Margaret atwood



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mangiare.

Sotto, con la penna a sfera: Non uccidere.

Sotto, in pennarello viola: Non mangiare.

E sotto ancora, a tutt'oggi l'ultima parola, in marcati caratteri neri: Fan-

culo i vegetariani - «Tutti gli dei sono carnivori» - Laura Chase.

Laura continua a vivere.

Ci volle molto tempo a Laura per decidersi a venire al mondo, diceva

Reenie. Era come se non riuscisse a stabilire se fosse davvero un'idea in-

telligente. Poi all'inizio era malaticcia, e stavamo per perderla - suppongo

che stesse ancora decidendo. Ma alla fine pensò bene di fare un tentativo,

perciò si aggrappò alla vita, e stette un po' meglio.

Reenie credeva che le persone decidessero quando fosse la loro ora di

morire; allo stesso modo, avevano voce in capitolo quando si trattava di

venire o meno al mondo. Una volta raggiunta l'età in cui si risponde male,

dicevo: Non ho chiesto io di nascere, come se fosse un argomento deter-

minante; e Reenie ribatteva: Certo che l'hai fatto. Proprio come chiunque

altro. Per lei, una volta che eri vivo, dovevi assumertene tutta la responsa-

bilità.

Dopo la nascita di Laura mia madre era più stanca del solito. Perse quo-



ta; perse la capacità di recupero. La sua volontà vacillò; i suoi giorni as-

sunsero il carattere di un faticoso arrancare. Doveva riposarsi di più, disse

il dottore. Non era una donna sana, diceva Reenie alla signora Hillcoate,

che venne a dare una mano con il bucato. Era come se la mia precedente

madre fosse stata rapita dagli elfi, e al suo posto fosse stata lasciata que-

st'altra - più vecchia e più grigia e più curva e più avvilita. Allora io avevo

solo quattro anni ed ero spaventata dai suoi cambiamenti, volevo essere

sostenuta e rassicurata; ma mia madre non aveva più l'energia per farlo.

(Perché dico che non l'aveva più? Il suo comportamento come madre era

sempre stato più educativo che tenero. In fondo, rimaneva un'insegnante).

Ben presto scoprii che se riuscivo a rimanere tranquilla, senza richiedere

a gran voce attenzione, e soprattutto se riuscivo a rendermi utile - special-

mente con la piccola, con Laura, facendole la guardia e dondolando la sua

culla in modo che dormisse, cosa che non faceva facilmente e a lungo - mi

sarebbe stato permesso di rimanere nella stessa stanza con mia madre. Al-

trimenti, sarei stata mandata via. Perciò fu questa la decisione che presi:

stare in silenzio ed essere servizievole.

Avrei dovuto gridare. Avrei dovuto fare i capricci. È la ruota che cigola

a essere oliata, come diceva Reenie.

(Me ne stavo là sul comodino di mia madre, in una cornice d'argento,

con un vestito scuro dal colletto di pizzo bianco, con la mano visibile che

stringeva la copertina bianca all'uncinetto, in una presa maldestra, feroce,

gli occhi che accusavano la macchina fotografica o chiunque la stesse ma-

neggiando. Quanto a Laura, è quasi fuori della visuale, in questa foto. Di

lei si vede soltanto la parte superiore della testa coperta di peluria e una

mano minuscola, le dita che mi serrano il pollice. Ero arrabbiata perché mi

avevano detto di tenere la piccola, o in realtà la stavo proteggendo? Le sta-

vo facendo scudo - riluttante a lasciarla andare?)

Laura fu una neonata difficile, sebbene più inquieta che stizzosa. Fu an-

che una bambina difficile. Era preoccupata dalle porte dell'armadio, e an-

che dai cassetti della scrivania. Era come se stesse sempre in ascolto, atten-

ta a cogliere qualcosa in lontananza o sotto il pavimento - qualcosa che si

avvicinava senza fare rumore, come un treno fatto di vento. Aveva crisi in-

spiegabili - a provocare il suo pianto potevano essere un corvo morto, un

gatto schiacciato da una macchina, una nuvola scura in un cielo sereno.

D'altra parte, aveva un'inquietante resistenza al dolore fisico: se si scottava

la bocca o si tagliava, di regola non piangeva. Era l'ostilità, l'ostilità dell'u-

niverso, ad angustiarla.

La allarmavano in particolar modo i reduci mutilati agli angoli delle

strade - i perdigiorno, i venditori di matite, i mendicanti, troppo malridotti

per fare un qualsiasi lavoro. Un uomo senza gambe dal viso paonazzo che

si trascinava su un carrello piatto la faceva sempre esplodere. Forse per via

della furia nei suoi occhi.

Come la maggior parte dei bambini, Laura credeva che le parole signifi-

cassero quello che dicevano, ma portava la cosa all'estremo. Non si poteva

dire Sparisci o Vatti a buttare nel lago senza aspettarsi qualche conse-

guenza. Cos'hai detto a Laura? Non hai ancora imparato? Mi sgridava

Reenie. Ma neanche lei aveva imparato del tutto. Una volta le disse di

mordersi la lingua, perché questo avrebbe impedito alle domande di uscire

fuori, dopodiché Laura non poté masticare per giorni.

Ora vengo alla morte di mia madre. Sarebbe banale dire che questo av-

venimento cambiò tutto, ma sarebbe anche vero, perciò lo scrivo:

Questo avvenimento cambiò tutto.

Accadde un martedì. Un giorno in cui si faceva il pane. Tutto il nostro

pane - un'infornata bastava per un'intera settimana - veniva fatto nella cu-

cina di Avilion. Anche se a quel tempo Port Ticonderoga aveva un piccolo

forno, Reenie diceva che comprare il pane era roba da pigri, e poi il for-

naio ci aggiungeva il gesso per risparmiare sulla farina, e una dose ecces-

siva di lievito per gonfiare le pagnotte di aria e darvi l'impressione di aver-

ne di più. Perciò era lei a fare il pane.

La cucina di Avilion non era scura come la fuligginosa caverna vittoria-

na che doveva essere stata una volta, trent'anni prima. Al contrario, era

bianca - pareti bianche, tavolo smaltato bianco, cucina economica a legna

bianca, pavimento di mattonelle bianche e nere - con tendine color giallo

dente di leone alle nuove finestre, ingrandite. (La sua risistemazione dopo

la guerra era stata uno dei goffi doni propiziatori di mio padre a mia ma-

dre). Reenie considerava quella cucina all'ultimo grido, e in conseguenza

degli insegnamenti che mia madre le aveva impartito sui germi, sulle loro

gravi conseguenze e sui loro nascondigli, la teneva perfettamente pulita.

Nei giorni in cui faceva il pane Reenie ci passava qualche ritaglio di pa-

sta per fare omini di pane, con uva passa per gli occhi e i bottoni. Poi ce li

cuoceva. Io mangiavo i miei, mentre mia sorella conservava i suoi. Una

volta Reenie ne trovò un'intera fila nell'ultimo cassetto in alto di Laura, du-

ri come sassi, avvolti nei suoi fazzoletti come piccole mummie dal viso a

forma di focaccia. Reenie disse che avrebbero attirato i topi e che sarebbe-

ro dovuti finire dritti dritti nell'immondizia, ma Laura insistette per una se-

poltura di massa nel giardino della cucina, dietro il cespuglio di rabarbaro.

Disse che sarebbe stato il caso di recitare delle preghiere. Altrimenti, non

avrebbe più mangiato la cena. Era sempre brava a mercanteggiare, quando

ci si metteva d'impegno.

Reenie scavò la fossa. Era la giornata libera del giardiniere; usò la sua

vanga, che era proibita a chiunque, ma si trattava di un'emergenza. «Dio

abbia pietà del marito» disse Reenie, mentre Laura disponeva i suoi omini

di pane in una fila ordinata. «È testarda come un mulo».

«A ogni modo non avrò un marito» fece Laura. «Vivrò da sola nel gara-

ge».


«Neanch'io ne avrò uno» dissi, per non essere da meno.

«Figuriamoci» ribatté Reenie. «A te piace il tuo letto bello e soffice.

Dovresti dormire sul cemento, e coprirti di grasso e di olio».

«Allora vivrò nella serra» dissi.

«Non è più riscaldata» osservò Reenie. «Ti congeleresti a morte d'inver-

no».


«Io dormirò in una delle macchine» disse Laura.

Quell'orribile martedì avevamo fatto colazione in cucina, con Reenie.

C'era stato porridge di avena e pane tostato con marmellata. A volte face-

vamo colazione con nostra madre, ma quel giorno era troppo stanca. La

mamma era più severa, e ci faceva sedere diritte e mangiare anche le cro-

ste. «Ricordate gli armeni che muoiono di fame» diceva.

Forse gli armeni a quel tempo non stavano più morendo di fame. La

guerra era finita da un pezzo, l'ordine era stato ristabilito. Ma la loro

drammatica situazione doveva essersi fissata nella mente della mamma

come una specie di motto. Un motto, un'invocazione, una preghiera, un in-

cantesimo. Le croste del pane tostato andavano mangiate in memoria di

quegli armeni, chiunque fossero stati; non mangiarle era un sacrilegio. Io e

Laura dovemmo capire il peso di quell'incantesimo, perché non fallì mai.

Quel giorno mia madre non mangiò le sue croste. Me lo ricordo. Laura

salì di sopra a dirglielo - E le croste, e gli armeni che muoiono di fame? -

finché finalmente la mamma ammise di non sentirsi bene. Quando lo disse,

avvertii un brivido elettrico percorrermi tutta, perché lo sapevo. Lo avevo

sempre saputo.

Reenie diceva che Dio faceva la gente proprio come lei faceva il pane, e

che per questo le pance delle madri si ingrossavano quando stavano per

avere un bambino; era la pasta che cresceva. Diceva che le sue fossette e-

rano l'impronta delle dita di Dio. Diceva che lei aveva tre fossette e certa

gente non ne aveva nessuna, perché Dio non faceva tutti allo stesso modo,

altrimenti si sarebbe annoiato a morte, e perciò non distribuiva le cose in

maniera uniforme. Lì per lì non sembrava giusto, ma sarebbe risultato giu-

sto alla fine.

Laura aveva sei anni, all'epoca che sto rievocando. Io ne avevo nove.

Sapevo che i bambini non erano fatti di pasta del pane - era una storia per i

marmocchi come Laura. Eppure, non mi era stata offerta nessuna spiega-

zione dettagliata.

In quei pomeriggi mia madre sedeva nel gazebo a lavorare a maglia.

Stava facendo un golfino, come quelli per i Profughi d'Oltremare. Era an-

che questo per un profugo? chiedevo. Forse, rispondeva lei, e sorrideva.

Dopo un po' si assopiva, le palpebre le si chiudevano pesantemente, gli oc-

chiali tondi le scivolavano giù. Ci diceva che aveva gli occhi dietro la te-

sta, e che perciò sapeva quando avevamo fatto qualcosa di male. Immagi-

navo quegli occhi piatti e brillanti e senza colore, come gli occhiali.

Non era da lei dormire così a lungo il pomeriggio. C'era un sacco di cose

che non erano da lei. Laura non si preoccupava, ma io sì. Stavo facendo

due più due, mettendo insieme ciò che mi era stato detto e ciò che avevo

udito per caso. Ciò che mi era stato detto: «Tua madre ha bisogno di ripo-

so, tu dovrai fare in modo che Laura non le dia fastidio». Ciò che avevo

udito per caso (Reenie alla signora Hillcoate): «Il dottore non è contento.

Le possibilità sono cinquanta e cinquanta. Lei naturalmente non direbbe

mai una parola, ma non è una donna sana. Certi uomini devono sempre

strafare». Così venni a sapere che mia madre correva un pericolo di qual-

che tipo, un pericolo che aveva a che fare con la sua salute e con mio pa-

dre, sebbene non fossi sicura di cosa potesse trattarsi.

Ho detto che Laura non si preoccupava, ma si attaccava alla mamma più

del solito. Sedeva a gambe incrociate nel freddo spazio sotto il gazebo do-

ve lei riposava, o dietro la sua sedia mentre scriveva lettere. Quando nostra

madre era in cucina, a Laura piaceva stare sotto il tavolo. Ci trascinava un

cuscino e il suo abbecedario, quello che era stato mio. Aveva un sacco di

cose che erano state mie.

Ora Laura sapeva leggere, o almeno sapeva leggere l'abbecedario. La

sua lettera preferita era la L, perché era la lettera con cui cominciava il suo

nome, L come Laura. Io non ho mai considerato la mia lettera preferita

quella con cui cominciava il mio nome - I come Iris -, perché la I era la let-

tera di io, di tutti.

L come Lavanda,

Così pura e profumata.

Il suo odore delicato

Rende allegra la giornata.

La figura nel libro raffigurava due bambini in antiquati cappelli di paglia

accanto a un ciuffo di lavanda su cui era posata una fata - a piedi nudi, con

trasparenti ali tremolanti. Reenie diceva sempre che se si fosse imbattuta in

qualcosa del genere l'avrebbe inseguita con lo schiacciamosche. Lo diceva

a me, per scherzo, ma non lo diceva a Laura, perché Laura avrebbe potuto

prenderla sul serio e turbarsi.

Laura era diversa. Diversa significava strana, lo sapevo, ma tormentavo

Reenie. «Cosa vuoi dire, con diversa?»

«Non come tutti gli altri» rispondeva lei.

Ma forse Laura non era tanto diversa dagli altri, dopotutto. Forse era

come loro - come loro aveva qualche ingrediente strano, distorto, che la

maggior parte delle persone tiene nascosto, ma non Laura, ed è per questo

che spaventava. Perché, sì, lei spaventava - o se non spaventava, in qual-

che modo allarmava; anche se la cosa peggiorò, naturalmente, via via che

cresceva.

Martedì mattina, dunque, in cucina. Reenie e mia madre facevano il pa-

ne. No: Reenie faceva il pane e mia madre beveva una tazza di tè. Reenie

aveva detto alla mamma che non si sarebbe stupita se più tardi nel corso

della giornata avesse tuonato, l'aria era talmente pesante, e lei non avrebbe

dovuto stare fuori all'ombra, o sdraiarsi; ma mia madre aveva replicato che

odiava stare senza far niente. Disse che la faceva sentire inutile; disse che

le sarebbe piaciuto tenere compagnia a Reenie.

Mia madre poteva fare miracoli, per come la vedeva Reenie, e in ogni

caso lei non aveva alcun potere di dirle cosa doveva o non doveva fare.

Perciò la mamma sedeva bevendo il tè mentre Reenie stava al tavolo, gi-

rando il monticello di pasta del pane, spingendolo con tutte e due le mani,

piegandolo, girandolo, tornando a spingerlo. Aveva le mani coperte di fa-

rina; sembrava che indossasse bianchi guanti di farina. C'era farina anche

sulla pettorina del suo grembiule. Sotto le braccia aveva due semicerchi di

sudore che scurivano le margherite gialle del suo abito da casa. Alcune

delle pagnotte erano già modellate e nelle teglie, con uno strofinaccio puli-

to e bagnato sopra ciascuna. Un umido odore di fungo riempiva la cucina.

La cucina era calda, perché il forno richiedeva un bello strato di carbone,

e anche perché c'era un'ondata di calore. La finestra era aperta, l'ondata di

calore affluiva attraverso di essa. La farina per il pane veniva presa dal

grande barile nella dispensa. Non bisognava mai infilarsi in quel barile,

perché la farina poteva entrarti nel naso e nella bocca e soffocarti. Reenie

aveva conosciuto un bambino che era stato ficcato nel barile della farina a

testa in giù dai suoi fratelli e sorelle, ed era quasi morto soffocato.

Io e Laura eravamo sotto il tavolo della cucina. Io leggevo un libro illu-

strato per bambini intitolato I grandi uomini della storia. Napoleone era in

esilio sull'isola di Sant'Elena, in piedi su una scogliera con una mano den-

tro il cappotto. Credevo che avesse il mal di pancia. Laura era irrequieta.

Strisciò fuori del tavolo per bere un po' d'acqua. «Vuoi un po' di pasta per

fare un omino di pane?» chiese Reenie.

«No» rispose Laura.

«No, grazie» disse mia madre.

Laura strisciò di nuovo sotto il tavolo. Vedevamo due paia di piedi,

quelli stretti della mamma e quelli più larghi di Reenie nelle loro scarpe

robuste, e le gambe magre della mamma e quelle paffute di Reenie nelle

calze di un colore tra il rosa e il marrone. Sentivamo i colpi attutiti della

pasta del pane che veniva girata e sbattuta. Poi all'improvviso la tazza di tè

della mamma andò in frantumi e mia madre era lì sul pavimento, con Ree-

nie in ginocchio accanto a lei. «Oh, buon Dio» diceva. «Iris, vai a chiama-

re tuo padre».

Corsi in biblioteca. Il telefono squillava, ma mio padre non c'era. Salii le

scale verso la sua torretta, di solito un luogo proibito. La porta non era

chiusa a chiave: nella stanza non c'era altro che una sedia e parecchi porta-

cenere. Non era nel salotto sul davanti, non era in soggiorno, non era in ga-

rage. Doveva essere in fabbrica, pensai, ma non ero sicura della strada, e

poi era troppo lontano. Non sapevo dove altro cercare.

Tornai in cucina e scivolai sotto il tavolo, dove Laura era seduta abbrac-

ciandosi le ginocchia. Non stava piangendo. C'era qualcosa sul pavimento

che sembrava sangue, una striscia, macchie rosso scuro sulle mattonelle

bianche. Ci misi un dito e lo leccai - era sangue. Presi uno straccio e lo a-

sciugai. «Non guardare» dissi a Laura.

Dopo un po' Reenie scese giù dalla scala di servizio, girò la manovella

del telefono e chiamò il dottore - ma non c'era, era in giro da qualche parte,

come al solito. Allora telefonò in fabbrica e chiese di mio padre. Non riu-

scirono a rintracciarlo. «Trovatelo se potete. Ditegli che si tratta di un'e-

mergenza» disse. Poi corse di nuovo di sopra. Si era completamente di-

menticata del pane, che crebbe troppo e ricadde su se stesso, rovinato.

«Non sarebbe dovuta stare in quella cucina così calda» disse Reenie alla

signora Hillcoate, «non con questo tempo e con un temporale in arrivo, ma

non si risparmia, non le si può dire niente».

«Ha sofferto molto?» chiese la signora Hillcoate con una voce compas-

sionevole, interessata.

«Ho visto di peggio» disse Reenie. «Ringraziamo Dio che sia andata co-

sì. È scivolato fuori proprio come un gattino. Ma devo dire che ha perso

fiumi di sangue. Ci toccherà bruciare il materasso, non so proprio come

potremmo pulirlo».

«Oh, Dio, be', potrà sempre averne un altro» osservò la signora Hillcoa-

te. «Questo doveva essere condannato. Doveva avere qualcosa che non an-

dava».

«No, da quanto ho sentito non può» disse Reenie. «Il dottore dice che



sarà meglio darci un taglio, perché un altro potrebbe ucciderla, e con que-

sto c'è mancato poco».

«Certe donne non dovrebbero sposarsi» disse la signora Hillcoate. «Non

ci sono tagliate. Bisogna essere forti. Mia madre ha avuto dieci figli, e non

ha mai battuto ciglio. Non che siano rimasti tutti vivi».

«La mia ne ha avuti undici» fece Reenie. «L'hanno messa letteralmente a

terra».

Sapevo per esperienza che quello era il preludio di una disputa sulla du-



rezza della vita delle rispettive madri, e che ben presto sarebbero passate a

parlare del bucato. Presi Laura per mano e salimmo in punta di piedi la

scala di servizio. Eravamo preoccupate, ma anche molto curiose: volevamo

scoprire cos'era successo alla mamma, ma volevamo anche vedere il gatti-

no. Eccolo là, accanto a un mucchio di lenzuoli zuppi di sangue sul pavi-

mento del corridoio fuori della stanza della mamma, in un catino smaltato.

Ma non era un gattino. Era grigio, come una vecchia patata bollita, con una

testa troppo grande; era tutto raggomitolato. Aveva gli occhi chiusi, stretti

stretti, come se la luce gli facesse male.

«Che cos'è?» sussurrò Laura. «Non è un gattino». Si accoccolò giù a

guardare.

«Andiamo di sotto» dissi. Il dottore era ancora nella stanza, si sentivano

i passi. Non volevo che ci trovasse lì, perché sapevo che quella creatura ci

era proibita; sapevo che non avremmo dovuto vederla. Soprattutto non

Laura - era il tipo di spettacolo, come un animale schiacciato, che di regola

l'avrebbe fatta gridare, e poi la colpa sarebbe ricaduta su di me.

«È un bambino» disse Laura. «Non è finito». Era sorprendentemente

calma. «Poverino. Non ha voluto nascere».

Nel tardo pomeriggio Reenie ci portò a vedere la mamma. Era a letto

con la testa appoggiata su due cuscini; le braccia magre erano fuori del

lenzuolo; i capelli che si andavano imbiancando erano trasparenti. La fede

le scintillava alla mano sinistra, i pugni stringevano il lenzuolo ai suoi lati.

Aveva la bocca serrata, come se stesse riflettendo su qualcosa; era l'espres-

sione di quando faceva le liste. Teneva gli occhi chiusi. Con le palpebre

curve abbassate, i suoi occhi sembravano perfino più grandi di quando e-

rano aperti. Gli occhiali erano posati sul comodino accanto alla brocca del-

l'acqua, entrambe le lenti brillanti e vuote.

«Dorme» sussurrò Reenie. «Non toccatela».

Gli occhi della mamma si aprirono lentamente. La bocca tremò; le dita

della mano più vicina si schiusero. «Potete abbracciarla» disse Reenie,

«ma non troppo forte». Feci come mi era stato detto. Laura nascose sel-

vaggiamente la testa contro il fianco della mamma, sotto il suo braccio.

C'era l'odore di amido e di lavanda azzurrina delle lenzuola, l'odore di sa-

pone della mamma e in sottofondo un caldo odore di ruggine, mescolato

all'aroma acido e dolciastro di foglie bagnate, ma che bruciavano senza

fiamma.


Mia madre morì cinque giorni dopo. Morì per una febbre; e anche per la

debolezza, perché non era riuscita a rimettersi in forze, disse Reenie. In

quei giorni il dottore andava e veniva, e infermiere fredde ed efficienti si

alternavano sulla poltroncina della camera da letto. Reenie correva su e giù

per le scale con bacinelle, asciugamani e tazze di brodo. Mio padre faceva

instancabilmente la spola tra la casa e la fabbrica, e si presentava al tavolo

della cena con l'aria miserabile di un mendicante. Dov'era stato, quel po-

meriggio in cui non si era riusciti a trovarlo? Nessuno lo diceva.

Laura rimaneva accovacciata nel corridoio del piano di sopra. Mi fu det-

to di giocare con lei in modo che non le capitasse nulla di male, ma non

voleva. Sedeva abbracciandosi le ginocchia e poggiandoci sopra il mento,

con un'espressione pensierosa, segreta, e sembrava che stesse succhiando

una caramella. Non avevamo il permesso di mangiare caramelle. Quando

però mi feci mostrare cos'era, vidi che si trattava soltanto di un sassolino

bianco rotondo.

Durante quell'ultima settimana mi fu concesso di vedere la mamma ogni

mattina, ma solo per cinque minuti. Non avevo il permesso di parlarle,

perché (diceva Reenie) vaneggiava. Questo voleva dire che pensava di es-

sere da qualche altra parte. Ogni giorno era più assente. Gli zigomi le spor-

gevano; odorava di latte e di qualcosa di crudo, di rancido, come la carta

marrone in cui arrivava avvolta la carne.

Durante quelle visite ero scontrosa. Vedevo quanto fosse malata, e glie-

ne volevo per questo. Mi sembrava che in qualche modo mi stesse traden-

do - che si stesse sottraendo ai suoi doveri, che avesse gettato la spugna.

Non mi passava neppure per la testa che potesse morire. Prima avevo te-


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