Margaret atwood



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Poi ci fu un delizioso pasto a base di nettare, che, venne detto agli uomi-

ni, avrebbe allontanato la vecchiaia e la morte; seguì una passeggiata negli

incantevoli giardini, che erano colmi di fiori inimmaginabili; quindi i due

vennero condotti in una grande stanza piena di pipe, di cui potevano ser-

virsi a loro piacimento.

Pipe? Quelle che si fumano?

Da usare insieme alle pantofole, che furono fornite loro subito dopo.

Me la sono voluta, suppongo.

Non c'è dubbio, dice lui, sorridendo.

Le cose andarono meglio. Una delle ragazze era molto attiva sessual-

mente, l'altra era più posata e capace di discutere di arte, letteratura e filo-

sofia, per non parlare della teologia. Sembrava che sapessero cosa si ri-

chiedeva loro in ogni dato istante, e cambiavano a seconda degli stati d'a-

nimo e delle inclinazioni di Boyd e Will.

E così il tempo passava in armonia. Mentre le giornate perfette si avvi-

cendavano, gli uomini impararono a conoscere di più il pianeta Aa'A. Pri-

ma di tutto, non vi si mangiava carne e non c'erano animali carnivori, seb-

bene ci fosse un'infinità di farfalle e di uccelli canterini. Ho bisogno di ag-

giungere che il dio adorato su Aa'A aveva la forma di un'enorme zucca?

Secondo, non c'erano vere e proprie nascite. Le donne crescevano sugli

alberi, da uno stelo che partiva dalla cima della loro testa, e quando erano

mature venivano raccolte da quelle che le avevano precedute. Terzo, non

c'erano vere e proprie morti. Quando giungeva l'ora, ognuna delle Donne

Delizia - per chiamarle con i nomi con cui ben presto Boyd e Will si riferi-

rono loro - disorganizzavano semplicemente le loro molecole, che allora si

riaggregavano attraverso gli alberi in una donna nuova di zecca. Così l'ulti-

ma donna era, sia nella sostanza che nella forma, identica alla prima.

Come sapevano quando era giunta l'ora? Di disorganizzare le loro mole-

cole?

Primo, dalle lievi rughe prodotte dalla loro pelle vellutata quando diven-



tavano troppo mature. Secondo, dai moscerini.

I moscerini?

I moscerini della frutta, che svolazzavano in nugoli attorno alle loro ac-

conciature di reticelle rosse.

Questa è la tua idea di una storia felice?

Aspetta. C'è dell'altro.

Dopo un po' questa esistenza, per quanto meravigliosa, iniziò a stancare

Boyd e Will. Tanto per cominciare, le donne li controllavano in continua-

zione, per assicurarsi che fossero felici. Questo alla fine può venire a noia

a un uomo. Inoltre, non c'era nulla che le ragazze non facessero. Erano as-

solutamente svergognate, o senza vergogna, come preferisci. Al momento

giusto davano prova del comportamento più depravato. Sgualdrina era il

minimo che si potesse dire di loro. Oppure, potevano diventare timide e

pudiche, umili, modeste; piangevano e gridavano perfino - anche quello a

richiesta.

Sulle prime Will e Boyd lo trovarono eccitante, ma dopo un po' comin-

ciarono a irritarsi.

Quando venivano colpite, dalle donne non usciva sangue, soltanto succo.

Se si colpivano più forte, si dissolvevano in una polpa dolce e molle, che

ben presto diventava un'altra Donna Delizia. Non sembrava che provassero

vero e proprio dolore, e Will e Boyd cominciarono a chiedersi se non pro-

vassero neanche piacere. Tutta l'estasi era stata solo una messa in scena?

Quando venivano interrogate al riguardo, le ragazze erano sorridenti ed

evasive. Non si riusciva a venirne a capo.

Sai cosa mi piacerebbe proprio adesso? chiese Will un bel giorno.

La stessa cosa che piacerebbe a me, scommetto, rispose Boyd.

Un'enorme bistecca alla griglia, succulenta, gocciolante sangue. Un

grosso mucchio di patatine fritte. E una bella birra fredda.

Idem. E poi un bel duello scatenato con quegli squamosi figli di cane di

Xenor.


Hai afferrato l'idea.

Decisero di andare in esplorazione. Nonostante fosse stato loro detto che

Aa'A era uguale in ogni direzione, e che avrebbero soltanto trovato altri

alberi e altri pergolati e altri uccelli e altre farfalle e altre donne affascinan-

ti, si misero in cammino verso ovest. Dopo molto tempo e nessuna avven-

tura di alcun tipo, si imbatterono in un muro invisibile. Era scivoloso come

vetro, ma a spingerlo risultava soffice e flessibile. Poi, di scatto, riprende-

va la forma originaria. Era talmente alto che era inutile cercare di allungar-

si o arrampicarsi. Era come un'enorme bolla di cristallo.

Credo che siamo intrappolati in una grande tetta trasparente, disse Boyd.

Si sedettero ai piedi del muro, sopraffatti da una profonda disperazione.

Questo posto è pace e abbondanza, disse Will. È un letto soffice e dolci

sogni notturni, è tulipani sul ridente tavolo della colazione, è la mogliettina

che prepara il caffè. È tutto l'amore che hai mai potuto sognare, in qualsia-

si forma possibile e immaginabile. È tutto ciò che gli uomini pensano di

volere quando sono là fuori a combattere in un'altra dimensione dello spa-

zio. È ciò per cui altri uomini hanno dato la vita. Ho detto giusto?

Eccome, rispose Boyd.

Ma è troppo bello per essere vero, disse Will. Dev'essere una trappola.

Potrebbe perfino trattarsi di qualche infernale trucco mentale degli Xeno-

riani, per tenerci lontani dalla guerra. È il Paradiso, ma non possiamo u-

scirne. E qualunque cosa da cui non si possa uscire è l'Inferno.

Ma questo non è l'Inferno. È la Felicità, disse una delle Donne Delizia

che si stava materializzando dal ramo di un albero lì vicino. Non c'è nessun

luogo dove andare lontano da qui. Rilassatevi. Divertitevi. Vi ci abituerete.

E questa è la fine della storia.

Davvero? dice lei. Terrai quei due uomini imprigionati là dentro per

sempre?


Ho fatto come volevi. Volevi la felicità. Ma posso tenerli là dentro o far-

li uscire, a seconda di quanto desideri.

Lasciali uscire, allora.

Fuori c'è la morte. Ricordi?

Oh. Capisco. Si gira di lato, si tira su la pelliccia, fa scivolare il braccio

attorno a lui. Però ti sbagli sulle Donne Delizia. Non sono come pensi tu.

Mi sbaglio come?

Ti sbagli e basta.

The Mail and Empire, 19 settembre 1936

GRIFFEN METTE IN GUARDIA

CONTRO I ROSSI IN SPAGNA

SPECIALE PER THE MAIL AND EMPIRE

In un ardente discorso tenuto all'Empire Club lo scorso giovedì

l'eminente industriale Richard E. Griffen, della Griffen-Chase

Royal Consolidated, ha messo in guardia sui potenziali pericoli

che minacciano l'ordine mondiale e il pacifico corso del commer-

cio internazionale a causa della guerra civile in corso in Spagna. I

Repubblicani, ha sostenuto, prendono ordini dai Rossi, come han-

no già dimostrato le loro espropriazioni, i massacri di pacifici ci-

vili e le atrocità commesse contro la religione. Molte chiese sono

state profanate e bruciate, e l'assassinio di suore e preti è ormai al-

l'ordine del giorno.

L'intervento dei Nazionalisti capeggiati dal Generale Franco ha

costituito una reazione assolutamente normale. Spagnoli indignati

e coraggiosi di ogni classe sociale si sono riuniti per difendere la

tradizione e l'ordine civile, e il mondo guarderà con ansia agli esi-

ti dello scontro. Un trionfo dei Repubblicani significherebbe una

Russia più aggressiva, mentre molti paesi più piccoli si ritrove-

rebbero probabilmente minacciati. Delle nazioni continentali, solo

la Germania e la Francia, e in certa misura l'Italia, sono state ab-

bastanza forti da resistere all'ondata.

Il signor Griffen ha raccomandato vivamente che il Canada se-

gua l'esempio di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, e prenda le

distanze dal conflitto. Quella del non intervento è una politica sa-

na e andrebbe adottata immediatamente, perché ai cittadini cana-

desi non dovrebbe essere chiesto di rischiare la loro vita in questa

mischia a loro estranea. Tuttavia si è già verificato un flusso sot-

terraneo di comunisti duri a morire che lasciano il nostro con-

tinente alla volta della Spagna, e sebbene ciò andrebbe loro proi-

bito per legge, il paese deve rallegrarsi che gli si sia presentata

l'opportunità di liberarsi di elementi sovversivi senza alcuna spesa

da parte dei contribuenti.

Le osservazioni del signor Griffen sono state accolte da calorosi

applausi.

L'assassino cieco: Il Top Hat Grill

Il Top Hat Grill ha un'insegna al neon con un cappello a cilindro rosso

che viene sollevato da un guanto blu. Il cappello continua ad alzarsi; non si

abbassa mai. Ma sotto non c'è nessuna testa, solo un occhio che ammicca.

Un occhio di uomo, che si apre e si chiude; l'occhio di un prestigiatore; un

buffone scaltro e senza testa.

Il cappello a cilindro è la cosa più di classe del Top Hat Grill. Eppure,

eccoli qui, seduti a uno dei suoi séparé, in pubblico come la gente reale,

ognuno con un hamburger, la carne grigia sul pane bianco, soffice e insipi-

do come il sedere di un angelo, la salsa ispessita con farina. Piselli in sca-

tola come contorno, di un delicato verde grigiastro; patate fritte molli di

grasso. Agli altri séparé siedono sconsolati uomini soli con un'espressione

di scusa negli occhi arrossati, le camicie leggermente sudicie e le cravatte

lucide da contabile, qualche coppia malconcia che fa il massimo della bal-

doria del venerdì sera che può permettersi, e qualche terzetto di prostitute

fuori servizio.

Mi chiedo se vada con qualche prostituta, pensa lei. Quando io non sono

in giro. Poi: Come faccio a sapere che sono prostitute?

È la cosa migliore che hanno, dice lui, per quello che costa. Intende

l'hamburger.

Hai provato qualcos'altro?

No, ma alla fine ti viene il fiuto.

È davvero molto buono, nel suo genere.

Risparmiami le maniere da party, dice lui, ma non troppo bruscamente.

Il suo stato d'animo non è quello che si dice gioviale, è all'erta. Nervoso

per qualche motivo.

Non era stato mai così quando era tornata dai suoi viaggi. Era stato taci-

turno e rancoroso.

Non ci vediamo da un sacco di tempo. Sei venuta per il solito?

Il solito cosa?

Il solito su e giù.

Perché senti la necessità di essere così volgare?

Sono le compagnie che frequento.

Quello che le piacerebbe sapere al momento è perché stanno mangiando

fuori. Perché non sono nella sua stanza. Perché lui sta gettando al vento la

prudenza. Dove ha preso i soldi.

Risponde per prima all'ultima domanda, anche se lei non gliel'ha fatta.

L'hamburger che vedi davanti a te, dice, è un gentile omaggio degli Uo-

mini Lucertola di Xenor. Alla loro salute, delle abiette bestie squamose, e

di tutti quelli che fanno loro guerra. Solleva il suo bicchiere di Coca-Cola;

l'ha corretto con del rum preso dalla sua fiaschetta. (Niente cocktail, temo,

aveva detto aprendole la porta. Questa bettola è asciutta come la prugna di

una strega).

Lei solleva il suo bicchiere. Gli Uomini Lucertola di Xenor? dice. Pro-

prio loro?

Proprio loro. L'ho mandato a un giornale, l'ho spedito due settimane fa, e

non se lo sono lasciato sfuggire. L'assegno è arrivato ieri.

Deve essere andato alla cassetta postale da solo, e da solo deve avere in-

cassato anche l'assegno, ultimamente l'ha fatto. Ha dovuto, lei è stata via

troppo tempo.

Ne sei felice? Sembri felice.

Già, sicuro... è un capolavoro. Azione a non finire, sangue versato a non

finire. Belle femmine. Sorride. Chi può resistere?

Parla delle Donne Delizia?

No. Niente Donne Delizia in questo. È tutta un'altra storia.

Lui pensa: Che succederà quando glielo dirò? Partita chiusa o promesse

eterne, e qual'è la cosa peggiore? Lei porta una sciarpa di un materiale sot-

tile, fluttuante, una sorta di arancione rosa. Melone è il termine per quella

sfumatura. Polpa dolce, fresca, liquida. Ricorda la prima volta che l'ha vi-

sta. Allora dentro il suo vestito non riuscì a immaginare altro che nebbia.

Cosa ti è preso? dice lei. Sembri molto... Hai bevuto?

No. Non troppo. Sposta i piselli grigio pallidi nel piatto. Finalmente è

successo, dice. Me ne vado. Passaporto e tutto.

Oh, fa lei. All'improvviso. Cerca di tenere lo sgomento fuori della sua

voce.

All'improvviso, dice lui. I compagni mi hanno contattato. Devono avere



deciso che sono più utile laggiù che qui. Comunque, dopo aver menato

senza fine il can per l'aia, all'improvviso muoiono dalla voglia di non avere

più a che fare con me. Una rogna di meno.

Sarai al sicuro, in viaggio? Pensavo...

Più sicuro che se rimanessi qui. Ma corre voce che nessuno mi cerchi

più con troppo accanimento. Ho la sensazione che anche la parte avversa-

ria voglia che me la batta. È meno complicato per loro in questo modo. Ma

non dirò a nessuno quale treno prenderò. Non mi interessa esserne buttato

giù con un buco in testa e un coltello nella schiena.

E quanto ad attraversare il confine? Hai sempre detto...

Adesso il confine è come carta velina, se cerchi di uscire, cioè. I tizi del-

la dogana sanno benissimo cosa succede, sanno che c'è un canale diretto da

qui a New York, e poi oltre oceano fino a Parigi. È tutto organizzato, e si

chiamano tutti Joe. Gli sbirri hanno ricevuto ordini in tal senso. Guardate

dall'altra parte, è stato detto loro. Sanno da che parte soffia il vento. Se ne

infischiano alla grande.

Vorrei poter venire con te, dice lei.

Dunque, ecco perché la cena fuori. Voleva darle la notizia da qualche

parte dove non potesse fare storie. Spera che non farà una scenata in pub-

blico. Piangendo, frignando, strappandosi i capelli. Ci conta.

Già. Piacerebbe anche a me, dice lui. Ma non puoi. È dura laggiù. Den-

tro di sé canta:

Temporale,

non hai scampo, la mia lampo

apro in un lampo...

Riprendi il controllo, dice a se stesso. Sente un'effervescenza in testa,

come ginger ale. Sangue spumeggiante. Gli sembra di volare - la guarda

dall'alto. Il suo bel viso angosciato ondeggia come un riflesso in una poz-

zanghera agitata; si sta già dissolvendo, e presto sarà in lacrime. Ma nono-

stante il suo dolore, non è mai stata così deliziosa. Uno scintillio morbido e

latteo la circonda; la carne del suo braccio, dove l'ha tenuta, è soda e tonda.

Gli piacerebbe afferrarla, trascinarla su nella sua stanza, scoparla alla

grande. Come se questo la facesse rimanere dov'è.

Ti aspetterò, dice lei. Quando ritornerai non farò altro che uscire dalla

porta, e poi potremo andarcene insieme.

Te ne andresti davvero? Lo lasceresti?

Sì. Per te lo farei. Se tu volessi. Lascerei tutto.

Schegge di luce al neon entrano dalla finestra sopra di loro, rosse, blu,

rosse. Lei lo immagina ferito; sarebbe un modo di non farlo andare via. Le

piacerebbe chiuso a chiave, legato, solo per lei.

Lascialo adesso, dice lui.

Adesso? Spalanca gli occhi. Subito? Perché?

Perché non sopporto che tu stia con lui. Non sopporto l'idea.

Non significa niente per me, dice lei.

Significa per me. Soprattutto dopo che me ne sarò andato, quando non

potrò vederti. Mi farà impazzire pensarci, davvero.

Ma non avrei un soldo, dice lei in una voce sorpresa. Dove vivrei? In

una stanza d'affitto, tutta da sola? Come te, pensa. Di cosa vivrei?

Potresti trovare un lavoro, dice lui fiaccamente. Potrei mandarti del de-

naro.


Tu non hai un soldo, non se ne parla neppure. E io non so fare niente.

Non so cucire, non so battere a macchina. C'è anche un'altra ragione, pen-

sa, ma non posso dirgliela.

Deve esserci un modo. Ma non insiste. Forse non sarebbe un'idea bril-

lante, farla vivere tutta sola. Là fuori nel mondo cattivo, dove ogni uomo

sulla faccia della terra potrebbe provarci. Se qualcosa fosse andata storta,

avrebbe dovuto prendersela solo con se stesso.

Credo che sia meglio che rimanga al mio posto, non credi? È la cosa mi-

gliore. Fino al tuo ritorno. Tornerai, non è vero? Tornerai sano e salvo?

Certo, dice lui.

Perché se così non fosse, non so cosa farei. Se venissi ucciso o qualcosa

del genere, andrei completamente a pezzi. Pensa: Sto parlando come in un

film. Ma come altro potrei parlare? Abbiamo dimenticato come.

Merda, pensa lui. Si sta agitando. Ora si metterà a piangere. Si metterà a

piangere e io starò seduto qui come un cretino, e una volta che le donne i-

niziano a piangere non c'è verso di farle smettere.

Forza, ti prendo il cappotto, dice lui tetro. Qui è uno schifo. Non abbia-

mo molto tempo. Torniamo nella stanza.

IX

Il bucato



Marzo, finalmente, e qualche avaro indizio di primavera. Gli alberi sono

ancora spogli, i germogli ancora duri, nei bozzoli, ma nei punti in cui batte

il sole la neve si scioglie. Gli escrementi dei cani si scongelano, quindi si

fanno molli, con il loro merletto ghiacciato ingiallito di pipì vecchia. Ven-

gono alla luce fette di prato, melmose e cosparse di rifiuti. Il limbo dev'es-

sere così.

Oggi a colazione ho mangiato qualcosa di diverso. Un nuovo tipo di

fiocchi di cereali portati da Myra per tirarmi su: lei crede a tutto quel che

dicono le scritte dietro le confezioni. I nostri fiocchi, dice questa in caratte-

ri semplici nei colori dei lecca-lecca, delle tute da jogging di soffice coto-

ne, non sono fatti con mais e frumento manipolati o di un tipo qualunque,

ma con cereali poco conosciuti dai nomi difficili da pronunciare - arcaici,

mistici. I loro semi sono stati riscoperti nelle tombe precolombiane e nelle

piramidi egizie; un dettaglio che ne garantisce l'autenticità, anche se non

troppo rassicurante, a pensarci bene. Questi fiocchi non solo ti raschiano a

fondo come una spazzola per piatti, essi mormorano di rinnovata vitalità,

di eterna giovinezza, di immortalità. Sul dietro della scatola si snoda come

un festone un elastico intestino rosa; sul davanti c'è una faccia musiva co-

lor giada senza occhi, nella quale i pubblicitari non hanno sicuramente

ravvisato una maschera funeraria azteca.

In onore di questi nuovi cereali mi sono costretta a sedermi come si deve

al tavolo della cucina, con tanto di posto apparecchiato e tovagliolo di car-

ta. Chi vive solo scivola nell'abitudine di mangiare in verticale: perché dar-

si la pena di tante minuzie, quando non c'è nessuno che possa dividerle con

te o criticarle? Ma la rilassatezza in un settore può condurre alla sciatteria

in tutto.

Ieri ho deciso di fare il bucato, per fare un dispetto a Dio lavorando di

domenica. Non che a lui importi granché di quale giorno della settimana

sia: in Paradiso, come nel subconscio - o almeno così ci viene detto - il

tempo non esiste. Ma in realtà volevo fare un dispetto a Myra. Non dovrei

rifare il letto, dice Myra; non dovrei portare pesanti ceste di vestiti sporchi

giù per i malsicuri gradini della cantina, dov'è sistemata la vecchia e frene-

tica lavatrice.

Chi fa il bucato di solito? Myra, è sottinteso. Visto che ci sono posso be-

nissimo far partire un carico, dice. Poi tutte e due fingiamo che non l'abbia

fatto lei. Siamo complici nella finzione - o in ciò che sta rapidamente di-

ventando tale - secondo cui posso provvedere a me stessa. Ma la tensione

del fingere sta cominciando a farsi sentire su di lei.

Le sta anche venendo il mal di schiena. Vuole trovare una donna, assu-

mere un'estranea ficcanaso, che venga e pensi a tutto. La sua scusa è la mia

salute. In qualche modo è venuta a conoscenza del mio cuore, del dottore,

dei suoi toccasana e delle sue profezie - suppongo dalla sua infermiera, una

rossa tinta che non chiude mai bocca. Questa città è un colabrodo.

Ho detto a Myra che quello che faccio con i miei panni sporchi è affar

mio: terrò lontana finché sarà possibile quella non meglio identificata don-

na. Quanto di questo è imbarazzo, da parte mia? Parecchio. Non voglio

nessun altro che curiosi nei miei difetti, nelle mie macchie e nei miei odo-

ri. Va bene che lo faccia Myra, perché io conosco lei e lei conosce me. So-

no la croce che deve portare: sono ciò che la rende così buona, agli occhi

degli altri. Tutto quello che deve fare è dire il mio nome e alzare gli occhi

al cielo, e l'indulgenza le viene accordata, se non dagli angeli, almeno dai

vicini, che sono maledettamente più difficili da accontentare.

Non fraintendermi. Non sto sputando sulla bontà del prossimo, che è

molto più difficile da spiegare della cattiveria, e altrettanto complicata. Ma

a volte è difficile da sopportare.

Avendo preso la mia decisione - e avendo previsto i belati di preoccupa-

zione di Myra nello scoprire il mucchio di asciugamani lavati e piegati, e il

mio compiaciuto sorrisetto di trionfo - mi sono accinta alla mia scappatella

con il bucato. Ho scavato nel contenitore della biancheria da lavare, evi-

tando per il rotto della cuffia di caderci dentro a testa in giù, e ho pescato

quello che pensavo di poter trasportare, evitando la nostalgia per gli indu-

menti intimi dei giorni andati. (Com'erano belli! Non si fanno più cose del

genere, non con bottoni rivestiti dello stesso tessuto, non cucite a mano. O

forse si fanno, ma io non le vedo mai, e comunque non potrei permetter-

mele, e non ci entrerei. Certe cose sono strette in vita).

Gettati i panni scelti nella cesta di plastica, mi sono avviata di traverso

giù per le scale, un gradino dopo l'altro, come Cappuccetto Rosso in viag-

gio verso la casa della Nonna attraverso l'oltretomba. Soltanto che sono io

la Nonna, e porto dentro di me il mio lupo cattivo. Che rode, rode senza

posa.


Il piano terra, fin qui tutto bene. Lungo il corridoio fino in cucina, poi

forza, l'interruttore della luce della cantina e l'immersione nervosa nell'u-

midità. Quasi all'improvviso è iniziata l'ansia. Luoghi di questa casa che

una volta avrei superato con facilità sono diventati infidi: le finestre a ghi-

gliottina sono sospese come trappole, pronte a cadermi sulle mani, la sca-

letta a sgabello minaccia di crollare, sui ripiani superiori delle scaffalature

sono piazzati a trabocchetto oggetti di vetro in equilibrio precario. A metà

della scala mi sono resa conto che non avrei dovuto provarci. La pendenza

era troppo ripida, le ombre troppo dense, l'odore troppo sinistro, come ce-

mento versato di fresco a nascondere uno sposo scaltramente avvelenato.

Sul pavimento in fondo si stendeva una pozza di oscurità, profonda e scin-


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