Margaret atwood



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corso delle mie azioni più lecite e quotidiane - sbucciare una banana, spaz-

zolarmi i denti - stessi commettendo una trasgressione.

Di notte la casa sembrava più che mai quella di un estraneo. Ho vagato

per le stanze sul davanti, la sala da pranzo, il salotto, una mano sulla parete

per tenermi in equilibrio. I miei svariati beni fluttuavano nelle loro pozze

di ombra, staccati da me, negando di appartenermi. Li esaminavo con oc-

chio di ladro, decidendo cosa valesse la pena rubare e cosa sarebbe stato il

caso di lasciare. Dei ladri avrebbero preso le cose ovvie - la teiera d'argen-

to che era appartenuta a mia nonna, forse le porcellane dipinte a mano.

Quello che rimaneva dei cucchiai con il monogramma. Il televisore. Niente

che volessi davvero.

Qualcuno dovrà occuparsi di passare in rassegna e disfarsi di ogni cosa,

alla mia morte. Sarà Myra a sobbarcarsi quel lavoro, non c'è dubbio; lei

pensa di avermi ereditato da Reenie. Si divertirà a recitare la parte della

fedele servitrice di famiglia. Non la invidio: ogni vita è una discarica per-

fino mentre viene vissuta, e ancora di più dopo. Ma ammesso che lo sia, è

una discarica sorprendentemente piccola; una volta fatta piazza pulita dopo

la morte di qualcuno, ti accorgi di quanti pochi sacchetti dell'immondizia

di plastica verde riempirai tu stesso quando verrà il tuo turno.

Lo schiaccianoci a forma di alligatore, il gemello scompagnato di ma-

dreperla, il pettine di tartaruga sdentato. L'accendino d'argento rotto, la

tazza senza piattino, l'oliera senza l'aceto. Le ossa sparse della casa, i

frammenti, le reliquie. Cocci trascinati a riva dopo un naufragio.

Oggi Myra mi ha convinto a comprare un ventilatore elettrico - uno di

quelli su un alto sostegno, migliore del piccolo aggeggio cigolante su cui

facevo affidamento. Il modello che aveva in mente era in vendita al nuovo

centro commerciale dall'altra parte del ponte sul fiume Jogues. Mi ci a-

vrebbe accompagnata lei in macchina: doveva andarci comunque, non sa-

rebbe stato un problema. È deprimente, il modo in cui inventa pretesti.

Il nostro itinerario ci ha condotte davanti ad Avilion, anzi a quello che

una volta era Avilion, ora così tristemente trasformato. Walhalla, si chiama

adesso. Quale burocrate idiota ha deciso che questo fosse un nome adatto a

un ospizio per anziani? Se ben ricordo, il Walhalla era dove si andava do-

po essere morti, non subito prima. Ma forse era intenzionale.

La posizione è eccellente - la riva orientale del fiume Louveteau alla

confluenza con il Jogues - e combina un romantico panorama della gola

con un sicuro ormeggio per le barche a vela. La casa è grande, ma ora

sembra affollata, spinta via a spallate dai fragili bungalow sorti sul terreno

circostante dopo la guerra. Nella veranda sul davanti erano sedute tre don-

ne anziane, una di loro era su una sedia a rotelle e fumava con fare furtivo,

come un'adolescente ribelle nel gabinetto. Uno di questi giorni ridurranno

sicuramente tutto in cenere.

Non sono rientrata ad Avilion da quando è stato trasformato; puzzerà

senza dubbio di talco per bambini, urina acida e patate lesse del giorno

prima. Preferirei ricordarlo com'era una volta, anche al tempo in cui l'ho

conosciuto io, quando stava già iniziando la sua decadenza - le magnifiche

sale spaziose, la distesa lucida della cucina, il vaso di Sèvres riempito di

petali essiccati sul tavolino tondo di ciliegio nell'ingresso principale. Di

sopra, nella stanza di Laura, il caminetto è scheggiato, nel punto in cui fece

cadere un alare; tipico da parte sua. Sono l'unica persona a saperlo, ormai.

Considerato il suo aspetto - la pelle luminosa, l'aria docile, il lungo collo

da ballerina - la gente si aspettava che fosse aggraziata.

Avilion non è in comune calcare. I suoi progettisti volevano qualcosa di

più insolito, perciò è costruito con ciottoli di fiume smussati e cementati

insieme. Da lontano fa l'effetto di una verruca, come la pelle di un dino-

sauro o i pozzi dei desideri nei libri illustrati. Un mausoleo all'ambizione,

lo considero oggi.

Non è una casa particolarmente elegante, ma un tempo era considerata a

suo modo maestosa - il palazzo di un mercante a cui si accede attraverso

un viale che descrive una curva, con una tozza torretta gotica e attorno u-

n'ampia veranda semicircolare che domina i due fiumi, dove nei languidi

pomeriggi estivi a cavallo del secolo veniva servito il tè a signore con cap-

pelli ornati di fiori. Una volta vi venivano sistemati quartetti d'archi per i

ricevimenti in giardino; mia nonna e le sue amiche la usavano come palco-

scenico durante gli spettacoli teatrali per dilettanti, al crepuscolo, con torce

disposte tutt'intorno; io e Laura ci nascondevamo lì sotto. Ha cominciato a

cedere, la veranda; ha bisogno di una mano di vernice.

Una volta c'era un gazebo, e un giardino recintato fuori della cucina, e

parecchi terreni con piante ornamentali, e uno stagno con ninfee e pesci

rossi, e una serra riscaldata a vapore, ora demolita, dove crescevano felci e

fucsie, e quando capitava un limone affusolato e un arancio aspro. C'era

una sala da biliardo, un salotto e un soggiorno, e una biblioteca con una

Medusa di marmo sopra il caminetto - il tipo di Medusa del Diciannovesi-

mo secolo, con un bello sguardo impenetrabile, i serpenti che si contorco-

no fuori della testa come pensieri angosciosi. La mensola del camino era

francese: ne era stata ordinata una diversa, qualcosa con Dioniso e tralci di

vite, ma invece era arrivata la Medusa e la Francia era troppo distante per

rimandarla indietro, perciò avevano tenuto quella.

C'era una sala da pranzo grande e scura con carta da parati William Mor-

ris, il disegno del ladro di fragole, un lampadario con ninfee di bronzo at-

torcigliate e tre alte finestre di vetro colorato fatte venire dall'Inghilterra,

che rappresentavano episodi della storia di Tristano e Isotta (l'offerta del

filtro d'amore in una coppa rosso rubino; gli amanti, Tristano su un ginoc-

chio, Isotta che si strugge sopra di lui con la cascata dei suoi capelli biondi

- difficili da rendere su vetro, un po' troppo simili a una scopa che si sciol-

ga; Isotta da sola, abbattuta, vestita di viola, con accanto un'arpa).

Al progetto e all'arredamento della casa soprintendette mia nonna Ade-

lia. Morì prima della mia nascita, tuttavia da quanto ho sentito dire era li-

scia come la seta e fredda come un cetriolo, ma con una volontà come una

sega per ossa. Era anche una patita della Cultura, il che le conferiva una

certa autorità morale. Ora sarebbe diverso; ma allora la gente credeva che

la Cultura potesse renderti migliore - una persona migliore. Credevano che

potesse elevarti, o almeno lo credevano le donne. Non avevano ancora vi-

sto Hitler a teatro.

Il nome da ragazza di Adelia era Montfort. Veniva da una famiglia nota,

o che veniva considerata tale in Canada - inglesi di Montreal di seconda

generazione incrociati con francesi ugonotti. Una volta questi Montfort e-

rano stati benestanti - avevano fatto un bel gruzzolo con le ferrovie - ma a

causa di speculazioni arrischiate e dell'inerzia erano ormai avviati su una

brutta china. Così quando il tempo di Adelia aveva cominciato a esaurirsi

senza che ci fosse alcun marito davvero accettabile in vista, lei aveva spo-

sato il denaro - il volgare denaro, il denaro dei bottoni. Da lei ci si aspetta-

va che lo raffinasse, come si fa con il petrolio.

(Non si era sposata, era stata sposata, diceva Reenie, mentre stendeva

l'impasto per i biscotti allo zenzero. Aveva combinato tutto la famiglia.

Questo è quanto succedeva in certe case, e chi può dire che fosse peggio o

meglio che scegliere per conto proprio? Comunque, Adelia Montfort fece

il suo dovere, e fu fortunata ad averne l'occasione, visto che ormai stava

diventando vecchiotta - doveva avere ventitré anni, il che al tempo signifi-

cava non essere più giovani).

Ho ancora un ritratto dei miei nonni; è in una cornice d'argento con fiori

di convolvolo, e fu scattato subito dopo il matrimonio. Sullo sfondo c'è una

tenda di velluto ornata di una frangia e due felci su piedistalli. La nonna

Adelia è adagiata su una dormeuse, una bella donna dalle palpebre pesanti,

con ricche vesti, due lunghi fili di perle e una profonda scollatura orlata di

merletto, i candidi avambracci senza sporgenze di ossa, come rotoli di pol-

lo. Il nonno Benjamin è seduto dietro di lei in abito da cerimonia, im-

ponente ma imbarazzato, come se fosse stato agghindato per l'occasione.

Quando avevo l'età per farlo - tredici, quattordici anni - mi perdevo in

romantiche fantasticherie su Adelia. La notte spingevo lo sguardo fuori

della mia finestra, sui prati e le aiuole di piante ornamentali illuminate dal-

la luce argentea della luna, e la vedevo trascinarsi malinconica attraverso i

giardini attorno alla casa in un abito da pomeriggio di merletto bianco. Le

attribuivo un sorriso languido, stanco del mondo e leggermente beffardo.

Ben presto aggiunsi un amante. Lo incontrava fuori della serra, che a quel

tempo era abbandonata - mio padre non nutriva il minimo interesse per gli

alberi di arancio riscaldati a vapore -, ma che nella mia mente io restauravo

e rifornivo di fiori. Orchidee, pensavo, o camelie. (Non sapevo cosa fosse

una camelia, ma avevo letto qualcosa al proposito). Mia nonna e l'amante

sparivano là dentro, a fare cosa? Non ne ero sicura.

Nella realtà le possibilità di Adelia di avere un amante erano nulle. La

città era troppo piccola, i suoi costumi troppo provinciali, lei aveva troppo

da perdere. Non era una stupida. Inoltre non aveva denaro suo.

Come padrona di casa e donna che si occupava della gestione della vita

familiare, Adelia si trovò bene con Benjamin Chase. Andava fiera del pro-

prio gusto, e in questo mio nonno si rimetteva a lei, perché il gusto era una

delle cose per cui l'aveva sposata. Lui aveva quarant'anni allora; aveva la-

vorato sodo per costruire la sua fortuna, e ora intendeva essere all'altezza

del suo denaro, il che voleva dire essere sotto la tutela della sua sposina

per quanto riguardava il guardaroba e venire tiranneggiato sulle maniere da

tenere a tavola. A suo modo voleva anche lui la Cultura, o almeno la prova

manifesta di essa. Voleva il servizio di porcellana giusto.

Lo ebbe, insieme alle cene da dodici portate che una cosa del genere im-

plicava: sedano e nocciole salate per cominciare, cioccolatini per finire.

Consommé, crocchette, timballi, il pesce, l'arrosto, il formaggio, la frutta,

uva di serra graziosamente disposta nell'alzata di vetro lavorato. Cibo da

albergo accanto alla stazione, penso adesso; cibo da transatlantico. A Port

Ticonderoga venivano in visita ministri - a quel tempo la città contava pa-

recchi industriali importanti, il cui appoggio era tenuto in gran conto dai

partiti politici - ed era ad Avilion che alloggiavano. C'erano fotografie del

nonno Benjamin con un primo ministro dietro l'altro - Sir John Sparrow

Thompson, Sir Mackenzie Bowell, Sir Charles Tupper. Dovevano preferi-

re il cibo della casa a qualunque altra cosa venisse loro offerta.

Il compito di Adelia era predisporre e organizzare queste cene, quindi

evitare di farsi sorprendere a divorarle. La consuetudine voleva che quando

era in compagnia si limitasse a spilluzzicare il suo cibo: masticare e in-

goiare erano attività così sfacciatamente carnali. Credo che poi si facesse

portare su in camera un vassoio. E che mangiasse con le mani.

Avilion fu completata nel 1889 e tenuta a battesimo da Adelia. Prese il

nome da Tennyson:

L'isola-valle di Avilion;

Dove non grandina, non piove e non nevica,

Né il vento soffia mai con fragore; ma giace

Immersa nei prati, beata, bella, con frutteti erbosi

E piccole valli ombreggiate, coronate dal mare estivo...

Aveva fatto stampare questa citazione all'interno dei suoi biglietti di au-

guri di Natale. (Tennyson era piuttosto fuori moda, per gli standard inglesi

- era Oscar Wilde l'astro nascente, almeno negli ambienti giovanili -, ma

allora cosa non era fuori moda a Port Ticonderoga?)

La gente - la gente di città - deve aver riso di lei per quella citazione:

perfino gli arrampicatori sociali si riferivano a lei come a Sua Signoria o

alla Duchessa, sebbene poi si offendessero se venivano lasciati fuori delle

sue liste di invitati. Dei suoi biglietti di auguri di Natale devono aver detto:

Be', quanto alla grandine e alla neve non ha avuto fortuna. Magari dirà

due paroline a Dio. O forse, nelle fabbriche: Avete visto qualcuna di quelle

piccole valli ombreggiate qui intorno, da qualche parte che non sia il da-

vanti del suo vestito? Conosco il loro stile e dubito che allora fosse molto

diverso.


Adelia faceva sfoggio dei suoi biglietti di auguri di Natale, ma credo che

ci fosse dell'altro. Avilion era il luogo in cui andò a morire re Artù. Sicu-

ramente la scelta di quel nome da parte sua rivela quanto disperatamente in

esilio si sentisse: poteva anche essere capace di dare vita per pura forza di

volontà a qualche scialbo facsimile di un'isola felice, ma non sarebbe mai

stata la realtà. Voleva un salotto; voleva gente che si occupasse di arte, po-

eti, compositori, personalità scientifiche e simili, come aveva visto durante

la visita ai suoi cugini inglesi di terzo grado, quando la sua famiglia aveva

ancora denaro. Una vita dorata, con vasti prati.

Ma gente del genere a Port Ticonderoga non si trovava, e Benjamin ri-

fiutava di viaggiare. Aveva bisogno di stare vicino alle sue fabbriche, di-

ceva. La cosa più probabile è che non volesse essere trascinato in una folla

che lo avrebbe schernito per il fatto di produrre bottoni, o dove potevano

tendergli un agguato posate sconosciute, e dove Adelia si sarebbe vergo-

gnata di lui.

Adelia rifiutava di viaggiare senza di lui, in Europa o da qualsiasi altra

parte. Avrebbe potuto essere troppo forte la tentazione di non tornare più

indietro. Allontanarsi, spargere denaro a poco a poco come un dirigibile

che si vada sgonfiando, preda di poco di buono e di simpatiche canaglie,

annegando nell'innominabile. Con una scollatura come la sua, sarebbe sta-

ta esposta a questo tipo di pericoli.

Tra le altre cose, Adelia aveva il pallino della scultura. C'erano due sfin-

gi di pietra ai lati della serra - sulla cui schiena io e Laura ci arrampicava-

mo - e un fauno che saltellava e guardava malizioso da dietro una panchina

di pietra, con le orecchie a punta e un'enorme foglia di vite arrotolata sulle

parti intime, come un distintivo; e seduta accanto allo stagno c'era una nin-

fa, una fanciulla pudica con piccoli seni da adolescente e un cordone di ca-

pelli di marmo sulla spalla, un piede immerso in maniera esitante nell'ac-

qua. Mangiavamo mele accanto a lei, guardando i pesci rossi che le mor-

dicchiavano le dita dei piedi.

(Queste sculture erano definite «autentiche», ma autentiche cosa? E co-

me aveva fatto Adelia a procurarsele? Sospetto una catena di furtarelli -

qualche losco intermediario europeo doveva comprarle per una sciocchez-

za, contraffacendone la provenienza, quindi le rifilava ad Adelia, a cui ar-

rivavano dopo un lungo viaggio, e intascava la differenza, ritenendo

giustamente che una ricca americana - perché è così che l'avrebbe

etichettata - non avrebbe mangiato la foglia).

Adelia disegnò anche il monumento di famiglia al cimitero, con i suoi

due angeli. Voleva che il marito riesumasse i suoi antenati e li trasferisse

là, per dare l'impressione di una dinastia, ma mio nonno non trovò mai il

modo di farlo. Poi andò a finire che fu lei la prima a esservi sepolta.

Il nonno Benjamin tirò un sospiro di sollievo quando Adelia se ne andò?

Poteva essersi stancato di sapere che non sarebbe mai stato all'altezza dei

suoi esigenti standard, anche se è chiaro che l'ammirava al punto da averne

soggezione. Per esempio, nulla che riguardasse Avilion doveva essere

cambiato: non un quadro venne spostato, nessuno dei mobili sostituito.

Forse considerava la casa stessa il suo vero monumento funebre.

E così Laura e io fummo per così dire tirate su da lei. Crescemmo dentro

la sua casa; vale a dire dentro l'idea che aveva di sé. E dentro la sua idea di

chi avremmo dovuto essere, ma non eravamo. Dal momento che a quel

tempo era già morta, ci era impossibile qualsiasi discussione.

Mio padre era il più grande di tre figli maschi, ognuno dei quali ricevette

quello che nell'idea di Adelia era un nome altisonante: Norval e Edgar e

Percival, un revival arturiano con un pizzico di Wagner. Suppongo che

dovessero ritenersi contenti di non essere stati chiamati Uther o Sigmund o

Ulric. Il nonno Benjamin adorava i figli e voleva che si impratichissero nel

business dei bottoni, ma Adelia aveva progetti più ambiziosi. Li spedì alla

Trinity College School a Port Hope, dove Benjamin e i suoi macchinari

non avrebbero potuto involgarirli. Apprezzava i vantaggi della ricchezza

del marito, ma preferiva sorvolare sulle sue fonti.

I figli venivano a casa per le vacanze estive. In collegio e poi al-

l'università avevano imparato a disprezzare cordialmente il padre, che non

sapeva leggere in latino, neanche male, come loro. Parlavano di persone

che lui non conosceva, cantavano canzoni che lui non aveva mai sentito

nominare, raccontavano barzellette che lui non capiva. Navigavano al chia-

ro di luna sul suo piccolo panfilo, l'Ondina, come l'aveva chiamato Adelia

- un altro esempio del suo malinconico goticismo. Suonavano il mandolino

(Edgar) e il banjo (Percival), e di nascosto bevevano birra e danneggiavano

l'attrezzatura, lasciando che fosse lui a sbrogliarsela. Gironzolavano a bor-

do di una delle sue due nuove macchine, anche se per metà dell'anno le

strade intorno alla città erano talmente in cattivo stato - prima la neve, poi

il fango, poi la polvere - che non erano molti i posti dove andare. Giravano

voci di ragazze facili, almeno per i due fratelli più giovani, e di elargizioni

di denaro - be', era come minimo corretto liquidare quelle signore in modo

che potessero farsi sistemare, perché chi voleva vedere gattonare in giro

una sfilza di piccoli Chase illegittimi? -, ma non erano figliole della nostra

città, e così ciò non costituiva motivo di biasimo per i ragazzi; anzi al con-

trario, almeno tra gli uomini. La gente li prendeva un po' in giro, ma si di-

ceva che tenessero abbastanza i piedi per terra e che sapessero trattare con

la gente comune. Edgar e Percival erano conosciuti come Eddie e Percy,

mentre mio padre, più timido e austero, rimaneva Norval. Erano di aspetto

gradevole e un po' selvaggi, come ci si aspetta che siano dei ragazzi. Cosa

significava «selvaggi», esattamente?

«Erano dei furfanti» mi disse Reenie, «ma non furono mai dei mascal-

zoni».

«Qual è la differenza?» chiesi.



Sospirò. «Spero solo che tu non debba scoprirlo mai» rispose.

Adelia morì nel 1913, di un cancro mai specificato e perciò molto pro-

babilmente di natura ginecologica. Durante l'ultimo mese della sua malat-

tia fu fatta venire la madre di Reenie per dare un aiuto extra in cucina, e

Reenie con lei; a quel tempo aveva tredici anni, e tutta la faccenda le fece

una profonda impressione. «I dolori erano talmente forti che dovevano

darle la morfina ogni quattro ore, le infermiere non l'abbandonavano mai.

Ma lei non voleva stare a letto, stringeva i denti, era sempre in piedi e ben

vestita come al solito, anche se si capiva che non era troppo lucida. La ve-

devo camminare nei giardini intorno alla casa, con i suoi colori pallidi e un

gran cappello con il velo. Aveva un bel temperamento e più spina dorsale

di molti uomini, quella donna. Alla fine dovettero legarla al letto, per il suo

stesso bene. Tuo nonno aveva il cuore spezzato, si vedeva come tutto ciò

gli risucchiasse ogni energia». Via via che il tempo passava e io diventavo

sempre meno impressionabile, Reenie aggiungeva alla storia grida soffoca-

te, lamenti e voti in punto di morte, anche se non fui mai sicura del perché

lo facesse. Mi stava dicendo che dovevo dimostrare anch'io una simile for-

za d'animo - disprezzare come la nonna il dolore e stringere i denti - o sta-

va semplicemente crogiolandosi nei dettagli strazianti? L'uno e l'altro, non

c'è dubbio.

Al tempo della morte di Adelia i tre ragazzi erano quasi adulti. Sentirono

la mancanza della madre, la rimpiansero? Naturalmente. Come potevano

non esserle grati per essersi tanto dedicata a loro? Eppure, li aveva tenuti

sotto stretto controllo, o almeno quanto più stretto poteva. Parecchie cra-

vatte e colletti dovettero allentarsi, dopo che le fu data adeguata sepoltura.

Nessuno dei tre figli volle occuparsi di bottoni, per i quali avevano ere-

ditato il disprezzo della madre, senza averne peraltro ereditato il realismo.

Sapevano che il denaro non cresce sugli alberi, ma non avevano molte bril-

lanti idee su dove crescesse in realtà. Norval - mio padre - pensava di stu-

diare legge e poi col tempo darsi alla politica, dal momento che aveva pro-

getti per migliorare il Paese. Gli altri due volevano viaggiare: una volta

che Percy avesse finito il college, avevano intenzione di fare una spedizio-

ne esplorativa in Sud America, in cerca di oro. Andare alla ventura li atti-

rava.


Allora chi si sarebbe assunto la responsabilità delle Industrie Chase?

Non ci sarebbe stata nessuna Chase & Figli? In tal caso a che scopo Ben-

jamin avrebbe lavorato così sodo? A quel tempo si era convinto di averlo

fatto per una ragione a prescindere dalle proprie ambizioni, dai propri de-

sideri - per qualche nobile fine. Aveva accumulato un'eredità, voleva tra-

smetterla di generazione in generazione.

Questo dovette costituire il deplorevole sottofondo di più di una discus-

sione attorno al tavolo da pranzo, al momento del porto. Ma i ragazzi pun-

tarono i piedi. Non si può costringere un giovane a dedicare la propria vita

alla produzione di bottoni, se non ne ha voglia. Essi non intendevano delu-

dere il padre, non di proposito, ma non desideravano neanche addossarsi il

pesante e opprimente fardello di un'esistenza squallida.

Il corredo


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