Margaret atwood



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, ma cosa ci si poteva aspettare? I numeri erano solo numeri. Non avevano

altra scelta.

Nella prima settimana di dicembre mio padre annunciò una chiusura. Era

temporanea, disse. Sperava che sarebbe stata molto temporanea. Parlò di

ritirata strategica e di nuove trincee per riorganizzarsi. Chiese comprensio-

ne e pazienza, e fu accolto dal silenzio guardingo degli operai riuniti. Dopo

l'annuncio tornò ad Avilion, si chiuse nella sua torretta e bevve fino all'ab-

brutimento. Si sentiva rumore di cose rotte - oggetti di vetro. Bottiglie,

senza dubbio. Io e Laura eravamo nella mia stanza, sedute sul mio letto,

stringendoci forte le mani e ascoltando la furia e il dolore che si scatenava-

no lassù, proprio sopra le nostre teste, come un temporale interno. Era pa-

recchio tempo che mio padre non faceva le cose tanto in grande.

Doveva avere avuto l'impressione di avere tradito i suoi uomini. Di ave-

re fallito. Di non aver potuto fare abbastanza.

«Pregherò per lui» disse Laura.

«Perché, a Dio importa?» chiesi. «Credo che in realtà se ne infischi. Se

c'è un Dio».

«Non si può saperlo» disse Laura, «se non dopo».

Dopo cosa? Lo sapevo abbastanza bene, avevamo già fatto quel discor-

so. Dopo morti.

Parecchi giorni dopo l'annuncio di mio padre, il sindacato mostrò il suo

potere. C'era già un nucleo di iscritti, e ora volevano che aderissero tutti.

Fu tenuta un'assemblea fuori della fabbrica chiusa e lanciato un appello a

tutti i lavoratori affinché si iscrivessero, perché quando mio padre avrebbe

riaperto le fabbriche, si disse, avrebbe tagliato all'osso e loro probabilmen-

te avrebbero ricevuto paghe da fame. Era come tutti gli altri, in tempi duri

come quelli avrebbe cacciato il suo denaro in banca, poi si sarebbe seduto

con le mani in mano finché la gente non fosse stata stremata e messa a ter-

ra; quindi avrebbe colto l'occasione di ingrassarsi alle spalle dei lavoratori.

Lui e la sua grande casa e le sue stravaganti figlie - quelle frivole parassite

che vivevano a spese del sudore delle masse.

Era chiaro che quei cosiddetti organizzatori venivano da fuori città, di-

ceva Reenie, che ci raccontava tutto questo mentre sedevamo al tavolo del-

la cucina. (Avevamo smesso di mangiare in sala da pranzo, perché aveva

smesso di farlo mio padre. Era barricato nella sua torretta; Reenie gli por-

tava su un vassoio). Quei teppisti non avevano il senso della decenza, a in-

filare noi due nella faccenda a quel modo, quando tutti sapevano che non

c'entravamo un bel niente. Ci disse di non farci caso, cosa più facile a dirsi

che a farsi.

C'era ancora qualcuno che era fedele a mio padre. All'assemblea, ave-

vamo saputo, c'erano stati contrasti, poi parole grosse, poi zuffe. Si era

persa la calma. Un uomo aveva ricevuto un calcio in testa ed era stato por-

tato all'ospedale con una commozione cerebrale. Era uno degli scioperanti

- si chiamavano scioperanti, adesso -, ma di questo infortunio furono in-

colpati i suoi stessi amici, perché una volta che si dava inizio a quel genere

di scompiglio, chi poteva dire come sarebbe andata a finire?

Meglio non cominciare. Meglio tenere la bocca chiusa. Molto meglio.

Callie Fitzsimmons venne a trovare mio padre. Era molto preoccupata

per lui, disse. Era preoccupata che si stesse lasciando andare. Moralmente,

voleva dire. Come poteva trattare i suoi operai in quel modo altezzoso e da

taccagno? Mio padre le disse di guardare in faccia la realtà. La chiamò a-

mico del giaguaro. Disse anche: Chi ti ha mandato, uno dei tuoi amici ros-

si? Lei disse che era venuta di testa sua, perché gli voleva bene, perché

sebbene fosse un capitalista era sempre stato un uomo a posto, ma ora sco-

priva che si era trasformato in un plutocrate senza cuore. Lui disse che non

si poteva essere un plutocrate se si era al verde. Lei disse che poteva liqui-

dare le sue attività. Lui disse che le sue attività non valevano molto di più

del suo culo, che a quanto sapeva aveva dato via per niente a chiunque

glielo avesse chiesto. Lei disse che lui non aveva disprezzato gli omaggi

gratuiti. Lui disse di sì, ma i costi imprevisti erano stati troppo alti - prima

tutto il cibo dispensato in casa sua ai suoi amici artisti, poi il suo sangue e

adesso anche la sua anima. Lei lo chiamò reazionario borghese. Lui la

chiamò mosca carnaria. A quel punto stavano urlando. Poi ci furono porte

sbattute e una macchina sbandò sulla ghiaia, e quella fu la fine della storia.

Reenie ne fu felice o dispiaciuta? Dispiaciuta. Callie non le era mai an-

data a genio, ma ci si era abituata, e poi un tempo era andata bene per mio

padre. Chi l'avrebbe rimpiazzata? Qualche altra sgualdrina, e chi lascia la

via vecchia per la nuova...

La settimana seguente fu convocato uno sciopero generale per esprimere

solidarietà agli operai della Chase & Figli. Tutti i negozi e gli uffici dove-

vano chiudere, diceva l'editto. Tutti i servizi pubblici dovevano essere in-

terrotti. I telefoni, la distribuzione della posta. Niente latte, niente pane,

niente ghiaccio. (Chi emanava quegli editti? Nessuno pensava che fossero

davvero opera dall'uomo che concretamente ne leggeva il testo. Questi so-

steneva di essere del luogo, proprio della nostra città, e sulle prime si pen-

sò che lo fosse - era un Morton, un Morgan, qualcosa del genere -, ma poi

era diventato chiaro senza ombra di dubbio che non lo era, non veramente.

Non avrebbe potuto esserlo, e comportarsi così. E del resto, chi era suo

nonno?)

Perciò non era l'uomo il problema. Non era lui il cervello che stava die-



tro a tutta la faccenda, diceva Reenie, perché tanto per cominciare non a-

veva nessun cervello. Forze oscure erano all'opera.

Laura era preoccupata per Alex Thomas. Era coinvolto in qualche modo,

diceva. Ne era sicura. Doveva esserlo per forza, considerati i suoi principi.

Nel primo pomeriggio di quello stesso giorno, Richard Griffen arrivò ad

Avilion in macchina, accompagnato da altre due auto. Erano vetture gran-

di, lussuose e pesanti. In tutto c'erano altri cinque uomini, dei quali quattro

piuttosto grossi, con soprabiti scuri e cappelli flosci grigi. Richard Griffen

e uno degli uomini entrarono nello studio di mio padre insieme a lui. Due

degli altri si misero alle porte della casa, quella sul davanti e quella poste-

riore, e due andarono da qualche parte con una delle costose macchine.

Laura e io guardavamo l'andirivieni delle auto dalla finestra della sua ca-

mera. Ci era stato detto di tenerci lontane, il che voleva dire anche non a

portata di voce. Quando chiedemmo a Reenie cosa stesse succedendo, ci

sembrò preoccupata, e disse di saperne quanto noi, ma che avrebbe tenuto

le orecchie bene aperte.

Richard Griffen non rimase a cena. Quando se ne andò, due delle mac-

chine scomparvero con lui. La terza rimase, insieme» tre dei grossi uomini.

Si insediarono con discrezione nei vecchi alloggi dell'autista, sopra il gara-

ge.


Erano detective, diceva Reenie. Dovevano esserlo. Ecco perché portava-

no sempre il soprabito: per nascondere le armi che tenevano nelle fondine.

Le armi erano pistole. Lo sapeva dalle sue varie riviste. Diceva che erano

là per proteggerci, e se vedevamo qualcuno aggirarsi furtivamente nel

giardino di notte - a parte i tre uomini, naturalmente - dovevamo gridare.

Il giorno dopo scoppiarono disordini nelle strade principali della città.

Molti uomini che vi parteciparono non erano mai stati visti prima, o se lo

erano stati, non erano rimasti impressi nella memoria. Chi avrebbe ricorda-

to un vagabondo? Ma alcuni di loro non erano vagabondi, erano agitatori

internazionali camuffati. Avevano spiato tutto il tempo. Come erano arri-

vati qui così in fretta? Sul tetto dei treni, si diceva. Era in quel modo che

viaggiavano uomini come loro.

I disordini cominciarono nel corso di una dimostrazione fuori del Muni-

cipio. Prima si tennero discorsi in cui si parlò dei crumiri e degli sgherri

dell'azienda; poi l'effigie di mio padre, raffigurato in cartone con il cappel-

lo a cilindro e il sigaro in bocca - cose che non sempre aveva - fu bruciata,

suscitando sonori applausi. Due bambole di pezza in vestiti rosa ornati di

gale furono inzuppate di cherosene e gettate anch'esse tra le fiamme. Do-

vevano rappresentare noi - me e Laura, disse Reenie. Erano circolate battu-

te sul fatto che erano bamboline calde. (Le passeggiate di Laura con Alex

non erano passate inosservate). Era stato Ron Hincks a riferirglielo, disse

Reenie, pensando che dovesse saperlo. Lui diceva che era meglio che per il

momento noi due non andassimo in città, perché gli animi si stavano scal-

dando e non si poteva mai sapere. Diceva che dovevamo restare ad Avi-

lion, dove saremmo state al sicuro. Diceva che lo scherzo delle bambole

era stato proprio una vergogna, e gli sarebbe piaciuto mettere le mani su

chiunque l'avesse ideato.

I negozi e gli uffici della strada principale che si erano rifiutati di chiu-

dere si ritrovarono con le vetrine rotte. Poi lo stesso capitò anche a quelli

che avevano chiuso. Dopodiché ebbero luogo saccheggi e le cose sfuggi-

rono gravemente di mano. Il giornale fu assalito e i suoi uffici distrutti;

Elwood Murray fu picchiato e le macchine nella tipografia sul retro fatte a

pezzi. La camera oscura si salvò, ma non l'apparecchio fotografico. Per lui

fu un momento triste, che poi sentimmo raccontare per filo e per segno u-

n'infinità di volte.

Quella notte la fabbrica di bottoni prese fuoco. Le fiamme fecero esplo-

dere le finestre del piano più basso: io non potevo vederlo dalla mia stanza,

ma l'autopompa passò rumorosamente davanti a casa nostra, correndo in

soccorso. Ero sgomenta e spaventata, naturalmente, ma devo ammettere

che c'era anche qualcosa di eccitante in tutto ciò. Mentre ascoltavo il fra-

stuono dell'autopompa e le grida lontane provenienti dalla stessa direzione,

sentii qualcuno che saliva la scala di servizio. Pensai che potesse essere

Reenie, ma non era lei. Era Laura; indossava il cappotto.

«Dove sei stata?» le chiesi. «Dobbiamo restare dove siamo. Papà ha ab-

bastanza preoccupazioni senza che tu te ne vada in giro».

«Ero soltanto nella serra» disse. «Stavo pregando. Avevo bisogno di un

posto tranquillo».

Riuscirono a estinguere il fuoco, ma l'edificio aveva riportato molti dan-

ni. Quella fu la prima notizia. Poi arrivò la signora Hillcoate, senza fiato e

portando il bucato pulito, e le guardie la lasciarono passare. Incendio dolo-

so, disse: avevano trovato le lattine di benzina. Il guardiano notturno gia-

ceva a terra morto. Aveva un bernoccolo in testa.

Due uomini erano stati visti fuggire via. Erano stati riconosciuti? Non in

maniera sicura, ma correva voce che uno di loro fosse il giovanotto della

signorina Laura. Reenie disse che non era il suo giovanotto, Laura non a-

veva un giovanotto, era solo una conoscenza. Be', qualunque cosa fosse,

disse la signora Hillcoate, era molto probabile che avesse incendiato la

fabbrica di bottoni e dato un colpo in testa al povero Al Davidson, ucci-

dendolo come un topo, e avrebbe fatto meglio a filare dalla città se ci tene-

va alla pelle.

A cena Laura disse di non avere fame. Disse che in quel momento non

poteva mangiare: si sarebbe preparata un vassoio e avrebbe mangiato più

tardi. La guardai mentre lo portava nella sua stanza passando per la scala

di servizio. Aveva preso doppia porzione di tutto - coniglio, zucchine, pa-

tate lesse. Di solito considerava il mangiare una sorta di trastullo - qualco-

sa con cui tenere occupate le mani al tavolo da pranzo mentre gli altri par-

lavano -, oppure un compito noioso ma inevitabile, come lucidare l'argen-

to. Una sorta di tediosa routine di manutenzione. Mi chiesi quando avesse

sviluppato all'improvviso un tale ottimismo sul cibo.

Il giorno seguente le truppe del Royal Canadian Regiment arrivarono per

ristabilire l'ordine. Era il vecchio reggimento di mio padre durante la guer-

ra. Per lui fu un vero colpo vedere quei soldati rivolgersi contro la loro

stessa gente - la sua stessa gente, o che lui considerava tale. Non c'era bi-

sogno di essere dei geni per immaginare che essa non condividesse più

l'opinione che mio padre ne aveva, ma per lui fu comunque un brutto

colpo. Allora lo avevano amato solo per il suo denaro? Così sembrava.

Dopo che il Royal Canadian Regiment ebbe riportato la situazione sotto

controllo, arrivarono i poliziotti a cavallo. Tre di loro comparvero fuori

della nostra porta. Bussarono educatamente, quindi rimasero nell'ingresso,

con i rigidi cappelli marroni in mano. Volevano parlare con Laura.

«Vieni con me, per favore, Iris» sussurrò Laura quando fu mandata a

chiamare. «Non posso vederli da sola». Sembrava molto piccola, molto

pallida.

Ci sedemmo insieme sul divano del soggiorno, accanto al vecchio

grammofono. I poliziotti presero delle sedie. Non corrispondevano alla

mia idea di un poliziotto a cavallo, erano troppo vecchi e troppo grossi at-

torno alla vita. Uno era più giovane, ma non era lui il capo. Fu quello di

mezzo a parlare. Disse che gli spiaceva disturbarci in quello che doveva

essere un momento difficile, ma la faccenda era piuttosto urgente. Voleva-

no parlare del signor Alex Thomas. Laura era consapevole che quell'uomo

era un nòto sovversivo ed estremista, ed era stato nei campi per i disoccu-

pati, provocando agitazioni e fomentando disordini?

Laura disse che per quanto ne sapeva aveva soltanto insegnato a leggere.

Si poteva anche vederla così, disse il poliziotto. E se era innocente, natu-

ralmente non aveva nulla da nascondere, e se fosse stato necessario si sa-

rebbe presentato, non era d'accordo? Dove sarebbe potuto stare in quei

giorni?

Laura disse che non avrebbe saputo dirlo.



La domanda fu ripetuta in maniera diversa. Quell'uomo era sospettato:

Laura non voleva aiutare a localizzare il criminale che forse aveva incen-

diato la fabbrica di suo padre, causando forse la morte di un impiegato fe-

dele? Almeno a voler credere ai testimoni oculari...

Dissi che ai testimoni oculari non si poteva credere, perché chiunque

fosse visto fuggire poteva essere scorto soltanto di schiena, e inoltre era

buio.

«Signorina Laura?» fece il poliziotto, ignorandomi.



Laura disse che anche se l'avesse saputo non l'avrebbe detto. Disse che

chiunque era innocente finché non veniva provata la sua colpevolezza. I-

noltre era contrario ai suoi principi cristiani dare un uomo in pasto ai leoni.

Disse che le dispiaceva per il guardiano morto, ma non era colpa di Alex

Thomas, perché Alex Thomas non avrebbe mai fatto una cosa simile. Ma

non riuscì a dire nient'altro.

Mi si era aggrappata al braccio, vicino al polso; la sentivo tremare, come

una rotaia che vibri.

Il poliziotto capo disse qualcosa a proposito dell'intralciare la giustizia.

A questo punto replicai che Laura aveva appena quindici anni, e non po-

teva essere ritenuta responsabile nel modo in cui avrebbe potuto esserlo un

adulto. Dissi che quanto aveva detto loro era confidenziale, naturalmente, e

se fosse uscito da quella stanza - finendo sui giornali, per esempio -, mio

padre avrebbe saputo chi ringraziare.

I poliziotti sorrisero, si alzarono e presero congedo; erano decorosi e ras-

sicuranti. Probabilmente si erano resi conto di quanto fosse sconveniente

seguire quella pista nelle loro indagini. Sebbene alle corde, mio padre ave-

va ancora degli amici.

«Bene» dissi a Laura, una volta che se ne furono andati. «So che l'hai

fatto entrare in questa casa. Faresti meglio a dirmi dov'è».

«L'ho messo nella cantina fredda» disse Laura, con il labbro inferiore

che le tremava.

«La cantina fredda!» esclamai. «Che posto stupido! Perché là?»

«Cosi avrebbe avuto abbastanza da mangiare, in caso di emergenza» dis-

se, e scoppiò in lacrime. L'abbracciai, e lei tirò su col naso contro la mia

spalla.


«Abbastanza da mangiare?» dissi. «Abbastanza marmellata e gelatina e

sottaceti? Davvero, Laura, l'hai combinata proprio bella». Poi scoppiammo

tutt'e due a ridere, e quando smettemmo di ridere e Laura si fu asciugata

gli occhi, dissi: «Dobbiamo portarlo fuori di qui. E se Reenie scende giù a

prendere un vasetto di marmellata o qualcos'altro e se lo trova davanti per

sbaglio? Le prende un attacco di cuore».

Ridemmo ancora. Avevamo i nervi a fior di pelle. Poi dissi che sarebbe

stata più adatta la soffitta, perché non ci andava mai nessuno. Avrei siste-

mato tutto io, dissi. Avrebbe fatto meglio ad andare a letto: era ovvio che

sentiva la tensione e che era completamente esausta. Sospirò un po', come

un bambino stanco, poi fece come le avevo suggerito. Aveva vissuto con i

nervi tesi, portandosi dietro l'enorme peso di quel segreto come uno zaino

opprimente, e adesso che me l'aveva passato era libera di dormire.

Credevo davvero di farlo soltanto per risparmiarla - per aiutarla, per

prendermi cura di lei, come avevo sempre fatto?

Sì. È quello che pensavo.

Aspettai finché Reenie non ebbe pulito la cucina e se ne fu andata a let-

to. Poi scesi la scala che portava alle cantine, giù nel freddo, nel buio, nel-

l'odore dell'umidità abitata dai ragni. Oltrepassai la porta della cantina del

carbone, quella della cantina dei vini, chiusa a chiave. La porta della canti-

na fredda si chiudeva con un chiavistello. Bussai, lo sollevai, entrai. Ci fu

un rumore di rapidi passi. Era buio, naturalmente; l'unica luce era quella

del corridoio. Sul barile delle mele c'erano i resti della cena di Laura - gli

ossi del coniglio. Sembrava un altare primitivo.

Non lo vidi subito; era dietro il barile. Poi riuscii a distinguerlo. Un gi-

nocchio, un piede. «Va tutto bene» sussurrai. «Sono solo io».

«Ah» disse con la sua voce normale. «La sorella devota».

«Shh» feci. La luce si accendeva con un catenella che pendeva dalla

lampadina. La tirai, la luce si accese. Alex Thomas si stava tirando su, u-

scendo a fatica da dietro il barile. Si piegò, battendo le palpebre, imbaraz-

zato, come un uomo sorpreso con i pantaloni slacciati.

«Dovrebbe vergognarsi» dissi.

«È venuta a sbattermi fuori o a consegnarmi alle autorità, immagino» fe-

ce lui con un sorriso.

«Non sia sciocco» ribattei. «Non vorrei certo che fosse scoperto qui.

Mio padre non reggerebbe allo scandalo».

«Figlia di capitalista aiuta assassino bolscevico?» chiese. «Scoperto nido

d'amore tra barattoli di gelatina? Questo tipo di scandalo?»

Lo guardai in cagnesco. Non c'era da scherzare.

«Può dormire tranquilla. Laura e io non stiamo combinando niente» dis-

se. «È una ragazzina fantastica, ma sta facendo il tirocinio da santa, e io

non sono un ladro di bambini». Ormai era in piedi e si stava togliendo la

polvere di dosso.

«Allora perché la nasconde?» chiesi.

«È una questione di principio. Visto che glielo avevo chiesto, non ha po-

tuto rifiutare. Rientro nella giusta categoria per lei».

«Quale categoria?»

«Dei "fratelli più piccoli", immagino» disse. «Tanto per citare Gesù». Lo

trovai piuttosto cinico. Poi disse che imbattersi in Laura era stato una spe-

cie di incidente. L'aveva incontrata nella serra. Cosa stava facendo lì? Si

stava nascondendo, è ovvio. Aveva anche sperato, disse, di potermi parla-

re.


«A me?» chiesi. «E perché mai a me?»

«Pensavo che avrebbe saputo cosa fare. Sembra un tipo pratico. Sua so-

rella è meno...»

«Sembra che Laura se la sia cavata abbastanza bene» dissi secca. Non

mi piaceva quando gli altri criticavano Laura - la sua vaghezza, la sua in-

genuità, la sua incoscienza. Criticare Laura era una cosa riservata a me.

«Come è riuscita a farla passare davanti agli uomini alle porte?» chiesi.

«Per farla entrare in casa? Gli uomini con i soprabiti».

«Anche gli uomini in soprabito ogni tanto devono pisciare» disse.

Fui presa alla sprovvista dalla sua volgarità - faceva a pugni con l'educa-

zione dimostrata durante la cena - ma forse era un assaggio del tono bef-

fardo tipico degli orfani di cui Reenie ci aveva parlato. Decisi di ignorarla.

«Non è stato lei ad appiccare il fuoco, suppongo» dissi. Volevo sembrare

sarcastica, ma la battuta non fu recepita come tale.

«Non sono tanto stupido» disse. «Non provocherei un incendio per nes-

suna ragione».

«Tutti pensano che sia stato lei».

«Ma non è così» disse. «Tuttavia sarebbe molto conveniente per certa

gente sposare questa tesi».

«Quale certa gente? Perché?» non lo stavo incalzando questa volta; ero

sconcertata.

«Usi la testa» rispose. Ma non volle dire altro.

La soffitta

Presi una candela dalla riserva che tenevamo in cucina, a portata di ma-

no in caso di interruzioni della corrente, e la accesi, quindi condussi Alex

Thomas fuori della cantina e attraverso la cucina e su per la scala di servi-

zio, poi su per la scala più stretta che portava alla soffitta, dove lo sistemai

dietro tre bauli vuoti. Lassù c'erano alcune vecchie trapunte riposte in una

cassapanca di cedro, e le tirai fuori per farne un giaciglio.

«Non verrà nessuno» dissi. «Se lo fanno, si metta sotto le trapunte. Non

cammini, potrebbero sentire i passi. Non accenda la luce». (In soffitta c'era

una sola lampadina che si accendeva con una catenella, proprio come nella

cantina fredda). «Le porteremo qualcosa da mangiare domattina» aggiunsi,

senza sapere come avrei mantenuto quella promessa.

Scesi di sotto, poi tornai di nuovo su con un vaso da notte, che posai a

terra senza dire una parola. Era un dettaglio che mi aveva sempre preoccu-

pato, nelle storie di Reenie sui rapitori: e il bagno? Va bene essere chiuse

in una cripta, ma essere anche ridotte ad accovacciarsi in un angolo con la

gonna sollevata...

Alex Thomas annuì e disse: «Brava ragazza. È un'amica. Sapevo che era

un tipo pratico».

La mattina io e Laura tenemmo un consulto a bisbigli nella sua stanza.

Gli argomenti discussi furono come procurarsi da mangiare e da bere, il

bisogno di essere vigili e come svuotare il vaso da notte. Una di noi - fin-

gendo di leggere - sarebbe stata di guardia nella mia stanza, con la porta

aperta: da lì si vedeva la porta che conduceva alla scala della soffitta. L'al-


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