dichiarazioni.
Questo sfortunato episodio è un ulteriore esempio della negli-
genza dei nostri attuali servizi sociali, nonché della necessità di
migliorare la legislazione per potenziare la tutela dei bambini a ri-
schio.
L'assassino cieco: I tappeti
La linea ronza e crepita. È un tuono, o c'è qualcuno che sta ascoltando?
Ma è a un telefono pubblico, non possono rintracciarlo.
Dove sei? fa lei. Non dovresti telefonare qui.
Non può sentirla respirare, non può sentire il suo respiro. Vuole che si
metta il ricevitore contro la gola, ma non glielo chiederà, non ancora. Sono
dietro l'angolo, dice. A un paio di isolati di distanza. Potrei andare al par-
co, quello piccolo, con la meridiana.
Oh, non credo...
Scivola via. Di' che hai bisogno di un po' d'aria. Rimane in attesa.
Cercherò.
All'entrata del parco ci sono due pilastri di pietra quadrangolari con la
cima smussata, dall'aspetto egizio. Tuttavia non vi compaiono iscrizioni
trionfali, nessun bassorilievo di nemici incatenati in ginocchio. Soltanto
Vagabondaggio vietato e Tenere i cani al guinzaglio.
Vieni qui, dice lui. Lontano dalla luce della strada.
Non posso restare a lungo.
Lo so. Vieni qui dietro. Le afferra il braccio, guidandola; lei trema come
un filo metallico in balia di un forte vento.
Là, dice lui. Non può vederci nessuno. Niente vecchie signore che por-
tano a passeggio i loro barboncini.
Niente poliziotti con il manganello, dice lei. Fa una breve risata. La luce
del lampione filtra attraverso le foglie, facendo baluginare debolmente il
bianco dei suoi occhi. Non dovrei essere qui, dice. È un rischio troppo
grosso.
C'è una panchina di pietra a ridosso di alcuni cespugli. Lui le mette la
sua giacca sulle spalle. Vecchio tweed, vecchio tabacco, odore di bruciato.
Un retrogusto di sale. La pelle di lui è stata qui, a contatto della stoffa, do-
ve ora c'è quella di lei.
Ecco, starai più calda. Ora disobbediremo alla legge. Vagabonderemo.
E quanto al Tenere i cani al guinzaglio?
Disobbediremo anche a quello. Non le mette il braccio intorno. Sa che
lei vorrebbe. Se lo aspetta; sente già il tocco, come gli uccelli sentono
l'ombra. Camminando ha preso una sigaretta. Gliene offre una; questa vol-
ta l'accetta. La breve fiammata del fiammifero tra le loro mani a coppa. Le
punte delle dita rosse.
Lei pensa: Una fiamma un po' più intensa e vedremmo le ossa. Come le
radiografie. Siamo soltanto una specie di nebbia, nient'altro che acqua co-
lorata. L'acqua fa come vuole. Scende sempre a valle. La sua gola si riem-
pie di fumo.
Lui dice: Ora ti racconterò dei bambini.
I bambini? Quali bambini?
La rata successiva. Su Zycron, a Sakiel-Norn.
Oh. Sì.
Ci sono dei bambini.
Non avevamo parlato di bambini.
Sono bambini schiavi. Ci vogliono. Non so cavarmela senza di loro.
Non credo di volerci dei bambini, fa lei.
Puoi sempre dirmi di fermarmi. Nessuno ti sta forzando. Sei libera di
andare, come dice la polizia quando sei fortunato. Mantiene la voce uni-
forme. Lei non se ne va.
Lui dice: Adesso Sakiel-Norn è un tumulo di pietre, ma una volta era un
fiorente centro di commercio e di scambio. Era situata a un incrocio in cui
confluivano tre vie di comunicazione terrestri - una da est, una da ovest e
una da sud. Al nord era collegata per mezzo di un largo canale che arrivava
al mare, dove possedeva un porto ben fortificato. Di questi scavi e mura
difensive non rimane traccia: dopo la sua distruzione, i blocchi di pietra
sbozzati furono portati via dai nemici o dagli stranieri che se ne servirono
per i loro recinti di animali, i loro canali di scolo dell'acqua e le loro rudi-
mentali fortificazioni, oppure furono seppelliti dalle onde e dal vento sotto
la sabbia che si accumulava.
Il canale e il porto furono costruiti da schiavi, il che non deve stupirci:
era grazie agli schiavi che Sakiel-Norn aveva acquistato la sua magnifi-
cenza e il suo potere. Ma era anche rinomata per i lavori manuali, in parti-
colare la tessitura. I segreti delle tinte usate dai suoi artigiani erano gelo-
samente conservati: le sue stoffe brillavano come miele liquido, come suc-
co di uva purpurea, come una coppa di sangue di toro versata al sole. I suoi
veli delicati erano leggeri come ragnatele, e i suoi tappeti tanto soffici e fi-
ni da far credere di camminare sull'aria, un'aria fatta per assomigliare ai
fiori e all'acqua che scorre.
È molto poetico, dice lei. Sono sorpresa.
Pensalo come un grande magazzino, dice lui. A ben guardare, si trattava
di beni di scambio di lusso. Così è meno poetico.
Le stoffe erano tessute da schiavi che erano immancabilmente bambini,
perché solo le dita dei bambini erano abbastanza piccole per operazioni
tanto complesse. Ma l'incessante lavoro al chiuso che veniva loro richiesto
faceva sì che diventassero ciechi all'età di otto o nove anni, e la loro cecità
costituiva il metro con cui i venditori di tappeti valutavano ed esaltavano la
merce: Questo tappeto ha reso ciechi dieci bambini, dicevano. Questo ne
ha resi ciechi quindici, quest'altro venti. Dal momento che il prezzo cre-
sceva in proporzione, esageravano sempre. Era consuetudine del cliente
farsi beffe delle loro affermazioni. Sicuramente ne avrà resi ciechi solo
sette, solo dodici, solo sedici, dicevano, tastando il tappeto. È ruvido come
uno strofinaccio. È solo una coperta di mendicante. È stato fatto con pelo
di gnarr.
Una volta ciechi, i bambini venivano venduti per pochi soldi ai tenutari
di bordelli, maschi e femmine senza differenza. I servizi dei bambini dive-
nuti ciechi a quel modo fruttavano alte somme; il loro tocco era talmente
soave e abile, si diceva, che sotto le loro dita si sentivano sbocciare i fiori e
scorrere l'acqua fuori della pelle.
Erano anche abili a forzare le serrature. Quelli che scappavano intra-
prendevano la professione di tagliare le gole nell'oscurità, ed erano molto
richiesti come assassini prezzolati. Avevano il senso dell'udito molto svi-
luppato; sapevano camminare senza fare rumore, e infilarsi nelle aperture
più piccole; sapevano fiutare la differenza tra una persona che dormiva
profondamente e una che faceva sogni agitati. Uccidevano con la stessa
delicatezza con cui una falena vi sfiora il collo. Si riteneva che fossero
senza pietà. Erano molto temuti.
Le storie che i bambini si sussurravano l'un l'altro - seduti a tessere i loro
infiniti tappeti, fin tanto che ci vedevano - erano su questa possibile vita
futura. Tra loro circolava la voce che solo i ciechi fossero liberi.
È troppo triste, mormora lei. Perché mi racconti una storia così triste?
Ora si sono inoltrati dove le ombre sono più fitte. Le sue braccia intorno
a lei, finalmente. Vacci piano, pensa lui. Niente movimenti bruschi. Si
concentra sulla respirazione.
Ti racconto le storie in cui sono bravo, dice. E quelle a cui crederai. Alle
sciocchezze sdolcinate non crederesti, no?
No. Non ci crederei.
E poi, non è una storia triste, tutto sommato: alcuni di loro scappavano.
Ma diventavano tagliatori di gole.
Non avevano molta scelta, non credi? Non potevano diventare a loro
volta venditori di tappeti, o proprietari di bordelli. Non avevano il capitale.
Perciò dovevano darsi al lavoro sporco. Bella disdetta, per loro.
Non dire così, dice lei. Non è colpa mia.
Neanche mia. Diciamo che ci tocca pagare per i peccati dei padri.
È inutilmente crudele, dice lei in tono freddo.
Quand'è che è utile la crudeltà? dice lui. E quanta? Leggi i giornali, non
sono stato io a inventare il mondo. Comunque, io sto dalla parte dei taglia-
tori di gole. Se dovessi tagliare gole o morire di fame, cosa faresti? O sco-
pare per vivere, c'è sempre anche quello.
Ora è andato troppo lontano. Ha mostrato la sua rabbia. Lei si stacca da
lui. Ecco, dice. Devo tornare. Le foglie intorno a loro si muovono a ondate.
Lei stende la mano, la palma rivolta verso l'alto: vi cadono alcune gocce di
pioggia. Ora il tuono è più vicino. Si fa scivolare la sua giacca dalle spalle.
Non l'ha baciata; non lo farà, non stasera. Lei lo percepisce come un rin-
vio.
Stai alla finestra, dice lui. La finestra della tua camera. Lascia la luce ac-
cesa. Stai lì e basta.
È stupita. Perché? Perché mai?
Voglio che tu lo faccia. Voglio assicurarmi che sei al sicuro, aggiunge,
sebbene la sicurezza non abbia niente a che fare con tutto ciò.
Ci proverò, dice lei. Solo per un minuto. Tu dove sarai?
Sotto l'albero. Il castagno. Non mi vedrai, ma ci sarò.
Lei pensa: Sa dov'è la finestra. Sa che albero è. Deve essersi aggirato
furtivamente lì intorno. Per guardarla. Ha un leggero brivido.
Piove, fa lei. Verrà giù un acquazzone. Ti bagnerai.
Non fa freddo, dice lui. Aspetterò.
The Globe and Mail, 19 febbraio 1998
PRIOR, Winifred Griffen. Si è spenta all'età di 92 anni, nella
sua residenza di Rosedale, dopo lunga malattia. Con la signora
Prior, nota filantropa, la città di Toronto ha perso una delle sue
benefattrici più assidue e di vecchia data. Sorella del defunto in-
dustriale Richard Griffen e cognata dell'illustre romanziera Laura
Chase, la signora Prior ha fatto parte del consiglio della Toronto
Symphony Orchestra durante gli anni della sua formazione, e più
di recente del Comitato di Volontari per la Art Gallery of Ontario
e della Canadian Cancer Society. È stata inoltre attiva nel Granite
Club, nell'Heliconian Club, nella Junior League e nel Dominion
Drama Festival. Lascia la nipote Sabrina Griffen, attualmente in
viaggio in India.
I funerali avranno luogo martedì mattina nella chiesa di St. Si-
mon the Apostle, e verranno seguiti dalla sepoltura al Mount Ple-
asant Cemetery. Saranno gradite donazioni al Princess Margaret
Hospital in luogo dei fiori.
L'assassino cieco: Il cuore di rossetto
Quanto tempo abbiamo? chiede lui.
Molto, dice lei. Due o tre ore. Sono andati tutti da qualche parte.
A fare cosa?
Non lo so. A fare soldi. A comprare cose. Attività redditizie. Di qualun-
que cosa si tratti. Si infila una ciocca di capelli dietro l'orecchio, si mette a
sedere più dritta. Si sente a richiesta, da chiamare con un fischio. Un sen-
timento meschino. Di chi è questa macchina? dice.
Di un amico. Sono una persona importante. Ho un amico con una mac-
china.
Ti fai gioco di me, dice. Lui non risponde. Lei tira le dita di un guanto. E
se qualcuno ci vede?
Vedranno solo la macchina. È un rottame, la macchina di un povero dia-
volo. Anche se ti guarderanno non ti vedranno, perché si suppone che una
donna come te non salirebbe neanche morta in una macchina come questa.
A volte non ti piaccio granché, fa lei.
Ultimamente non riesco a pensare a molto altro, dice lui. Ma non parle-
rei di piacere. È roba che richiede del tempo. Io non ho tempo per concen-
trarmi su questo.
Non là, dice lei. Guarda il segnale.
I segnali sono per gli altri, ribatte lui. Qui - quaggiù.
Il sentiero è poco più che un solco. Fazzoletti di carta gettati via, involu-
cri di gomme, preservativi usati simili a vesciche di pesce. Bottiglie e ciot-
toli; fango secco, screpolato e coperto di tracce di ruote. Non ha le scarpe
adatte, i tacchi adatti. Quando lui le prende il braccio e la tiene in equili-
brio, fa per allontanarsi.
È praticamente un campo aperto. Qualcuno ci vedrà.
Qualcuno chi? Siamo sotto il ponte.
La polizia. Non facciamolo. Non ancora.
La polizia non va in giro a ficcare il naso nella piena luce del giorno, di-
ce lui. Girano soltanto di notte, con le loro torce, alla ricerca di pervertiti
senza Dio.
Allora dei vagabondi, dice lei. Dei maniaci.
Vieni, dice lui. Qui sotto. All'ombra.
Ci sono ortiche?
Neanche una. Te lo prometto. E neppure vagabondi o maniaci, a parte
me.
Come lo sai? Dell'ortica. Sei già stato qui?
Non darti tanta pena, dice lui. Stenditi.
No. Rovinerai tutto. Aspetta un momento.
Lei sente la propria voce. Non la riconosce, è troppo affannata.
Sul cemento c'è un cuore tracciato con il rossetto che circonda quattro
iniziali. Le unisce una A: A per Ama. Solo i diretti interessati potrebbero
dire a chi appartengono quelle iniziali - e che sono stati qui, che l'hanno
fatto. Sbandierare l'amore, tralasciare i particolari.
Fuori del cuore ci sono altre quattro lettere, come i quattro punti della
bussola:
F U
C K
La parola fatta a pezzi, stirata: l'implacabile topografia del sesso.
Sapore di fumo sulla bocca di lui, di sale in quella di lei; tutto intorno,
odore di erbacce calpestate e di gatto, di angoli abbandonati. Umidità e ve-
getazione, terra sulle ginocchia, sudicia e grassa; denti di leone dai lunghi
gambi che si protendono verso la luce.
Al di sotto di dove sono stesi, il gorgoglio di un corso d'acqua. Sopra,
rami coperti di foglie, sottili rampicanti dai fiori viola; i pilastri del ponte
che si gettano verso l'alto, le travate di ferro, le ruote che passano sopra la
loro testa; frantumi di cielo blu. Dura terra sotto la sua schiena.
Lui le spiana la fronte, le passa un dito sulla guancia. Non dovresti ado-
rarmi, dice. Il mio non è l'unico uccello al mondo. Un giorno o l'altro lo
scoprirai.
Non è questo, dice lei. In ogni modo io non ti adoro. La sta già respin-
gendo, relegandola nel futuro.
Be', di qualunque cosa si tratti, ne avrai di più quando non ti starò più
con il fiato sul collo.
E cosa significa esattamente? Non mi stai con il fiato sul collo.
Che c'è vita oltre la vita, dice lui. Dopo la nostra vita.
Parliamo d'altro.
Va bene. Stendiamoci di nuovo. Metti la testa qui. Toglie la camicia u-
mida. Il suo braccio intorno a lei, mentre l'altra mano fruga nella tasca in
Dostları ilə paylaş: |