Margaret atwood



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finestre decorati con festoni di plastica gialla che avrebbero dovuto rappre-

sentare delle fiamme. Fui allarmata dall'audacia miltoniana del nome e del-

le fiamme: si erano mai resi conto di cosa stavano citando?

Lo gettò capofitto fiammeggiante dall'etereo cielo

con orrenda rovina riarso.

...Un diluvio di fiamme nutrito

di zolfo sempre ardente, mai consunto.

No. Non lo sapevano. Il Braciere era l'inferno soltanto per la carne alla

griglia.

L'interno aveva lampade sospese con paralumi di vetro colorato e piante

screziate, fibrose, in recipienti di terracotta - un'aria anni sessanta. Mi se-

detti nel séparé accanto a quello occupato da Sabrina e da due sue compa-

gne di scuola, tutte vestite nelle stesse sgraziate divise mascoline, quei kilt

simili a coperte con cravatte assortite che Winifred aveva sempre trovato

tanto prestigiosi. Le tre ragazze avevano fatto del loro meglio per rovinare

l'effetto - calze cascanti, camicie parzialmente tirate fuori, cravatte storte.

Masticavano gomma come se fosse un dovere religioso, e parlavano in

quel modo annoiato e troppo rumoroso di cui le ragazze della loro età

sembrano essere sempre state maestre.

Erano tutte e tre belle, nel modo in cui lo sono le ragazze così giovani.

Non può essere aiutato, quel genere di bellezza, né può essere conservato;

è una freschezza, una pienezza delle cellule che riceviamo in dono ed è

passeggera, e che nulla può ricreare. Nessuna di loro ne era soddisfatta, pe-

rò; stavano già facendo tentativi di modificarsi, di migliorare e alterare e

rimpicciolire, di stiparsi in qualche impossibile stampo immaginario,

strappando via peli e tracciando segni a matita sui loro visi. Non le biasi-

mavo, avendo fatto anch'io lo stesso una volta.

Me ne stavo seduta là osservando Sabrina da sotto la tesa del mio cap-

pello da sole floscio e ascoltando le loro chiacchiere banali, che innalzava-

no davanti a sé come una maschera. Nessuna stava dicendo quello che

pensava, nessun si fidava delle altre - e del tutto a ragione, perché il tradi-

mento occasionale è storia di tutti i giorni a quell'età. Le altre due erano

bionde; solo Sabrina era scura e lucida come una mora. Non ascoltava

davvero le sue amiche, e neppure le guardava. Dietro l'indifferenza studia-

ta del suo sguardo doveva fervere la ribellione. Riconobbi la scontrosità, la

testardaggine, l'indignazione schiava-principessa, che va tenuta nascosta

finché non siano state raccolte armi a sufficienza. Guardati le spalle, Wini-

fred, pensai con soddisfazione.

Sabrina non mi notò. Oppure mi notò, ma non sapeva chi fossi. Mi lan-

ciarono qualche occhiata, mi giunsero mormoni e risolini; ricordo quel ge-

nere di cosa. Sciattona incartapecorita, o la sua versione moderna. Credo

che ce l'avessero col mio cappello. Era tutt'altro che alla moda, quel cap-

pello. Quel giorno per Sabrina io ero soltanto una donna vecchia - una

donna più vecchia -, una vecchia qualunque non ancora abbastanza decre-

pita da essere degna di nota.

Dopo che loro tre se ne furono andate, mi recai alla toilette. Sulla parete

del bagno c'era una poesia:

Amo Darren sì perché

È fatto per me e non per te

Se provi a metterti al posto mio

Ti spacco la faccia giuro su Dio.

Le ragazze sono diventate più esplicite di una volta, ma non più brave

nella punteggiatura.

Quando io e Walter abbiamo finalmente individuato il Braciere, che (a

sentir lui) non era dove lo aveva lasciato, c'era del compensato inchiodato

alle finestre, con sopra fissato un qualche avviso ufficiale. Walter ha annu-

sato tutto intorno alla porta sbarrata come un cane che abbia messo un osso

fuori posto. «Sembra che sia chiuso» ha detto. È rimasto un attimo lì con le

mani in tasca. «Cambiano sempre le cose» ha aggiunto. «Non si riesce a

starci dietro».

Dopo esserci guardati un po' in giro e aver seguito qualche falsa pista, ci

siamo accontentati di una tavola calda senza pretese sulla Davenport, con

sedili in vinile e jukebox ai tavoli, riforniti di musica country e di una

manciata di vecchie canzoni dei Beatles e di Elvis Presley. Walter ha mes-

so Heartbreak Hotel, e lo abbiamo ascoltato mentre mangiavamo i nostri

hamburger e bevevamo il nostro caffè. Walter ha insistito per pagare - di

nuovo Myra, senza alcun dubbio. Deve avergli messo in mano una banco-

nota da venti.

Ho mangiato solo metà del mio hamburger. Non ce l'ho fatta a finirlo.

Walter ha mangiato l'altra metà, ficcandosela tutta in bocca, come se la

stesse imbucando.

Mentre uscivamo dalla città, ho chiesto a Walter di farmi passare accan-

to alla mia vecchia casa - la casa dove un tempo ho vissuto con Richard.

Ricordavo la strada alla perfezione, ma quanto alla casa in sé, quando l'ho

raggiunta sulle prime non la riconoscevo. Era ancora spigolosa e sgraziata,

con le finestre strabiche, massiccia, di un marrone intenso come tè troppo

carico, ma su tutti i muri era cresciuta l'edera. Le parti in legno da finto

chalet, un tempo color crema, erano state dipinte di verde mela, e lo stesso

la pesante porta d'ingresso.

Richard era contrario all'edera. Ce n'era un po' appena ci eravamo trasfe-

riti là, ma lui l'aveva fatta togliere. Mangiava i mattoni, diceva; entrava nei

camini, incoraggiava i roditori. Questo era quando ancora spiegava le ra-

gioni di ciò che pensava e faceva, e ancora le presentava come le ragioni di

ciò che io stessa avrei dovuto pensare e fare. Prima che gettasse le ragioni

al vento.

Mi è balenata un'immagine di me stessa a quel tempo, con un cappello di

paglia e un vestito giallo chiaro, di cotone per via del caldo. Era verso la

fine dell'estate, l'anno dopo il mio matrimonio; il terreno sembrava fatto di

mattoni. Su istigazione di Winifred avevo cominciato a dedicarmi al giar-

dinaggio: dovevo avere un hobby, diceva. Aveva deciso che avrei dovuto

iniziare con un giardino roccioso, perché anche se avessi ucciso le piante le

rocce sarebbero rimaste. Non c'è molto che tu possa fare per uccidere una

roccia, aveva scherzato. Aveva mandato quelli che definiva tre uomini fi-

dati, che dovevano pensare agli scavi e alla sistemazione delle rocce, in

modo che potessi piantare qualcosa.

Nel giardino c'erano già alcune rocce ordinate da Winifred: alcune pic-

cole, altre più grandi, come lastre, disseminate a caso o ammucchiate come

tessere di domino cadute. Stavamo tutti là, i tre uomini fidati e io, a guar-

dare quel cumulo di sassi ammucchiati alla rinfusa. Loro avevano il cap-

pello in testa ed erano senza giacca, con le maniche delle camicie rimboc-

cate, le bretelle bene in vista; stavano aspettando le mie istruzioni, ma io

non sapevo cosa dire.

Allora avrei voluto ancora cambiare qualcosa - fare qualcosa di testa

mia, fare qualcosa, non importa a partire da che. Pensavo ancora di poterlo

fare. Ma non sapevo assolutamente nulla di giardinaggio. Avrei avuto vo-

glia di piangere, ma basta piangere una volta ed è finita: se piangi, gli uo-

mini fidati ti disprezzeranno, e poi non saranno più fidati.

Walter mi ha aiutata a scendere dalla macchina, quindi ha aspettato in si-

lenzio, un po' dietro di me, pronto ad afferrarmi se fossi caduta. Me ne sta-

vo sul marciapiede e guardavo la casa. Il giardino roccioso era ancora là,

anche se molto trascurato. Naturalmente era inverno, perciò era difficile a

dirsi, ma dubitavo che vi crescesse più qualcosa, tranne forse qualche dra-

cena, quelle crescono ovunque.

Sul vialetto c'era un grande cassone pieno di legno frantumato, lastre di

calcina: erano in corso dei lavori di ristrutturazione. Oppure c'era stato un

incendio: una finestra del piano di sopra era fracassata. A sentire Myra la

gente che vive per strada si accampa in posti del genere: lasciate una casa

disabitata, per lo meno a Toronto, e ci entreranno come fulmini, tenendoci

le loro feste a base di droga o quello che sia. Culti satanici, aveva sentito

dire. Faranno falò sui pavimenti di legno duro, intaseranno i bagni e defe-

cheranno nei lavandini, sgraffigneranno i rubinetti, i lussuosi pomelli delle

porte, tutto quello che si può vendere. Anche se a volte sono solo ragazzi

che mandano tutto all'aria per divertimento. I giovani hanno un vero talen-

to per questo genere di cose.

La casa sembrava senza proprietario, provvisoria, come la foto sul vo-

lantino di un'agenzia immobiliare. Non sembrava più collegata a me in al-

cun modo. Cercavo di ricordare il suono dei miei passi, gli stivali invernali

sulla neve secca che scricchiolava, mentre camminavo veloce verso casa,

tardi, architettando una scusa; la saracinesca nera come inchiostro della

porta; il modo in cui la luce dei lampioni stradali cadeva sui cumuli di ne-

ve, blu ghiaccio ai bordi e punteggiati dal braille giallo della pipì di cane.

Le ombre erano differenti allora. Il mio cuore agitato, il mio respiro che si

srotolava, fumo bianco nell'aria gelida. Il calore febbrile delle mie dita; la

ruvidezza della mia bocca sotto il rossetto appena messo.

C'era un caminetto nel salotto. Mi sedevo là davanti, con Richard, la lu-

ce che tremolava su di noi e sui nostri occhiali, ognuno con il suo sottobic-

chiere per proteggere l'impiallacciatura. Sei di sera, l'ora del martini. A Ri-

chard piaceva ricapitolare la giornata: è così che diceva. Aveva preso l'abi-

tudine di mettermi la mano dietro il collo - appoggiandovela, limitandosi a

tenerla leggermente lì mentre portava avanti la ricapitolazione. Ricapitola-

zione è ciò che facevano i giudici prima che un caso passasse alla giuria. È

così che si vedeva? Forse. Ma i suoi pensieri più riposti, le sue ragioni, mi

rimanevano spesso oscuri.

Quella era una fonte di tensione tra noi due: la mia incapacità di capirlo,

di anticiparne i desideri, cosa che egli attribuiva alla mia volontaria e per-

fino aggressiva mancanza di attenzione. In realtà era anche confusione e,

più tardi, paura. Man mano che andavamo avanti, per me lui diventava

sempre meno simile a un uomo, con una pelle e organi funzionanti, e sem-

pre più simile a un gigantesco groviglio di spago, che come per incantesi-

mo ogni giorno ero condannata a cercare di districare. Non ci riuscii mai.

Stavo fuori della mia casa, la mia vecchia casa, in attesa di un'emozione

di qualunque genere. Non ne è arrivata nessuna. Avendo provato entrambi,

non so cosa sia peggio: un sentimento intenso, o la sua assenza.

Dal castagno nel prato spenzolavano un paio di gambe, gambe di donna.

Per un momento ho pensato che fossero vere gambe che si stessero calan-

do giù, scappando, finché non ho guardato con più attenzione. Erano un

paio di collant imbottiti con qualcosa - carta igienica, senza dubbio, o

biancheria intima - e buttati giù dalla finestra del piano di sopra durante

qualche rito satanico o scherzo di adolescenti o bisboccia di vagabondi.

Doveva essere la mia finestra quella da cui erano state gettate quelle

gambe incorporee. La mia vecchia finestra. Mi sono immaginata mentre

guardavo da quella finestra, tanto tempo prima. Macchinando come scivo-

lare fuori per quella via, senza farmi notare, e calarmi giù grazie a quell'al-

bero - togliendomi pian piano le scarpe, spenzolandomi oltre il davanzale,

allungando un piede nella sola calza e poi l'altro, aggrappandomi agli ap-

pigli. Ma non l'avevo fatto.

Guardando fuori della finestra. Esitando. Pensando: Quanto sono diven-

tata estranea a me stessa.

Cartoline dall'Europa

Le giornate si fanno buie, gli alberi diventano desolati, il sole rotola in

discesa verso il solstizio d'inverno, ma non è ancora inverno. Niente neve,

niente nevischio, niente venti ululanti. È minaccioso, questo ritardo. Un si-

lenzio color bruno grigiastro ci pervade.

Ieri ho camminato fino al Jubilee Bridge. È corsa voce di ruggine, corro-

sione, debolezza strutturale; è corsa voce di buttarlo giù. Qualche società

immobiliare senza nome e senza volto aspira a innalzare dei condomini

sulla proprietà pubblica confinante, dice Myra - è un terreno di prima qua-

lità per il panorama. Al giorno d'oggi i panorami valgono più delle patate,

non che in quel punto esatto siano mai cresciute patate. Corre voce che un

mucchio di denaro sporco sia passato di mano in mano sotto banco per fa-

cilitare l'affare, cosa che - ne sono sicura - è accaduta anche quando il pon-

te è stato costruito, con il pretesto di onorare la regina Vittoria. Un appalta-

tore o l'altro deve aver pagato i rappresentanti eletti di Sua Maestà per ot-

tenere il lavoro, e in questa città noi continuiamo a rispettare i vecchi me-

todi: Fare soldi, non importa come. Sono questi i vecchi metodi.

Strano pensare che un tempo signore in gale e crinoline passeggiavano

su questo ponte e si sporgevano dalla sua ringhiera filigranata per osserva-

re il panorama ora costoso e ben presto privato: il tumulto delle acque là

sotto, le pittoresche scogliere di calcare a occidente, le vicine fabbriche che

funzionavano a pieno ritmo quattordici ore al giorno, piene di servili bifol-

chi sempre pronti a togliersi il cappello, e che al crepuscolo baluginavano

come casinò illuminati a gas.

Stavo là e guardavo da una parte l'acqua a monte, liscia come una cara-

mella, scura e silenziosa, un potenziale minaccioso. Dall'altra parte c'erano

le cascate, i mulinelli, il rumore indistinto. È una bella distanza fino a giù.

Ho preso consapevolezza del mio cuore, e delle vertigini. Anche della

mancanza di respiro, come se fossi da qualche parte sopra la mia testa. Ma

sopra la mia testa dove? Non in acqua; in qualcosa di più denso. Il tempo:

il vecchio tempo freddo, il vecchio dolore, che si depositano in strati come

limo in una palude.

Per esempio: Richard e io, sessantaquattro anni fa, che scendiamo la

passerella del Berengeria sull'altra sponda dell'oceano Atlantico, il suo

cappello inclinato in maniera disinvolta, la mia mano guantata appoggiata

al suo braccio - la coppia di sposi novelli in luna di miele.

Perché la luna di miele è chiamata così? Lune de miel, luna fatta di mie-

le, come se la luna stessa non fosse una sfera fredda, arida e senz'aria, di

roccia butterata, ma soffice, dorata, succulenta - una luminosa susina can-

dita, del tipo giallo, che si scioglie in bocca, appiccicosa come il desiderio,

così tormentosamente dolce da farti dolere i denti. Un caldo riflettore che

fluttua, non nel cielo, ma dentro il tuo corpo.

So tutto questo. Lo ricordo molto bene. Ma non dalla mia luna di miele.

L'emozione che ricordo più chiaramente di quelle otto settimane - o for-

se furono nove? - è l'ansia. Ero preoccupata che Richard trovasse l'espe-

rienza del nostro matrimonio - intendendo con questo la parte di esso che

aveva luogo al buio e di cui non si poteva parlare - deludente, come me.

Anche se non sembrava che le cose stessero così: all'inizio era abbastanza

affabile nei miei confronti, almeno alla luce del giorno. Nascondevo questa

mia ansia come meglio potevo, e mi facevo frequenti bagni: mi sembrava

che stessi marcendo dentro, come un uovo.

Dopo avere attraccato a Southampton, io e Richard andammo in treno a

Londra, dove scendemmo al Brown's Hotel. Ci facevamo servire la cola-

zione nella suite, e in quelle occasioni io indossavo un négligé, uno dei tre

scelti per me da Winifred: rosa antico, avorio con merletto grigio tortora,

lilla con acquamarina - colori chiari, slavati, che ben si accordavano con il

viso della mattina. Ognuno aveva pantofole di raso assortite, orlate di pel-

liccia tinta o di piume di cigno. Presumevo che questo fosse quanto indos-

savano al mattino le donne adulte. Avevo visto foto di simili completi (ma

dove? Forse in qualche pubblicità, magari per una miscela di caffè?): l'uo-

mo in vestito e cravatta, i capelli pettinati lisci all'indietro, la donna nel suo

négligé con l'aria altrettanto strigliata, una mano sollevata che teneva la

caffettiera d'argento con il becco ricurvo, mentre tutti e due si sorridevano

con aria stordita al di sopra del piattino del burro.

Laura si sarebbe fatta beffe di quelle tenute. Lo aveva già fatto quando

mi aveva vista metterle in valigia. Ma non era esattamente così: Laura era

incapace di farsi veramente beffe di qualcosa. Le mancava la crudeltà ne-

cessaria. (La crudeltà intenzionale necessaria, cioè. Le sue crudeltà erano

occasionali - sottoprodotti di qualunque nobile idea stesse elaborando nella

sua testa). La sua reazione era stata piuttosto di stupore - una sorta di in-

credulità. Aveva passato la mano sul raso con un piccolo brivido, e io ave-

vo sentito la fredda stoffa untuosa e scivolosa sulle estremità delle mie

stesse dita. Come pelle di lucertola. «Li indosserai?» disse.

In quelle mattine estive a Londra - perché era estate allora - mangiavamo

le nostre colazioni con le tende tirate a metà per proteggerci dalla lumino-

sità del sole. Richard prendeva due uova sode, due spesse fette di pancetta

e un pomodoro alla griglia, con toast e marmellata, il toast friabile, raf-

freddato in un porta toast. Io prendevo metà di un pompelmo. Il tè era

scuro, dal forte sapore di tannino, come acqua di palude. Quello era il

modo giusto, inglese, di servirlo, diceva Richard.

Non veniva detto molto, a parte lo stretto necessario. «Dormito bene, ca-

ra?» e «Mmm - e tu?» Richard si faceva consegnare i giornali, insieme ai

telegrammi. Di questi ce n'erano sempre parecchi. Scorreva i giornali, poi

apriva i telegrammi, li leggeva, li piegava con cura una volta e poi un'altra,

li metteva in tasca. Oppure li faceva a pezzi. Non li spiegazzava mai per

poi gettarli nel cestino della carta straccia, e se anche lo avesse fatto pro-

babilmente io non avrei frugato, non li avrei tirati fuori e letti, o almeno

non in quel periodo della mia vita.

Supponevo che fossero tutti per lui: a me non era mai stato mandato un

telegramma, e non mi veniva in mente alcun motivo perché potessi rice-

verne uno.

Durante il giorno Richard aveva vari impegni. Pensavo che fossero con

dei soci d'affari. Noleggiava una macchina e un autista per me, e venivo

portata a vedere quello che a suo parere andava visto. La maggior parte

delle cose che passavo in rassegna erano edifici, altre erano parchi. Altre

ancora erano statue erette fuori degli edifici o dentro i parchi: uomini di

stato con la pancia tirata in dentro e il petto spinto in fuori, una gamba pie-

gata sull'altra, che stringevano rotoli di carta; militari a cavallo. Nelson

sulla sua colonna, il principe Alberto sul suo trono con un quartetto di

donne dall'aria esotica che si agitavano e si rotolavano intorno ai suoi pie-

di, vomitando frutta e frumento. Quelli dovevano essere i continenti su cui

il principe Alberto, sebbene morto, signoreggiava ancora, ma lui non face-

va loro alcuna attenzione; sedeva austero e silenzioso sotto la sua pesante

cupola dorata guardando in lontananza, la mente rivolta a cose più elevate.

«Cosa hai visto oggi?» chiedeva Richard a cena, e io enumeravo obbe-

diente, spuntando un edificio o un parco o una statua dopo l'altra: la Torre

di Londra, Buckingham Palace, Kensington, Westminster Abbey, il palaz-

zo del Parlamento. Lui non incoraggiava le visite ai musei, a parte il mu-

seo di Storia Naturale. Ora mi chiedo perché pensasse che la vista di tanti

grossi animali impagliati avrebbe contribuito alla mia educazione. Perché

era ormai evidente che era questo a cui miravano tutte quelle visite - alla

mia educazione. Perché gli animali impagliati sarebbero andati meglio per

me, o meglio per la sua idea di cosa dovessi diventare, che non, per esem-

pio, una stanza piena di quadri? Credo di saperlo, ma forse mi sbaglio.

Forse gli animali impagliati erano più o meno come uno zoo - un posto

dove portare un bambino a fare una gita.

Però andai alla National Gallery. Me lo suggerì il concierge dell'albergo,

una volta che ebbi esaurito gli edifici. Mi estenuò - era come un grande

magazzino, tanti corpi affollati contro le pareti, tanto sfolgorio -, ma al

tempo stesso era esilarante. Non avevo mai visto tante donne nude tutte in-

sieme. C'erano anche uomini nudi, ma non erano poi tanto nudi. C'era an-

che un'infinità di splendidi vestiti. Forse si tratta di categorie fondamentali,

come donne e uomini: nudi e vestiti. Be', Dio ha creduto che fosse giusto

così. (Laura da bambina: Cosa indossa Dio?)

In tutti quei posti la macchina e l'autista aspettavano, e io entravo svelta

attraverso qualunque cancello o porta, cercando di sembrare risoluta; cer-

cando di non sembrare così sola e vuota. Poi guardavo e guardavo, in mo-

do da avere qualcosa da dire in seguito. Ma non riuscivo veramente a capi-

re il significato di quanto vedevo. Gli edifici sono solo edifici. Non hanno

quasi niente di interessante, a meno che non sappiate qualcosa di architet-

tura, o su quanto vi è accaduto, e io non lo sapevo. Mi mancava il talento

per le visioni d'insieme; era come se i miei occhi fossero letteralmente a

contatto con qualsiasi cosa fossi tenuta a guardare, e potessi assimilarne

soltanto la consistenza: la ruvidezza dei mattoni o delle pietre, la leviga-

tezza delle ringhiere di legno lucidato a cera, l'asprezza di una pelliccia

consumata. Le striature del corno, il caldo barlume dell'avorio. Occhi di

vetro.

In aggiunta a queste escursioni educative, Richard mi incoraggiava ad



andare a fare spese. I commessi dei negozi mi intimidivano, e compravo

poco. In altre occasioni andavo dal parrucchiere. Non voleva che mi ta-

gliassi i capelli né che li ondulassi, perciò non lo facevo. Uno stile sempli-

ce era il più adatto a me, sosteneva. Si addiceva alla mia giovinezza.

A volte me ne andavo semplicemente in giro, oppure mi sedevo sulle

panchine, aspettando l'ora di tornare. A volte un uomo mi si sedeva accan-

to e cercava di attaccare discorso. Allora me ne andavo.

Passavo un'infinità di tempo a cambiarmi d'abito. A trastullarmi con

spalline, fermagli, tese di cappelli, cuciture di calze. A preoccuparmi se

questa o quella cosa fosse adatta a questa o a quell'ora del giorno. Non c'e-

ra nessuno che mi allacciasse il vestito o mi dicesse che figura facevo di

spalle e se avevo tutto infilato al posto giusto. Prima lo faceva Reenie, o


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