gnarla. Quella gente ruba qualunque cosa. Un anno fa ne ho sorpreso uno
con un barattolo di marmellata e una paletta, che grattava via la terra dalla
tomba.
Mi chiedo dove andrà a finire Sabrina. È l'ultima di noi. Presumo che sia
ancora a questo mondo: non mi sono giunte notizie in senso opposto. Ri-
mane da vedere con quale ramo della famiglia sceglierà di essere seppelli-
ta, o se si metterà in un angolo, lontana da tutti noi. Non la biasimerei.
La prima volta che è fuggita, a tredici anni, Winifred telefonò in preda a
una rabbia gelida, accusandomi di aiutarla e di essere sua complice, anche
se non si spinse al punto di parlare di rapimento. Voleva sapere se Sabrina
fosse venuta da me.
«Non credo di essere tenuta a dirtelo» dissi, per tormentarla. Quello che
è giusto è giusto; fino a quel momento quasi tutte le occasioni di tormenta-
re erano state sue. Aveva l'abitudine di rimandarmi cartoline, lettere e re-
gali di compleanno per Sabrina, con sopra scritto a stampatello Respinto al
mittente nella sua squadrata calligrafia da tiranna. «Comunque io sono sua
nonna. Può venire da me quando ne ha voglia. È sempre la benvenuta».
«Non devo certo ricordarti che sono la sua tutrice legittima».
«E allora perché lo stai facendo?»
Sabrina, tuttavia, non venne da me. Non lo fece mai. Non è difficile in-
dovinare il perché. Dio solo sa cosa le era stato detto sul mio conto. Niente
di buono.
La Button Factory
L'afa estiva è arrivata sul serio, adagiandosi sulla città come una zuppa.
Tempo da malaria, sarebbe stato una volta; tempo da colera. Gli alberi sot-
to ai quali cammino sono ombrelli avvizziti, la carta è umida sotto le mie
dita, le parole che scrivo sbavano ai bordi come rossetto su una bocca che
invecchia. Solo a salire le scale mi spuntano sottili baffi di sudore.
Non dovrei camminare con un caldo del genere, fa battere con più fatica
il mio cuore. Lo noto con malignità. Non dovrei sottoporlo a simili prove,
ora che sono stata informata dei suoi difetti; eppure provo un piacere per-
verso nel farlo, come se io fossi un bullo e lui un ragazzino piagnucoloso
di cui disprezzo la debolezza.
Le sere passate ci sono stati tuoni, un battere e un incespicare lontani,
come se Dio si abbandonasse a una tetra baldoria. Mi alzo per fare pipì,
torno a letto, mi rigiro tra le lenzuola umide, ascoltando il monotono ron-
zare del ventilatore. Myra dice che dovrei mettere l'aria condizionata, ma
io non la voglio. Non posso neanche permettermela. «Chi pagherebbe una
cosa del genere?» le dico. Deve credere che abbia un diamante nascosto
nella fronte, come i rospi delle favole.
Oggi la meta della mia camminata era la Button Factory, dove intendevo
prendere il caffè del mattino. Il dottore mi ha messo in guardia sul caffè,
ma lui ha solo cinquant'anni - fa jogging in pantaloncini, mettendo in mo-
stra le sue gambe pelose. Non è onnisciente, anche se questo gli suonereb-
be nuovo. Se non lo fa il caffè, sarà qualcos'altro a uccidermi.
Erie Street era languida di turisti, per la maggior parte di mezza età, che
ficcavano il naso nei negozi di souvenir, curiosavano nella libreria e bi-
ghellonavano, prima di ripartire dopo pranzo alla volta del vicino festival
teatrale estivo per qualche rilassante ora di tradimento, sadismo, adulterio
e assassinio. Alcuni di loro andavano nella mia stessa direzione - alla But-
ton Factory, per vedere quali curiosità pacchiane acquistare per commemo-
rare la loro vacanza di una notte dal Ventesimo secolo. Attirapolvere, a-
vrebbe definito Reenie certi oggetti. Avrebbe affibbiato lo stesso termine
anche ai turisti.
Camminavo nella loro compagnia color pastello verso il punto in cui E-
rie Street svolta in Mill Street e corre lungo il fiume Louveteau. Port Ti-
conderoga ha due fiumi, il Jogues e il Louveteau - i nomi sono reliquie
della stazione commerciale francese situata un tempo alla loro confluenza,
non che i francesi ci vadano troppo a genio da queste parti: per noi sono il
Jogs e il Lovetow. Il Louveteau con la sua corrente veloce costituì il ri-
chiamo per i primi mulini, poi per gli impianti elettrici. Il Jogues invece è
profondo e lento, navigabile per cinquanta chilometri a nord del lago Erie.
Lungo di esso veniva trasportato il calcare che diede vita alla prima in-
dustria della città, grazie agli enormi giacimenti lasciati dai mari interni via
via che si ritiravano. (Nel permiano, nel giurassico? - una volta lo sapevo).
La maggior parte delle case della città, compresa la mia, sono fatte di que-
sto calcare.
Le cave abbandonate sono ancora là nei sobborghi, profonde forme qua-
drate e oblunghe scavate nella roccia come se interi edifici ne fossero stati
sradicati, lasciandosi dietro le proprie sagome vuote. A volte immagino
l'intera città sorgere dalle acque poco profonde dell'oceano preistorico,
spiegandosi come un anemone di mare o come le dita di un guanto di
gomma quando ci soffi dentro - germogliando a scatti, come i fiori che si
schiudono in quelle pellicole marroni e granulose che una volta - quando
era? - proiettavano nei cinema prima dei film. I cercatori di fossili frugano
là fuori alla ricerca di pesci estinti, antiche felci, volute di corallo; e se gli
adolescenti vogliono fare baldoria, è là che vanno. Fanno falò, bevono
troppo, fumano droga e annaspano uno nei vestiti dell'altro come se fosse-
ro i primi al mondo a farlo, e tornando in città fracassano le macchine dei
genitori.
Il mio giardino sul retro confina con la Louveteau Gorge, una gola dove
il fiume si restringe e ha un brusco dislivello. Il salto è abbastanza ripido
da provocare una nebbiolina e un leggero spavento. Nei fine settimana e-
stivi i turisti passeggiano lungo il sentiero dalla parte dello strapiombo op-
pure si mettono proprio sull'orlo, a fare fotografie; vedo passare i loro in-
nocui e noiosi cappelli di tela bianca. Il precipizio si sgretola ed è pericolo-
so, ma la città non ha alcuna intenzione di spendere soldi per un recinto,
essendo tuttora opinione comune da queste parti che se fai una cosa danna-
tamente stupida ti meriti qualsiasi conseguenza. Le tazze di cartone del ne-
gozio di ciambelle si accumulano nei mulinelli sottostanti, e ogni tanto c'è
un cadavere, se di qualcuno caduto o spinto o saltato giù è difficile a dirsi,
a meno che naturalmente non ci sia un biglietto.
La Button Factory è situata sulla riva orientale del Louveteau, quattro-
cento metri a monte della gola. Per parecchi decenni è rimasta abbandona-
ta, con le finestre rotte e il tetto che faceva acqua, una sontuosa dimora per
topi e ubriachi; poi fu salvata dalla demolizione da un energico comitato di
cittadini, e convertita in negozi. Sono state ripiantate le aiuole, l'esterno
sottoposto a sabbiatura, i danni del tempo e del vandalismo riparati, sebbe-
ne attorno alle finestre più basse siano ancora visibili scuri sbaffi di fu-
liggine risalenti all'incendio di più di sessanta anni fa.
L'edificio è in mattoni di un rosso tendente al marrone, con i finestroni a
più vetri che si usavano una volta nelle fabbriche per risparmiare sulla lu-
ce. È piuttosto aggraziata, per essere una fabbrica: decorazioni a festoni,
ognuna con una rosa di pietra nel mezzo, finestre a timpano, un tetto a
mansarda di ardesia verde e viola. Annesso c'è un piccolo parcheggio. Un
Benvenuto ai Visitatori della Button Factory, dice il cartello, in caratteri da
circo vecchio stile; e in lettere più piccole: Vietato Parcheggiare Durante la
Notte. E sotto, scarabocchiato in una calligrafia rabbiosa con un pennarello
nero: Non sei Dio e la Terra non è il tuo parcheggio del cazzo. L'autentico
tocco locale.
L'ingresso principale è stato allargato, installata una rampa per i disabili,
le pesanti porte originali sostituite da porte a vetri: Entrata e Uscita, Spin-
gere e Tirare, l'imperiosa combinazione di quattro elementi del Ventesimo
secolo. Dentro risuona la musica, violini da area rurale, l'un-due-tre di
qualche valzer brioso, afflitto. C'è un lucernario che sovrasta uno spazio
centrale pavimentato in finti ciottoli, con panchine da giardino verniciate
di fresco in verde e fioriere contenenti pochi arbusti scontenti. I vari negozi
sono sistemati tutt'intorno: un effetto da centro commerciale.
Le nude pareti di mattoni sono ornate da enormi ingrandimenti di vec-
chie foto tratte dagli archivi cittadini. Sono preceduti da una citazione di
giornale - un quotidiano di Montreal, non locale - con la data, 1899:
Non bisogna immaginare gli stabilimenti tetri e disumani della
Vecchia Inghilterra. Le fabbriche di Port Ticonderoga sono situate
in mezzo a una rigogliosa vegetazione ravvivata da allegri fiori, e
addolcite dal suono delle correnti impetuose; sono pulite e ben
ventilate, gli operai di buonumore ed efficienti. Al tramonto, dal
nuovo, aggraziato Jubilee Bridge, che si curva come un arcobale-
no di merletto di ferro battuto sulle ribollenti cascate del fiume
Louveteau, si ammira un incantevole paesaggio fiabesco, mentre
le luci della fabbrica di bottoni Chase si accendono tremolando e
si riflettono nelle acque scintillanti.
Questo non era del tutto falso, al tempo in cui fu scritto. Almeno per un
breve periodo qui ci fu prosperità, abbastanza per tutti.
Subito dopo viene mio nonno, in redingote, cappello a cilindro e basette
bianche, che aspetta insieme a un gruppetto di dignitari ugualmente tirati a
lucido di accogliere il duca di York durante il suo giro in Canada del 1901.
Poi mio padre con una ghirlanda, davanti al Monumento ai Caduti in occa-
sione della sua intitolazione - un uomo alto, dal volto austero, con i baffi e
una benda sull'occhio; a guardare più da vicino, una collezione di puntini
neri. Mi allontano per vedere di metterlo a fuoco - cerco di cogliere il suo
occhio buono - ma non guarda verso di me; guarda l'orizzonte, con la
schiena dritta e le spalle all'indietro, quasi fosse di fronte al plotone di ese-
cuzione. Gagliardo, si direbbe.
Poi una fotografia della fabbrica di bottoni nel 1911, dice la didascalia.
Macchine con bracci sferraglianti simili a zampe di cavalletta, ingranaggi
di acciaio e ruote dentate, pistoni che martellano su e giù, perforando le
sagome; lunghi tavoli con le loro file di operai chinati in avanti, intenti ad
armeggiare con le mani. Le macchine sono governate da uomini con ma-
schere protettive e maglie, le maniche rimboccate; quelle ai tavoli sono
donne, con acconciature all'insù e grembiuli. Erano le donne che contava-
no i bottoni e li inscatolavano, oppure li cucivano su cartoncini con sopra
stampato il nome Chase, sei, otto o dodici bottoni per cartoncino.
In fondo allo spazio aperto pavimentato di ciottoli c'è un bar, il Whole
Enchilada, con musica dal vivo il sabato e birra che a quanto si dice pro-
viene da piccole fabbriche locali. L'arredamento è costituito da piani di le-
gno appoggiati su botti, con séparé di pino vecchio stile lungo uno dei lati.
Sul menù esposto in vetrina - non sono mai entrata - compaiono cibi che
mi suonano esotici: medaglioni con formaggio serviti su fette di pane, buc-
ce di patate farcite, nachos. Gli alimenti base impregnati di grasso della
gioventù meno rispettabile, o almeno così mi ha detto Myra. Lei ha un po-
sto in prima fila proprio alla porta accanto, e qualunque cosa accada al
Whole EnchiJada, non se lo lascia mai scappare. Dice che là va a mangiare
un protettore, e anche uno spacciatore di droga, tutti e due in pieno giorno.
Me li ha indicati, con sussurri di estrema eccitazione. Il protettore indossa-
va un vestito a tre pezzi e aveva l'aria di un agente di borsa. Lo spacciatore
aveva baffi grigi e un abito in jeans, come un organizzatore sindacale d'al-
tri tempi.
Il negozio di Myra è la Gingerbread House, regali e oggetti da collezio-
ne. Ha un profumo dolce e speziato - qualche tipo di spray per ambienti al-
la cannella - e offre un'infinità di cose: vasetti di marmellata con coperchi
rivestiti di cotone stampato, cuscini a forma di cuore pieni di erbe essiccate
che profumano di fieno, scatole munite di rozzi cardini intagliate da «arti-
giani tradizionali», trapunte a quanto si sostiene cucite dai mennoniti,
spazzole da toletta con teste di anatre ammiccanti. Insomma, l'idea che
Myra ha dell'idea che la gente di città ha della vita di campagna, della vita
dei loro rustici antenati delle cittadine di provincia - un pezzo di storia da
portarsi a casa. La storia, per come me la ricordo, non è mai stata così ac-
cattivante, e soprattutto così pulita, ma quella vera non venderebbe mai: la
maggior parte della gente preferisce un passato in cui non c'è nulla che
puzzi.
A Myra piace farmi regali dalla sua riserva di tesori. In altre parole, gra-
zie a me si libera degli articoli che la gente non comprerà mai al suo nego-
zio. Possiedo una ghirlanda di ramoscelli sbilenca, un servizio incompleto
di portatovaglioli con sopra degli ananas, un'obesa candela che sembra
profumata al cherosene. Per il mio compleanno mi ha regalato un paio di
guanti da forno a forma di chele di aragosta. Sono sicura che da parte sua
volesse essere un pensiero gentile.
O forse cerca di ammorbidirmi: lei è battista, e vorrebbe che trovassi
Gesù, o viceversa, prima che sia troppo tardi. Questo genere di cose non
andavano per la maggiore nella sua famiglia; sua madre Reenie non si inte-
ressava granché a Dio. C'era rispetto reciproco, e se si era nei guai si pote-
va naturalmente fare ricorso a Lui, come con gli avvocati; ma come con gli
avvocati doveva trattarsi di guai seri. Altrimenti non valeva la pena fre-
quentarlo troppo. Certamente lei non lo voleva nella sua cucina, dal mo-
mento che aveva già abbastanza cose a cui pensare.
Dopo una breve riflessione, al Cookie Gremlin ho comprato un biscotto
- farina d'avena e scaglie di cioccolato - e un caffè in una tazza di polistiro-
lo, quindi mi sono seduta su una delle panchine da giardino, sorseggiando
il caffè e leccandomi le dita, facendo riposare i piedi, ascoltando la musica
registrata con il suo suono cadenzato e lugubre di corde pizzicate.
Fu mio nonno Benjamin a costruire la fabbrica di bottoni, nei primi anni
Settanta dell'Ottocento. C'era richiesta di bottoni, per il vestiario e per tutto
quanto era legato a esso - la popolazione del continente si stava espanden-
do a ritmo vertiginoso - e i bottoni potevano essere fabbricati a buon prez-
zo e venduti a un prezzo altrettanto buono; questo (diceva Reenie) era pro-
prio quello che ci voleva per mio nonno, che aveva intravisto quell'oppor-
tunità e usato il cervello che Dio gli aveva dato.
I suoi antenati erano venuti dalla Pennsylvania negli anni Venti per ap-
profittare della terra a buon mercato e della possibilità di costruire - la città
era andata bruciata durante la guerra del 1812 ed era prevista una notevole
opera di ricostruzione. Era gente un po' tedesca e settaria, incrociata con
puritani di settima generazione - una miscela industriosa ma fanatica che
produsse, oltre alla consueta messe di agricoltori virtuosi e ottusi, tre pre-
dicatori itineranti, due inetti speculatori terrieri e un piccolo malversatore -
avventurieri con una vena visionaria e un occhio all'orizzonte. In mio non-
no tutto ciò si manifestò sotto forma di un'inclinazione alle scommesse,
sebbene l'unica cosa su cui scommise in vita sua fosse se stesso.
Suo padre possedeva uno dei primi mulini di Port Ticonderoga, un mo-
desto mulino per frumento, al tempo in cui tutto funzionava ad acqua.
Quando era morto per un colpo apoplettico, come si diceva allora, mio
nonno aveva ventisei anni. Ereditato il mulino, chiese in prestito del dena-
ro e importò i macchinari per fabbricare i bottoni dagli Stati Uniti. I primi
bottoni erano fatti di legno e osso, quelli più ricercati di corna di mucca.
Questi ultimi due materiali si potevano ottenere quasi per niente da parec-
chi mattatoi nelle vicinanze, e quanto al legno ce n'era in tutta la zona cir-
costante, riempiva il paese, e la gente lo bruciava solo per disfarsene. Con
materie prime a basso costo, manodopera a basso costo e un mercato in e-
spansione, come avrebbe potuto non fare fortuna?
Quelli che venivano fuori dall'azienda di mio nonno non erano il tipo di
bottoni che preferivo da ragazza. Dei piccoli bottoni di madreperla, o di
quelli in cuoio bianco per i guanti delle signore, neanche a parlarne. I bot-
toni di famiglia stavano ai bottoni come le soprascarpe di gomma stavano
alle calzature - bottoni monotoni, pratici, per cappotti, tute e camicie da la-
voro, davano un'impressione di robustezza, quasi di rozzezza. Si poteva
immaginarli sulla biancheria intima lunga, a tenere su il lembo di dietro, e
sulle patte dei pantaloni da uomo. Le cose che nascondevano dovevano es-
sere pendule, vulnerabili, vergognose, ineluttabili - la categoria di oggetti
di cui il mondo ha bisogno ma disprezza.
Difficile capire quanto fascino avrebbero potuto esercitare le nipoti di un
uomo che fabbricava bottoni del genere, non fosse stato per il denaro. Ma
il denaro o perfino le voci su di esso proiettano sempre una luce per così
dire abbagliante, perciò io e Laura crescemmo circondate da una certa at-
mosfera. E a Port Ticonderoga nessuno pensava che i bottoni di famiglia
fossero buffi o spregevoli. Là erano presi sul serio: il lavoro di troppa gen-
te dipendeva da essi, perché potesse essere altrimenti.
Nel corso degli anni mio nonno comprò altri mulini e trasformò anch'es-
si in fabbriche. Aveva una fabbrica di maglieria per i completi e le ma-
gliette intime e un'altra per le calze, e uno stabilimento che produceva pic-
coli oggetti di ceramica come portacenere. Andava orgoglioso delle condi-
zioni di lavoro nelle sue fabbriche: ascoltava le lamentele di chiunque fos-
se abbastanza coraggioso da presentarle, e si doleva dei torti quando gli
venivano riferiti. Continuava a introdurre miglioramenti tecnici, anzi mi-
glioramenti di tutti i tipi. Fu il primo proprietario di fabbriche della città ad
adottare l'illuminazione elettrica. Pensò che le aiuole di fiori facessero be-
ne al morale degli operai - aveva sempre pronta una riserva di zinnie e
bocche di leone, dal momento che erano economiche, appariscenti e dura-
vano a lungo. Dichiarò che le condizioni delle donne nella sua impresa e-
rano sicure come nei loro stessi salotti. (Presumeva che avessero dei salot-
ti. Presumeva che quei salotti fossero sicuri. Gli piaceva avere una buona
opinione di tutti). Rifiutò di tollerare l'ubriachezza sul lavoro, o il linguag-
gio osceno, o i comportamenti dissoluti.
O almeno questo è quanto si dice di lui nel volume Le Industrie Chase:
una storia, che mio nonno commissionò nel 1903 e fece stampare privata-
mente, con una rilegatura in pelle verde e non solo il titolo, ma anche la
sua firma semplice e pesante goffrati in oro sulla copertina. Aveva l'abitu-
dine di regalare copie di questa inutile cronaca ai suoi soci in affari, che
probabilmente ne rimanevano sorpresi, ma forse no. Doveva essere consi-
derata una cosa appropriata da farsi, perché in caso contrario mia nonna
Adelia non gliela avrebbe permessa.
Stavo seduta sulla panchina da giardino, a mordicchiare il mio biscotto.
Era enorme, le dimensioni di uno sterco di vacca, come li fanno adesso -
insipidi, friabili, unti - e sembrava proprio che non ce l'avrei fatta a man-
giarlo tutto. Non era la cosa più adatta, con un simile caldo. Avevo anche
un po' di vertigini, forse dovute al caffè.
Ho appoggiato la tazza accanto a me e il bastone è caduto ru-
morosamente dalla panchina sul pavimento. Mi sono piegata di lato, ma
senza riuscire a raggiungerlo. Poi ho perso l'equilibrio e ho urtato il caffè,
rovesciandolo. Lo sentivo, tiepido, attraverso il tessuto della gonna. Al
momento di alzarmi avrei esibito una macchia marrone, come se fossi stata
incontinente. Questo avrebbe pensato la gente.
Perché in certi momenti crediamo che gli sguardi di tutti siano puntati su
di noi? Di solito non ci guarda nessuno. Ma Myra mi stava guardando.
Doveva avermi vista entrare; doveva avermi tenuto d'occhio. È uscita di
corsa dal negozio. «Sei bianca come un lenzuolo! Hai un'aria esausta» ha
detto. «Intanto asciughiamoci un po'! Anima benedetta, hai fatto tutta la
strada fino qui a piedi? Non puoi camminare anche al ritorno! Meglio che
chiami Walter - ti porterà lui a casa».
«Posso farcela» le ho detto. «Non ho niente». Ma l'ho lasciata fare.
Avilion
Le ossa mi hanno dato di nuovo noia, come succede spesso quando c'è
umidità. Fanno male come la storia: cose finite da un pezzo, che continua-
no a farsi sentire sotto forma di dolore. Quando il dolore è abbastanza forte
mi impedisce di dormire. Ogni notte desidero ardentemente addormentar-
mi, mi sforzo di farlo; ma il sonno fluttua sopra la mia testa come una ten-
da fuligginosa. Ci sono le pillole per dormire, naturalmente, ma il dottore
mi ha messo in guardia contro di esse.
La notte scorsa, dopo quelle che mi sono sembrate ore di umida agita-
zione, mi sono alzata e sono scivolata al piano di sotto senza pantofole,
avanzando a tentoni al debole chiarore delle luci della strada che filtravano
dalla finestra sulle scale. Una volta arrivata sana e salva in fondo, mi sono
trascinata in cucina e ho curiosato nel nebuloso bagliore del frigorifero.
Non c'era quasi niente che avessi voglia di mangiare: resti inzaccherati di
un ciuffo di sedano, un cantuccio di pane bluastro, un limone che stava av-
vizzendo. Un avanzo di formaggio avvolto in una carta unta, duro e traslu-
cido come le unghie dei piedi. Ho contratto le abitudini di chi vive solo; i
miei pasti sono tirati via e casuali. Spuntini furtivi, baldorie furtive e picnic
furtivi. Mi sono accontentata di un po' di burro di arachidi, preso diretta-
mente dal vasetto con l'indice: perché sporcare un cucchiaio?
Standomene là con il vasetto in mano e il dito in bocca, avevo la sensa-
zione che qualcuno fosse sul punto di entrare nella stanza - un'altra donna,
l'invisibile, legittima padrona di casa - e di chiedermi cosa diavolo stessi
facendo nella sua cucina. L'avevo già avuta, l'impressione che perfino nel
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