Margaret atwood



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biblioteca. Laura pensò che avessi detto leccare. Ed era vero, il pendolo di

ottone che dondolava avanti e indietro sembrava una lingua che leccasse le

labbra di una bocca invisibile. Divorando il tempo.

Venne l'autunno. Io e Laura raccoglievamo i baccelli dell'albero della se-

ta e li aprivamo, per sentire i semi a forma di scaglia sovrapposti l'uno al-

l'altro, come la pelle di un drago. Li tiravamo fuori e li sparpagliavamo sui

loro leggeri paracadute, liberando il peduncolo di un giallo marroncino

come il cuoio, soffice come la parte interna di un gomito. Poi andavamo al

Jubilee Bridge e gettavamo i baccelli in acqua per vedere quanto a lungo

avrebbero galleggiato prima di capovolgersi o essere trascinati via. Imma-

ginavamo che contenessero delle persone, o magari una sola? Non ne sono

sicura. Ma c'era una certa soddisfazione nel vederli andare sotto.

Venne l'inverno. Il cielo era grigio pallido, il sole basso nel cielo, di uno

smorto colore rosato, come sangue di pesce. I ghiaccioli, pesanti, opachi e

spessi quanto un polso, pendevano gocciolando dal tetto e dai davanzali,

quasi bloccati nell'atto di cadere. Li spezzavamo e ne succhiavamo la pun-

ta. Reenie ci diceva che in quel modo le lingue ci sarebbero diventate nere

e sarebbero cadute, ma sapevo che era falso, avendolo già fatto prima.

A quel tempo Avilion aveva una rimessa per le barche e un deposito del

ghiaccio, accanto all'imbarcadero. Nella rimessa c'era la vecchia barca a

vela del nonno, ora di mio padre - l'Ondina, malridotta e messa a letto per

l'inverno. Nel deposito del ghiaccio c'era il ghiaccio, che era quello del

fiume Jogues, spaccato, trainato in blocchi da cavalli e immagazzinato là

dentro cosparso di segatura, in attesa dell'estate, quando sarebbe stato raro.

Io e Laura uscivamo sull'imbarcadero scivoloso, dove ci era proibito an-

dare. Reenie diceva che se fossimo cadute e finite sotto il ghiaccio non a-

vremmo resistito neanche un istante, perché l'acqua era fredda come la

morte. Avrebbe riempito i nostri stivali e saremmo andate a fondo come

pietre. Gettavamo pietre per vedere che fine avrebbero fatto; volavano sul

ghiaccio e restavano là, in vista. Il nostro respiro si trasformava in fumo

bianco; lo soffiavamo fuori in nuvolette, come treni, appoggiandoci ora su

un piede gelato ora sull'altro. Sotto le suole degli stivali la neve scricchio-

lava. Giungevamo le mani nelle manopole gelate e le tenevamo ben strette,

in modo che dopo averle sfilate rimanessero due mani di lana aggrappate

l'una all'altra, vuote e blu.

In fondo alle rapide del Louveteau pezzi di ghiaccio frastagliato si erano

ammucchiati l'uno contro l'altro. Il ghiaccio era bianco a mezzogiorno,

verde chiaro al crepuscolo; i pezzi più piccoli producevano un suono tin-

tinnante, come di campane. Nel centro del fiume l'acqua scorreva libera e

nera. I bambini gridavano dall'altura sull'altra sponda, nascosti dagli alberi,

le loro voci alte, deboli e felici nell'aria fredda. Andavano sugli slittini, co-

sa che a noi era vietata. Io pensavo di camminare sul ghiaccio frastagliato

a riva, per vedere quanto fosse solido.

Venne la primavera. I rami dei salici diventarono gialli, le sanguinelle

rosse. Il Louveteau era in piena; cespugli e alberi strappati dalle radici vor-

ticavano e si impigliavano. Una donna si buttò nelle rapide dal Jubilee

Bridge e per due giorni il suo corpo non venne trovato. Fu ripescato a val-

le, e non era certo un bello spettacolo, perché andare giù per quelle rapide

era come passare attraverso un tritacarne. Non è certo il modo migliore per

lasciare questa terra, disse Reenie - non se si era interessati al proprio a-

spetto, anche se è molto probabile che in un momento del genere nessuno

lo sia.

La signora Hillcoate aveva saputo di una mezza dozzina di persone che



avevano fatto quel salto, nel corso degli anni. Ne aveva letto sul giornale.

Una di loro era una ragazza con cui andava a scuola, che aveva sposato un

operaio delle ferrovie. Lui era spesso via, disse, perciò cosa ci si poteva

aspettare? «Incinta» aggiunse. «E senza scusanti». Reenie annuì, come se

questo spiegasse ogni cosa.

«Per quanto un uomo possa essere stupido, la maggior parte di loro sa

contare» disse, «almeno sulle dita. Scommetto che i pugni sui denti si

sprecarono. Ma non ha senso chiudere la stalla una volta che sono usciti i

buoi».

«Che buoi?» chiese Laura.



«Deve avere avuto anche guai di altro tipo» disse la signora Hillcoate.

«Se hai dei guai, niente di più facile che non ne abbia di un solo genere».

«Che vuol dire in cinta?» mi sussurrò Laura. «Quale cinta?» Ma io non

lo sapevo.

Oltre che saltare giù, disse Reenie, alle donne piace anche entrare nel

fiume controcorrente e poi essere risucchiate sotto la superficie dal peso

dei loro vestiti bagnati, in modo da non poter nuotare e mettersi in salvo

neanche volendo. Gli uomini erano più determinati. Si impiccavano alle

traverse dei loro fienili, oppure si facevano saltare le cervella con i loro fu-

cili; oppure, se volevano annegarsi, si legavano addosso dei sassi, o altri

oggetti pesanti - teste di scure, sacchetti di chiodi. A loro non piaceva ri-

schiare su una cosa tanto seria. Ma era tipicamente femminile entrare nel

fiume così, rassegnarsi e farsi afferrare dalle acque. Dal tono di Reenie era

difficile dire se approvasse o meno quelle differenze.

In giugno compii dieci anni. Reenie fece una torta, anche se disse che

forse non sarebbe stato il caso, era passato troppo poco tempo dalla morte

della mamma, ma in fondo la vita doveva continuare, perciò forse la torta

non avrebbe fatto male. Fatto male a cosa? chiese Laura. Ai sentimenti

della mamma, dissi io. Allora la mamma ci stava guardando dal Paradiso?

Ma a quel punto mi feci tronfia e ostinata, e non volli dirlo. Laura non toc-

cò la torta, non dopo quell'accenno ai sentimenti di nostra madre, perciò

mangiai tutte e due le nostre porzioni.

Ora ho dovuto fare uno sforzo per ricordare i dettagli del mio dolore - le

esatte forme che assunse -, sebbene volendo potrei evocarne un'eco, come

un cagnolino che uggioli chiuso in cantina. Cosa avevo fatto il giorno in

cui la mamma era morta? Potevo rammentarlo a stento, come il suo vero

aspetto: adesso era solo quello delle fotografie. Ricordavo come mi era ap-

parso strano il suo letto, quando di punto in bianco lei non era più lì: co-

m'era sembrato vuoto. Il modo in cui la luce pomeridiana entrava obli-

quamente attraverso la finestra e cadeva in silenzio sul pavimento di legno

duro, i granellini di polvere che vi fluttuavano come foschia. L'odore di lu-

cido per mobili alla cera d'api e di crisantemi appassiti, e l'aroma di padella

e di disinfettante che vi aleggiava. Ormai potevo ricordare la sua assenza

molto meglio della sua presenza.

Reenie disse alla signora Hillcoate che sebbene nessuno avrebbe mai po-

tuto prendere il posto della signora Chase, che era stata una santa in terra,

ammesso che una cosa del genere esista, da parte sua lei aveva fatto del

suo meglio e aveva mantenuto un atteggiamento allegro nel nostro interes-

se, perché meno si dice e meglio è, e fortunatamente sembrava che stessi-

mo superando la cosa, anche se le acque chete rovinano i ponti e tutta la

mia calma non mi avrebbe certo giovato. Ero un tipo che rimuginava, dis-

se; prima o poi sarei esplosa. Quanto a Laura, non si poteva dire, perché

comunque era sempre stata una bambina strana.

Reenie disse che stavamo troppo insieme. Disse che Laura stava impa-

rando atteggiamenti che erano troppo da grande per lei, mentre io restavo

indietro. Ognuna di noi doveva stare con bambini della sua età, ma i pochi

bambini della città che avrebbero fatto al caso nostro erano stati già man-

dati a scuola - nelle scuole private come quelle in cui, a dire la verità, a-

vremmo dovuto essere spedite anche noi, ma sembrava che il Capitano

Chase non trovasse mai il tempo per organizzare la cosa, e comunque a-

vrebbe comportato troppi cambiamenti tutti in una volta, e sebbene io fossi

fredda come un cetriolo e avrei saputo senz'altro cavarmela, Laura era pic-

cola per la sua età e, a dire la verità, troppo piccola nel complesso. Era an-

che troppo nervosa. Era il tipo che si faceva prendere dal panico e si dime-

nava e annegava in venti centimetri d'acqua, perché perdeva la testa.

Laura e io sedevamo sulla scala di servizio con la porta socchiusa, le

mani sulla bocca per trattenerci dal ridere. Ci godevamo i piaceri dello

spionaggio. Ma non fece bene a nessuna delle due sentire casualmente

quelle cose sul nostro conto.

Il soldato stanco

Oggi ho camminato fino alla banca - presto, per evitare il caldo peggio-

re, ma anche per essere lì all'apertura. In tal modo potevo essere sicura di

attirare l'attenzione di qualcuno, cosa di cui avevo bisogno perché era stato

fatto un altro errore sul mio estratto conto. Sono ancora in grado di fare

addizioni e sottrazioni, dico loro, a differenza di quelle vostre macchine, e

loro mi sorridono come camerieri, del tipo che ti sputa nella minestra in

cucina. Chiedo sempre di vedere il direttore, il direttore è sempre «in riu-

nione», vengo sempre dirottata su un elfo ammiccante e condiscendente

che odora ancora di latte e si vede già come un futuro plutocrate.

Là mi sento disprezzata perché ho così poco denaro; e anche perché una

volta ne avevo tanto. Naturalmente, non l'ho mai avuto davvero. Lo aveva

mio padre, e poi Richard. Ma il denaro mi veniva attribuito, nello stesso

modo in cui i crimini vengono attribuiti a coloro che vi hanno soltanto as-

sistito.


La banca ha colonne romane, per ricordarci di dare a Cesare quel che è

di Cesare, come queste ridicole spese accessorie. Terrei per niente il mio

denaro in una calza sotto il materasso, giusto per fare loro dispetto. Ma la

voce girerebbe, credo - la voce che sono diventata una vecchia pazza ec-

centrica, di quelle che si trovano morte in una baracca ingombra di centi-

naia di scatolette di cibo per gatti vuote, con un paio di milioni di dollari

nascosti in biglietti da cinque tra le pagine di giornali che si vanno ingial-

lendo. Non ho alcun desiderio di diventare oggetto delle attenzioni dei

drogati e dei topi d'appartamento dilettanti del luogo, con i loro occhi iniet-

tati di sangue e le loro dita nervose.

Tornando dalla banca ho fatto un giro dalle parti del Municipio, con il

suo campanile in stile italiano e la sua costruzione di mattoni a due colori

in stile fiorentino, la sua asta della bandiera che ha bisogno di una mano di

vernice e il suo cannone da campo presente alla Somme. E anche le sue

due statue di bronzo, entrambe commissionate dalla famiglia Chase. Quel-

la a destra, commissionata da mia nonna Adelia, rappresenta il Colonnello

Parkman, un veterano dell'ultima decisiva battaglia combattuta nella Rivo-

luzione Americana, quella di Fort Ticonderoga, ora nello stato di New

York. Ogni tanto vediamo aggirarsi in città qualche tedesco o qualche in-

glese confuso, o perfino qualche americano, alla ricerca del campo di bat-

taglia di Fort Ticonderoga. È la città sbagliata, viene detto loro. A pensar-

ci bene, è anche il Paese sbagliato. Voi cercate quello che viene subito

dopo.

Fu il Colonnello Parkman a togliere le tende, a varcare il confine e a da-



re il nome alla nostra città, commemorando così in maniera perversa una

battaglia che aveva perduto. (Anche se forse non è poi così strano: molta

gente nutre un premuroso interesse per le proprie cicatrici). È ritratto a ca-

vallo mentre brandisce la spada e si accinge a galoppare nella vicina aiuola

di petunie: un uomo rude con gli occhi induriti e la barba a punta, l'imma-

gine che ogni scultore ha di un comandante di cavalleria. Nessuno sa quale

fosse il vero aspetto del Colonnello Parkman, dal momento che non lasciò

nessuna testimonianza pittorica di se stesso e la statua non fu eretta che nel

1885, ma ormai il suo aspetto è questo. Tale è la tirannia dell'Arte.

Sul lato sinistro del prato, anch'esso con un'aiuola di petunie, c'è una fi-

gura altrettanto mitica: il Soldato Stanco, con gli ultimi tre bottoni della

camicia slacciati, il collo piegato come sotto l'ascia del boia, l'uniforme

sgualcita, l'elmetto di traverso, curvo sul suo fucile Ross difettoso. Per

sempre giovane, per sempre esausto, sovrasta il Monumento ai Caduti, la

pelle che brucia verde al sole, gli escrementi di piccione che gli colano sul

viso come lacrime.

Il Soldato Stanco fu un progetto di mio padre. La scultrice fu Callista Fi-

tzsimmons, vivamente raccomandata da Frances Loring, che presiedeva il

Comitato per i Monumenti ai Caduti della Società degli Artisti dell'Onta-

no. Ci fu qualche opposizione locale alla signorina Fitzsimmons - una don-

na non era considerata adeguata al soggetto -, ma mio padre travolse la

riunione dei potenziali finanziatori: la signorina Loring non era anche lei

una donna? domandò. In tal modo provocò parecchi commenti irriverenti,

il più pulito dei quali fu Chi può dirlo? In privato, disse che è chi paga il

pifferaio a scegliere la musica, e siccome tutti loro erano dei tremendi spi-

lorci avrebbero fatto meglio a frugarsi nelle tasche o a gettare la spugna.

La signorina Fitzsimmons non era solo una donna, aveva anche ventotto

anni e i capelli rossi. Cominciò a venire ad Avilion spesso, per consultarsi

con mio padre sul disegno presentato. Queste sedute avevano luogo nella

biblioteca, all'inizio con la porta aperta e poi non più. Fu sistemata in una

delle stanze degli ospiti, all'inizio in quella meno bella, poi nella migliore.

Ben presto era là quasi ogni fine settimana, e la sua stanza divenne la

«sua» stanza.

Mio padre sembrava più felice; di sicuro beveva di meno. Fece risiste-

mare i giardini, almeno quel tanto che bastava per renderli presentabili; fe-

ce ricoprire nuovamente di ghiaia il viale; fece raschiare, verniciare e ripa-

rare l'Ondina. A volte durante i fine settimana avevano luogo feste infor-

mali, i cui ospiti erano gli amici artisti di Callista, che arrivavano da To-

ronto. Questi artisti, tra cui non figuravano nomi che oggi possano suonare

familiari, non portavano smoking o vestiti per la cena, ma maglioni con la

scollatura a V; mangiavano pasti improvvisati sul prato e discutevano degli

argomenti più elevati dell'Arte e fumavano e bevevano e parlavano. Le ra-

gazze usavano troppi asciugamani in bagno, senza dubbio perché non ave-

vano mai visto l'interno di una vera vasca prima d'allora, era la teoria di

Reenie. Inoltre avevano le unghie sporche e smangiucchiate.

Quando non c'erano feste, mio padre e Callista andavano a fare picnic

con una delle auto - la spider, non la berlina -, portandosi un cestino riem-

pito in modo parsimonioso da Reenie. Oppure andavano in barca, Callista

in pantaloni, con le mani in tasca come Coco Chanel e una vecchia maglia

a girocollo di papà. A volte arrivavano fino a Windsor, e si fermavano nei

posti di ristoro lungo la strada, che offrivano cocktail e atroci esecuzioni al

piano e balli sfrenati - posti frequentati dai malviventi coinvolti nel con-

trabbando di alcolici, che venivano da Chicago e Detroit a fare i loro affari

con i distillatori legali di parte canadese. (A quel tempo negli Stati Uniti

c'era il proibizionismo; il liquore scorreva attraverso il confine come acqua

molto costosa; cadaveri con i polpastrelli tagliati e le tasche vuote veniva-

no gettati nel fiume Detroit e finivano sulle rive del lago Erie, provocando

dispute su chi avrebbe dovuto sobbarcarsi la spesa della sepoltura). In que-

ste gite papà e Callista rimanevano fuori tutta la notte, e a volte per più

notti. Una volta andarono alle cascate del Niagara, suscitando l'invidia di

Reenie, e una volta a Buffalo; ma a Buffalo ci andarono in treno.

Ricevevamo questi dettagli da Callista, che non era avara nel fornirli. Ci

disse che papà aveva bisogno di essere «stimolato», e che questi stimoli gli

facevano bene. Disse che aveva bisogno di lasciarsi andare, per mescolarsi

di più alla vita. Disse che lei e papà erano «grandi amici». Cominciò a

chiamarci «le bambine»; disse che potevamo chiamarla «Callie».

(Laura volle sapere se anche papà ballava, in quei locali; era difficile da

immaginare, per via della gamba rovinata. Callista disse di no, ma che si

divertiva a guardare. Io ne dubitavo. Non è mai un gran divertimento guar-

dare gli altri ballare, se tu non puoi farlo).

Io avevo soggezione di Callista perché era un'artista, e veniva interpella-

ta come un uomo, e poi andava in giro e stringeva la mano come un uomo,

e fumava sigarette in un corto bocchino nero, e sapeva chi era Coco Cha-

nel. Aveva i buchi alle orecchie, e i suoi capelli rossi (tinti con l'henné, ora

me ne rendo conto) erano avvolti in foulard. Indossava morbidi abiti simili

a vestaglie con audaci ghirigori: fucsia, eliotropio, zafferano, erano i nomi

dei colori. Mi disse che quei disegni venivano da Parigi ed erano ispirati

dai rifugiati politici russi bianchi. Mi spiegò chi fossero. Era prodiga di

spiegazioni.

«È una delle sue puttanelle» disse Reenie alla signora Hillcoate. «Sol-

tanto l'ennesima della serie, e il Signore sa se fosse già abbastanza lunga,

ma c'era da credere che avrebbe avuto la decenza di non portarla sotto lo

stesso tetto, lei non è ancora fredda nella tomba, sembra quasi che l'abbia

fatta morire lui».

«Cos'è una puttanella?» chiese Laura.

«Pensa ai fatti tuoi» disse Reenie. Il fatto che continuasse a parlare an-

che se io e Laura eravamo in cucina dimostrava quanto fosse arrabbiata.

(In seguito spiegai a Laura che cos'era una puttanella: era una ragazza che

masticava gomma. Ma Callie Fitzsimmons non lo faceva).

«I piccoli vasi hanno grandi manici» disse la signora Hillcoate in tono

ammonitorio, alludendo alle nostre orecchie, ma Reenie continuò.

«Quanto a quegli stravaganti abiti che porta, potrebbe anche andare in

chiesa in mutandine. In controluce si vede il sole, la luna e le stelle, e tutto

quello che c'è in mezzo. Non che abbia molto da mettere in mostra, è una

di quelle ragazze emancipate, piatta come un uomo».

«Io non ne avrei mai il coraggio» disse la signora Hillcoate.

«Non si può chiamare coraggio» ribatté Reenie. «Se ne infischia. Gli

manca qualcosa, se vuoi saperlo; gli manca una rotella». (Quando si infer-

vorava, la sua grammatica zoppicava). «È andata a fare il bagno nuda nello

stagno delle ninfee, con tutte le rane e i pesci rossi - l'ho incontrata mentre

tornava per il prato, con solo l'asciugamano e quello che Dio ha dato a E-

va. Si è limitata a farmi un cenno e a sorridere, ma non ha battuto ciglio».

«L'avevo sentito dire» disse la signora Hillcoate. «Credevo che fossero

soltanto pettegolezzi. Sembrava campato in aria».

«È una di quelle donne che vanno in cerca del pollo da spennare» disse

Reenie. «Vuole soltanto mettere le sue grinfie su di lui e ripulirlo per be-

ne».

«Come sarebbe, il pollo da spennare? Che grinfie?» chiese Laura.



Non so perché la parola emancipata mi faceva pensare al bucato molle,

bagnato, steso ad asciugare su un filo, al vento. Callista Fitzsimmons non

era niente di simile.

Scoppiò una lite sul Monumento ai Caduti, e non solo per le voci su mio

padre e Callista Fitzsimmons. Alcune persone in città pensavano che la

statua del Soldato Stanco avesse un'aria troppo avvilita, e anche troppo

sciatta: avevano da ridire sulla camicia sbottonata. Volevano qualcosa di

più trionfale, come la Dea della Vittoria del monumento di due città più in

là, che aveva ali d'angelo e vesti scompigliate dal vento e un aggeggio con

tre denti che sembrava un forchettone per abbrustolire il pane. Inoltre vo-

levano che sul davanti venisse scritto: «A Coloro Che Compirono Spon-

taneamente il Supremo Sacrificio».

Mio padre rifiutò di cedere riguardo alla scultura, dicendo che potevano

ritenersi fortunati se il Soldato Stanco aveva due braccia e due gambe, per

non parlare della testa, e che se non fossero stati attenti avrebbe optato de-

cisamente per il nudo realismo e la statua sarebbe stata fatta di frammenti

di corpi in putrefazione, di cui a suo tempo aveva calpestato una gran

quantità. Quanto all'iscrizione, non c'era niente di spontaneo nel sacrificio,

giacché non era stata intenzione dei morti saltare in aria e andare all'altro

mondo. Quanto a lui proponeva «Per non dimenticare», che metteva l'ac-

cento al posto giusto: sulla nostra smemoratezza. Disse che una dannata in-

finità di gente era dannatamente smemorata. Imprecava raramente in pub-

blico, perciò fece impressione. Ottenne quello che voleva, naturalmente,

dal momento che pagava lui.

La Camera di Commercio sganciò i soldi per le quattro placche di bron-

zo con le liste d'onore dei caduti e i nomi delle battaglie. Volevano il loro

nome impresso in fondo, ma mio padre li costrinse a rinunciare. Il Monu-

mento ai Caduti era per i morti, disse - non per chi era rimasto in vita, tan-

to meno per chi ne aveva tratto vantaggio. Questo genere di discorso fece

sì che qualcuno gliene volesse.

Il momumento fu scoperto nel novembre 1928, nel Remembrance Day.

C'era una nutrita folla, nonostante la pioggerella gelata. Il Soldato Stanco

era stato montato su una piramide quadrangolare fatta di pietre di fiume

smussate, come quelle di Avilion, e le placche di bronzo erano bordate di

gigli e papaveri intrecciati a foglie di acero. C'era stata qualche discussione

anche a questo proposito. Callie Fitzsimmons diceva che il disegno era an-

tiquato e banale, con tutti quei fiori e foglie avvizziti - vittoriani, il peggio-

re insulto per gli artisti in quei giorni. Voleva qualcosa di più severo, di più

moderno. Ma alla gente in città piaceva, e mio padre disse che a volte bi-

sognava pure scendere a compromessi.

Durante la cerimonia suonarono le cornamuse. («Meglio fuori che den-

tro» disse Reenie). Poi ci fu il sermone più importante, pronunciato dal

ministro presbiteriano, che parlò di coloro che compirono spontaneamente

il supremo sacrificio - la frecciata della città a papà, per dimostrare che


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