Albalisa samperi centro mara meoni di siena



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FLOR MARIA TRINIDAD

CESDI

Buonasera a tutti. Ringrazio la città ospitante, tutte le persone che hanno promosso questa iniziativa di cui anch’io faccio parte. Ringrazio tutte le persone che sono venute qua fino da Livorno per sentire l’intervento del CESDI. . Ringrazio i rappresentanti della Regione che sono presenti , e, in particolare Lanfranco Binni

Le tante associazioni che operano sul territorio, sono nate da esigenze diverse, ma con fini comuni tra loro. Dopo gli ottimi risultati ottenuti in questi anni di duro lavoro, volti ad abbattere le frontiere della “non conoscenza” delle nostre origini, usi e costumi; oggi, il nostro obiettivo è l’indipendenza economica. Non rinnegando mai la nostra essenza, ma anzi con l’ausilio della forza che ci contraddistingue, in un universo a misura d’uomo. Ognuna di noi adesso, volgendo lo sguardo indietro nel tempo, si ricorderà dei problemi, delle barriere sociali e delle discriminazioni che ha subito lungo il cammino che le ha portate fino qui. Si ricorderà pure del tempo trascorso in cerca di un’occupazione per poi trovare il solito lavoro, onesto ma umile. Allora, quelle che fra noi sono state tra le più fortunate, si ricorderanno anche del sollievo e della luce di speranza che si è accesa nel loro animo, quando hanno conosciuto la prima persona che propose loro di aiutarle, purtroppo però credo non siano molte oggi in questa sala.

Se il nostro desiderio è di ritrovarci tra qualche anno considerandoci tutte, nessuna esclusa, tra le più fortunate; sta a noi, qui e ora, ribadire che il concetto di prioritaria importanza è da attribuire alle parole “accoglienza” ed “accompagnamento”.

Sta a noi presentarci, far conoscere il territorio con le sue infrastrutture, nonché le abitudini ed il modo di pensare dei suoi cittadini. Per fare ciò, è necessario conoscere pienamente noi per prime la città dove viviamo, le realtà di ogni giorno.Si può credere che il soggetto dell’azione accompagnare, sia la persona che da più tempo vive nella città dove tale azione si svolge, in realtà non è così. L’accompagnamento è sempre reciproco, in quanto io ti insegno il mio modo, la mia forma ed il mio bagaglio culturale, al tempo stesso io apprendo il tuo. E’ un lavoro di cura laddove nessuno può arrivare, un lavoro che è al tempo stesso di cultura e di sensibilità. Quando si presenta una persona in difficoltà, e per persona intendo sia donne che uomini in quanto vivono comunemente le stesse difficoltà, già attraverso la nostra esperienza di vita e la nostra sensibilità, riusciamo a capire il suo problema e ad arrivare alla sua sensazione di disagio. L’accompagnatrice, guardando alla difficoltà, tenta di arrivare alla persona. Facile a dirsi! Chi, come me, ha lavorato direttamente con gli immigrati, sa che è una cosa tutt’altro che semplice. Fra te e loro intravedi la mancanza di fiducia, e spesso ci si accorge che non ti viene svelato il vero problema. L’approccio iniziale che ognuna di noi sceglie di adottare nei loro confronti, è alla base di tutto il lavoro che ne consegue. Personalmente, ho sempre cercato di avere un atteggiamento ottimista e creativo; spesso ho preferito non esprimermi in lingua madre con le mie connazionali concedendo loro l’arbitrio di scegliere con quale lingua parlare.

Lavorare per un’associazione significa essere sempre disponibili e sempre reperibili dalle istituzioni locali che operano direttamente con noi. Tutto ciò può essere inteso solo come volontariato, preso atto che ognuna di noi già lavora, troppo spesso 24 ore su 24, e cura la sua famiglia nelle mille difficoltà di ogni giorno, con più disagi rispetto alle donne italiane, in quanto loro possono usufruire di appoggi e reti di relazioni molto più radicate delle nostre? Assolutamente no! Non può essere inteso come lavoro part-time a stipendio zero, considerato che per una donna, tanto più se straniera, la scelta di operare nel volontariato le pone problematiche diverse rispetto ad un uomo che sceglie di fare volontariato. Questo avviene solo per una spartizione inadeguata dei compiti ed erronea, ma oramai consolidata, attribuzione di mansioni lavorative. La donna straniera si ritrova a svolgere sempre gli stessi impieghi: colf, assistente di anziani, baby-sitter; quasi come fosse un’etichetta. Tutte noi sappiamo bene che di tempo libero a disposizione ne resta ben poco, quindi per una donna scegliere di operare nel volontariato, significherebbe diminuzione delle ore di lavoro, con tutto quello che ne deriverebbe. Vi pongo alcune domande:



  1. Come può una donna, in particolare se immigrata, dimostrare le proprie competenze e capacità, se non ha la possibilità di metterle in pratica?

  2. Una donna, già inserita nel contesto di un’associazione o di altri organismi, come è possibile vada a percepire una cifra irrisoria pur svolgendo contemporaneamente 4 compiti distinti, ognuno dei quali diversi per specializzazione? Per mancanza di tempo e concentrazione, è impensabile, inoltre, approfondire il campo di azione più congeniale alle proprie competenze e capacità

Per l’immigrazione, poi, è importante migliorare ancor di più i servizi delle scuole materne, degli asili e dei nidi d’infanzia, perché se una donna immigrata non ha dove lasciare i propri figli non può lavorare, quindi può arrivare a sentirsi costretta a delle scelte dolorose. Le nostre associazioni alleviano, con l’aiuto e l’impegno delle immigrate stesse, il peso del quotidiano. Risolvono i problemi di tutti i giorni come iscrivere proprio figlio a scuola o sottoporsi ad esami clinici oppure fare un semplice certificato anagrafico. Credo sia importante far conoscere le nostre associazioni alla gente ed alle istituzioni, con l’aiuto soprattutto delle forze politiche, perché è soprattutto una questione politica!

Con il loro saldo ancoraggio nella realtà popolare, possono dar supporto morale e materiale allo sviluppo delle nostre idee, viste dalla maggioranza solo uno spreco di denaro. In verità, e noi ne siamo pienamente coscienti, non è uno spreco, bensì un buon investimento per il futuro. L’appoggio delle forze politiche, ci hanno permesso di intervenire nelle scuole, illustrando alle insegnanti ed ai bambini italiani le culture e le abitudini dei popoli di origine dei bambini stranieri presenti nel territorio, cercando al tempo stesso di far capire ai bambini stranieri le abitudini degli italiani. La nostra partecipazione con stand gastronomici (e non) alle feste di partito, ha avuto un ottimo riscontro, ha avvicinato anziani e bambini a nuove sensazioni, suoni e sapori e per noi è un inizio importante.

Favoriamo così la conoscenza delle culture, aiutiamo continuamente la città alla programmazione per l’immigrazione e questo riteniamo sia un vero e proprio servizio che offriamo alla città. Le donne, protagoniste in questo lungo percorso di sensibilizzazione della popolazione, fanno conoscere, trasmettono e condividono le culture del paese di origine; ma è una conoscenza reciproca. E’ necessario far percepire la nostra identità, perché la gente abbatta i molti pregiudizi che hanno nei nostri confronti, molte volte dovuti solo ad ignoranza. Come può un italiano medio capire la necessità che alcune di noi hanno la mattina di aprire tutte le finestre, se non gli insegni che è per far entrare la grazia di Dio?

Quello che mi rende più fiera, è che oggi le nostre associazioni sono diventate un punto di riferimento attivo nella città anche per gli stessi italiani, attivo su ogni campo del territorio come l’ambiente a livello urbanistico, la casa, il lavoro, le scuole, le abitudini, il linguaggio, le religioni, gli usi ed i costumi.

Ribadisco però che necessita volontà politica, perché se taluni progetti possono essere portati avanti solo con la buona volontà, altri hanno necessariamente bisogno di fondi. Molte di noi hanno ottimi progetti da realizzare, una buona conoscenza, padronanza della lingua, magari una o più lauree conseguite nel paese d’origine (e magari non riconosciute in Italia), ma senza fondi le idee non si materializzano!

Inoltre, sarebbe opinabile far seguire direttamente dalle donne interessate i propri progetti.

La progettazione è la parte più importante, dopo la formazione professionale. L’associazione locale, in questo caso, può indirizzare ogni futura imprenditrice verso i progetti che abbiano più possibilità di riuscita, in quanto assenti o insufficienti sul territorio. Infine il progetto andrebbe seguito personalmente dalla sua ideatrice, in quanto solo lei conosce il progetto, il settore di realizzazione e la realtà locale. Seguirlo dalla sua nascita, per tutto il suo sviluppo sino alla sua concretizzazione finale.

ANTONIETTA PAPPALARDO

COMMISSIONE PROVINCIALE PARI OPPORTUNITA' DI LIVORNO

Vorrei cominciare il mio intervento dicendo cosa è per me l'intercultura.

L'intercultura è circolarità. Circolarità che si deve stabilire tra le diverse componenti di una società complessa, che spesso si irrigidiscono in dicotomie: la dicotomia uomo-donna, nord-sud, est-ovest, la contrapposizione tra generazioni, tra classi . Intercultura è circolarità nel senso della comunicazione tra queste componenti, ma anche circolarità nel senso di un necessario decentramento. Edgar Morin, il sociologo, illustra il modo in cui si è trasformata la conoscenza nel nostro tempo attraverso una metafora: la conoscenza del passato assumeva la posizione del capo Sioux che stava al centro del cerchio e poteva vedere quello che succedeva intorno e imponeva il suo modo di vedere, di essere, di comportarsi su tutto il popolo,. Ora però il capo non c’è più e siamo tutti in circolo. Ma questo comporta che ognuno è tangenziale, cioè vede una parte della realtà. La circolarità, il limite, il partire da sé, significa per esempio che nessun uomo può più parlare a nome delle donne, così come le donne, e noi ne siamo sempre state consapevoli , non possono parlare a nome dell’uomo. Significa anche che le donne immigrate devono parlare per sé: ogni tipo di progetto che prevede la loro esperienza deve partire da loro.

Secondo me l’intercultura è un percorso che si articola in tre fasi.

La prima fase è la fase compensativa, quella dell’accoglienza: l’immigrata, l’immigrato arriva nel nostro paese, non ne capisce la lingua, non ne conosce i codici, e c'è bisogno di una azione compensativa per dargli la possibilità di rapportarsi al contesto.

Nella seconda fase invece comincia l’interrelazione, la conoscenza e la fecondazione delle culture che si confrontano in un meccanismo di tipo valoriale e egualitario.

La terza fase, che io derivo dalla lettura della filosofa Annah Arendt, è la fase della rinascita reciproca a partire dal confronto con un’altra donna o un altro uomo di un’altra cultura.

Nel libro “Immigrato” scritto da Salad Messanani e Mario Fortunato, viene narrata la vicenda di Salad, laureato tunisino che conosceva a perfezione l’italiano, ma che immigrando in Italia si è visto costretto a fingere di non sapere l'italiano e a parlare in quel modo frammentato di chi non conosce bene la lingua; ha anche dovuto dire che non era laureato e piegarsi a fare i lavori più umili. Perché ha capito che altrimenti veniva visto come un estraneo, una forza anomala e minacciosa per il fatto che era non consono allo stereotipo dell’immigrato. In questo modo, Salad è morto, anche se non è morto fisicamente è morto con la sua cultura, con la sua persona. E solo scrivendo il suo libro, forse, è potuto rinascere perché finalmente ha assunto il suo desiderio come identità. Ma, reciprocamente, deve rinascere anche l’altra persona, il "nativo", che deve bandire questo stereotipo dalla sua mente.

La vera interculturalità è la rinascita reciproca: nel momento in cui ciascuno rende pubblica la propria identità, la propria azione, rinasce al mondo; e questo è l’intercultura. E’ per esempio intercultura capire i versi di Clementina Sandra Amendola una poeta argentina nata da genitori italiani, e venuta in Italia per ripercorrere i passi dei suoi genitori verso l'emigrazione. Clementina Sandra Amendola scrive: “emigrare è arrivare, è cercare, è pure lasciare; è posticipare, è cambiare la propria realtà, senza essere estranea alla dura solitudine. E’ come far passare un’anima da un corpo all’altro, ma l’identità, la cultura, la libertà, l’assenza, con che mezzi si possono contenere?.”

Ho voluto concludere questo primo punto con una poesia perché penso che si debba seguire Maria Zambrano - un'altra grande filosofa- quando dice che bisogna annullare la distanza tra poesia e filosofia e che, per capirsi, bisogna mettere insieme l’aritmetica, la poesia, la storia e la filosofia . Quindi mai più la separazione tra le discipline! Questo noi donne lo sappiamo bene perché in tutto quello che facciamo non siamo mai "disciplinate", rinchiuse in uno specialismo.


Il secondo punto che vorrei trattare, brevemente, è il progetto di un centro interculturale di donne a Livorno, progetto sostenuto dalla associazione CESDI.

Credo che la sola esistenza di questo progetto nell'ambito di Porto Franco sia già un elemento positivo, perché il CESDI rappresenta l'unica componente di genere tra associazioni "neutre". Questa, dunque, non è una ricchezza solo per il CESDI, ma anche per la Regione, perché il centro di Livorno può diventare una sorta di laboratorio interculturale di genere, una ricchezza anche per gli altri centri che speriamo non dimentichino comunque questa dimensione di genere.

Credo che un centro di questo tipo dovrebbe muoversi secondo due direttrici: innanzi tutto, una direttrice verso l’esterno, una continua interlocuzione con le istituzioni, che si devono far carico di questo centro. Io non capisco perché quando si tratta di poli tecnologici, sportelli, imprese, i politici considerano di doversene fare carico reputando che siano questioni di interesse collettivo; e perché poi un centro interculturale di donne, se si crea, non venga considerato come una questione di interesse collettivo : allora il collettivo è solo maschile? Il collettivo di interesse pubblico deve comprendere il femminile, deve essere una ricchezza per tutti, per uomini e donne.

La seconda direttrice di azione del centro deve essere rivolta all'interno, e quindi creare i presupposti per una grandissima progettualità tra le donne che lo gestiscono.

Rispetto a come dovrebbe essere concepito e strutturato questo centro, il primo punto è che esso sarebbe una struttura provinciale che si articolerebbe e rapporterebbe con i vari centri di prima accoglienza esistenti nei Comuni della Provincia, centri concepiti per fronteggiare le emergenze. . A livello provinciale ci deve essere infatti un meccanismo che risponda a obbiettivi di seconda accoglienza: l’interrelazione, la formazione l’elaborazione di una progettualità che poi retroagisca a favore dei cittadini e cittadine di tutti i centri di accoglienza comunali. Il secondo obiettivo del centro sarebbe quello di costituire un polo di incontro, capace di fortificare la relazione tra immigrate, -quindi senz’altro si tratterebbe di farvi entrare altre associazioni di immigrate- e tra donne in generale, aprendosi alla presenza di altre associazioni femminili che si pongano l'intercultura come obiettivo: perché il CESDI è una rete che va oltre il CESDI. La terza questione, importantissima, è che il Centro dovrebbe essere un polo di sviluppo per l'imprenditorialità femminile, autenticamente femminile. Perché molte imprese che sono venute fuori dal NOW Incubatore Impresa Donna , quando si presentano sul mercato appannano la loro formazione di genere, per paura che se si differenziano troppo dal modello "neutro" dominante il loro progetto non verrà accettato. Questa è una sconfitta del femminile, e questa è la ragione per cui non andiamo avanti: per ingraziarci l’accettazione, il consenso degli uomini, noi appanniamo tutto quello che siamo e sappiamo.

Ma per sviluppare l'imprenditoria femminile in generale, e quella delle donne immigrate in particolare è necessario individuare meccanismi e percorsi di sostegno. Per esempio pensare a uno sportello della Banca Etica al femminile. Perché quasi nessuna donna possederà i capitali necessari per partire con una impresa a livello individuale. Ma viviamo in un territorio come quello toscano, che è fecondo nella incentivazione alle politiche attive del lavoro. Uno sportello della Banca Etica per il genere, può essere anche una cosa innovativa che nasce dalle donne immigrate in questo territorio e magari si diffonde. Io credo che dovremmo costituire un gruppo che lavora per dare un segno di tipo culturale e imprenditivo a queste imprese, per dare loro sostanza e reddito e non parlare solo in astratto di questo. Grazie.




JOCIARA LIMA DE OLIVEIRA

COMMISSIONE NAZIONALE PER LE PARI OPPORTUNITA'
Grazie per l’invito a partecipare a questo incontro così interessante e grazie anche alle amiche di Alma Teatro per averci fatto vivere, per alcune di noi rivivere, l’emozione delle esperienze passate. Sarò molto veloce, e interverrò sull’associazionismo femminile e delle donne immigrate in particolare. L’associazionismo può essere anche un’esperienza interessante quando è in relazione con il lavoro. Ma , almeno a mio avviso, deve essere prima di tutto e soprattutto un’occasione per dare voce alle comunità immigrate. Le esperienze lavorative legate all'associazionismo che ci sono state presentate sono molto interessanti, non sono facilmente ripetibili: l’esempio dell’Alma Mater è uno di quelli vincenti, però credo rimanga un’esperienza a . Non vedo chiaramente la relazione tra l’associazionismo e la attività lavorativa. Chiaramente se riuscissimo a mettere in piedi nelle città delle esperienze come quella di Alma Mater sarebbe una grande vittoria, una grande conquista. Però purtroppo, ripeto, non so fino a che punto sia un'esperienza ripetibile sul territorio nazionale, e siccome queste esperienze hanno bisogno di un supporto economico dalle istituzioni, corrono il rischio di svolgere dei servizi senza continuità, legati ai finanziamenti. Sono convinta comunque che se donne immigrate e donne italiane mettono insieme il loro sapere, possono creare delle imprese molto importanti. Perché le donne italiane possono contribuire con la conoscenza del territorio, della legislazione del paese, dei meccanismi fiscali, con le conoscenze che molto spesso mancano alle donne immigrate, e che unite ai saperi delle donne immigrate possono occupare un posto importante nel terzo settore, ma anche nella economia reale. Sono certa che abbiamo tutte le carte in regola per occupare un posto nell’economia reale, e se vogliamo far sì che l’economia reale abbia una dimensione di genere, dobbiamo agire in prima persona, dobbiamo esserci, con tutti i rischi che questo comporta. L'Impresa di Essere Donna deve coniugarsi con l’impresa di essere impresa. Lo so che è difficilissimo, è veramente difficile stare sul mercato, però il rischio maggiore forse è quello di non provarci. L' altro rischio, quando facciamo impresa, è quello di innamorarci talmente tanto dei meccanismi maschili che ci dimentichiamo i propositi di partenza e andiamo avanti seguendo i meccanismi in atto. Invece se riuscissimo a metterci insieme per cambiare i meccanismi dell’economia reale di oggi, per costruire dei meccanismi a misura di esseri umani, uomini e donne, riusciremo senz’altro ad avere dei risultati. E forse questo sarebbe un primo passo per incidere sul meccanismo della globalizzazione.

L'Impresa di Essere Donna è difficile anche per le donne italiane, perché i finanziamenti sono scarsi, non abbiamo i soldi per l'avvio. Ad esempio la legge 215 del ’92 era operativa dall’anno scorso, ma gli stanziamenti sono stati irrisori, veramente insignificanti, scarsissimi per le donne. Comunque in quella occasione non si è considerata nemmeno la possibilità che le donne immigrate potessero accedere a quei finanziamenti, forse non con l'intenzione chiara di escluderle, ma semplicemente Perché laddove non c’è un riferimento esplicito anche alle immigrate, veniamo trascurate. Dopo una sollecitazione al Ministero delle Pari Opportunità, il loro numero verde ha cominciato a rispondere affermativamente alle domande di possibile partecipazione da parte delle donne immigrate, però nel momento in cui esse si rivolgevano alle Camere di Commercio, queste non sapevano di poter accogliere i progetti di donne immigrate. Molte donne immigrate non sono riuscite nemmeno a capire i meccanismi della domanda, come avrebbero dovuto presentarla per accedere a questi fondi. Quindi, ripeto, solo se riusciremo a mettere insieme i nostri saperi saremo in grado , in futuro, di presentare progetti di avere i finanziamenti e di stare sul mercato, proponendo un modello di economia un po’ diverso da quello che oggi abbiamo di fronte e che ci è stretto.

Sul territorio italiano esistono già degli esempi di imprenditorialità femminile condotti da donne immigrate. Sentendo la nostra amica che arriva dalla Francia mi sono ricordata per esempio del ristorante delle donne curde a Badlaco. Ma arrivando a Siena, in questa città meravigliosa, mi dicevo quanto sarebbe bello vedere donne italiane e donne immigrate elaborare insieme un progetto sulla gestione del patrimonio storico. Un progetto in cui le donne immigrate mettano in campo la loro conoscenza linguistica e le donne italiane la conoscenza della storia italiana, del territorio, dei meccanismi di gestione… potrebbero insieme creare qualcosa di nuovo, di interessante, di molto bello. Ma ancora non riusciamo a pensare aldilà della cooperativa di servizio, aldilà della cucina dei nostri paesi, aldilà dell’artigianato: tutti questi sono lavori interessanti e importantissimi, ma lo sono se costituiscono una scelta. Possiamo cominciare a scegliere di fare cose diverse e ci sarebbero cose diverse, molto belle da fare insieme, bisognerebbe realmente provarci. Ma soprattutto insieme dobbiamo lavorare per cambiare i meccanismi attuali dell’economia, creando aziende di donne che elaborino una diversa politica e una diversa gestione dei tempi, che siano attente alla qualità della vita lavorativa, che elaborino delle strategie per la maternità, pre e post parto, che creino anche delle reali pari opportunità di partecipazione e di carriera tra uomini e donne… insomma dobbiamo, almeno con piccoli esempi, cominciare a creare, non solo nel terzo settore, ma anche nell’economia reale, situazioni di lavoro che esemplifichino un modo diverso di fare impresa. Io credo che l’unione fa la forza, e se ci uniremo migranti e native, per elaborare progetti che costituiscano delle proposte alla nostra misura, alla nostra dimensione, riusciremo forse a promuovere una cultura economica che sia almeno al 50% femminile. Finora abbiamo lavorato al 100% al maschile, ma se riusciremo ad arrivare ad un 50% nella cultura economica al femminile saremo tutte più serene ne avremo guadagnato nella qualità della vita, del lavoro e probabilmente anche nella qualità economica della vita. Grazie.




MARA BARONTI

COMMISSIONE REGIONALE DELLE PARI OPPURTUNITA’
Il mio intervento prende le mosse dalla richiesta di pensare cos’è l’economia delle donne , cos’è l' economia e come noi vogliamo cambiarla. Anch’io vorrei come Pappalardo rompere un po’ le barriere e unire l’aritmetica, la poesia, la storia. Penso allora che per l’economia delle donne succede come per le genealogie femminili, che, come dice Luce Irigaray, sono ripiegate e nascoste nelle genealogie maschili. Così l’economia delle donne è stata totalmente ripiegata, nascosta e anche teorizzata, come divisa dall’economia generale.. E non è solo l’economia domestica. Basta che io pensi a me stessa , donna immigrata della piana toscana, da Padule di Fucecchio a Sesto Fiorentino, e a mia madre che era figlia di mezzadri e lavorava nei campi. Svolgeva un lavoro di sussistenza, non di sopravvivenza; un lavoro enorme, che voleva dire lavoro nei campi, raccolta del forggio, cura degli animali e quant’altro. Era lavoro e lavoro vero. Invisibile forse, perché nascosto, ma certo non immateriale. Lì, in un’economia contadina, questo lavoro di cura delle cose stanziali era riassorbito nel naturale, non visto come lavoro. Non era il lavoro come quello degli uomini che valeva, anche se nei campi uomini e donne erano insieme.

Io penso allora, che su questo c’è bisogno di lavorare per rompere i criteri di lettura, per cambiare il canone che definisce che cos’è economia. Io penso che la scommessa sia davvero questa, una scommessa intrecciata a quella del cambiamento dei canoni di cittadinanza. La prima rottura da operare è qui, nei riferimenti che troviamo nel nostro occidente.

Hegel è il filosofo occidentale che ha compiuto l’operazione eccelsa di dividere i percorsi di cittadinanza fuori della famiglia dai percorsi interni, dentro la casa, dentro la famiglia , che lui definiva sacri, mentre io li chiamo divini. Hegel, che teneva molto realisticamente a cuore la filosofia e lo sviluppo della storia e dell’economia, affermava che fratello e sorella procedono insieme per un certo periodo di tempo, ma poi a lui tocca l’incombenza pubblica di diventare un emerito cittadino, rappresentante in un consiglio comunale o sindaco, mentre a lei tocca tornare a casa. E lì essere divina, sacrificare ai penati della casa, e lavorare per ritemprare colui che fuori si esaurisce, si stanca, e quando torna a casa vuole essere curato e ritemprato nelle sue energie.

E' lì la scommessa, in questa divisione tra cos’è città e cos’è famiglia. E’ proprio la divisione di cui parliamo quando mettiamo in discussione quel lavoro femminile così detto invisibile, eppure materialissimo, corposo. Perché il lavoro delle donne è un lavoro di relazione, che mentre crea relazione sociale, produce anche materialmente qualcosa di molto corposo e di pochissimo riconosciuto, quasi per niente.

Negli Atti dei seminari organizzati dall' ided, a cura di Anna Proto Pisani, ho letto il dossier dedicato all’accompagnamento che il CESDI svolge con le donne straniere. Mi ha colpito il caso dell' accompagnamento a una donna marocchina che si era rivolta al servizio tramite il marito, l’unico suo tramite di socialità, che poi è scomparso. In quel documento è ben visibile il lavoro svolto dalle donne del CESDI che l’hanno accompagnata in una molteplicità di situazioni come nessun servizio strutturato pubblico saprebbe fare. Sappiamo infatti il servizio strutturato pubblico è frammentato, incapace di dare una risposta globale, quale richiede la vita delle persone. Noi sappiamo cosa vuol dire svolgere una azione di accompagnamento non assistenziale. Vuol dire scambio, reciprocità e vorrei dire anche, riconoscimento di disparità. Perché si può riconoscere di essere dispari, in una determinata situazione, ma non fisse in questa disparità. Io posso riconoscere che chi mi accompagna ne sa più di me su un certo tema, ma questo non significa che io non sia soggetto, io accompagnata, e che possa a mia volta arricchire e offrire, con intuizioni, con suggerimenti, percorsi inediti che possono diventare patrimonio condiviso.

Ebbene, la convenzione che il Comune di Livorno ha stipulato con il CESDI per questo loro servizio è molto esigua, prevede uno stanziamento annuale di 15 milioni per 10 operatrici. In questo modo solo il lavoro di ufficio viene riconosciuto, cioè 2 ore e mezzo per 3 volte la settimana, mentre non è riconosciuto tutto il grosso del lavoro che effettivamente viene svolto dalle donne del CESDI, la loro reperibilità continua, quasi 24 ore su 24, la loro competenza a vasto raggio per affrontare l'enorme varietà di problemi che le donne portano al Centro. E soprattutto viene negato il valore di questo lavoro di accompagnamento come esemplificazione di una modalità diversa di servizio, come suggerimento utile per rinnovare le risposte dei servizi pubblici.

Io credo che sia fondamentale spostare sempre di più in modo negoziato e negoziale quella enorme quota di lavoro volontario femminile che resta esorbitante; spostarla verso un lavoro retribuito e verso un valore riconosciuto nella società. Un valore da tener presente nella definizione di diversi percorsi di cittadinanza. Perché quello del CESDI non è semplicemente un lavoro a convenzione, è una modalità di servizio che cambia i caratteri dello stato sociale. Il lavoro di cura non vuol dire semplicemente fare con cura il proprio lavoro, ma comporta un quid di condivisione, di affettività, di relazionalità che va riconosciuta.

Dal ’95 , data della conferenza di Pechino, qualcosa si è mosso. Alcune economiste, come Antonella Picchio , hanno lavorato molto per cambiare i parametri e rendere visibile il lavoro non pagato delle donne.

Una misura è stata trovata nel tempo, un tema su cui l'attenzione dell'opinione pubblica italiana era viva qualche anno fa -pensiamo alla legge sui tempi di lavoro e i tempi della vita- ma si è assopita negli ultimi 10 anni. Le statistiche dicono che le donne italiane sono fra quelle che svolgono più lavoro non pagato, gratuito, non riconosciuto. Questi studi hanno aiutato a riattivare l’attenzione di tutte e di tutti su come si condivide il lavoro domestico, ma anche su un modo di lavorare diverso, femminile, che ricopre un enorme valore sociale, come nel caso della maternità . Per questo sono grata concettualmente a chi ha fatto questa mossa di riportare l’attenzione sui tempi.

La cifra degli 11 miliardi prodotti dal lavoro gratuito e non riconosciuto delle donne, che stamani veniva ricordata, va fatta pesare in modo sostanziale nel disegno di Wellfare State che andiamo componendo nelle nostre regioni, in Europa, nel mondo occidentale. Io penso che su questo ci sia modo da fare non in termini di vertenze, ma in proposte e progetti da portare avanti in modo condiviso, con le donne nelle quali crediamo e con gli uomini con i quali possiamo condividere dei pezzi di strada.

Per quanto mi riguarda mi metto a disposizione nelle battaglie possibili per il ruolo che rivesto, finché lo rivesto. Io ho voglia di portare a termine alcune scommesse. Porto Franco, per esempio, è un’occasione per valorizzare la differenza di genere e le differenze, facciamola crescere, utilizziamola al meglio, ma teniamo anche presente che abbiamo più accelleratori sui quali premere.

D’intesa con le consigliere regionali ho proposto che nello statuto del Consiglio Regionale Toscano ci fosse la dicitura “valorizzazione della differenza di genere”, non solo delle pari opportunità. Perché è vero che vanno creati nuovi intrecci, nuove tensioni, nuove scommesse, però è vero che di opportunità pari si parla per tutti, donne, uomini, giovani, meno giovani, e si rischia così di neutralizzare quella differenza radicale, in quanto è differenza alla radice, che è la differenza di genere. Così, questa dicitura, insieme a quella delle pari opportunità e a quella della cittadinanza di donne e di uomini, presenti nello statuto della Regione Toscana, sono tutte modulazioni che ci possono aiutare per lavorare insieme, donne che stanno nelle istituzioni e donne che stanno nella società.

Vorrei anche ricordarvi che esiste un programma di iniziativa regionale sull’imprenditoria femminile. Intervenendo nella presentazione del programma di sviluppo della Regione Toscana, abbiamo chiesto, come Commissione Regionale Pari Opportunità, che si entrasse più nel merito delle problematiche dei tempi, con dei progetti obbiettivo. Chiedemmo che ci fosse un programma di iniziativa regionale sull'imprenditoria femminile. Dal ’98 questa nostra proposta è diventata operativa.

Attualmente esiste un programma della Regione Toscana per l’imprenditoria femminile, purtroppo povero, siamo sempre povere. Un programma che non fa solo riferimento alla Legge 215, ma a tutto quello che può aiutare L'Impresa di Essere Donna a trovare percorsi di cittadinanza. Bisogna dare percorsi di cittadinanza a imprese come quelle che oggi sono presenti qui, e che hanno dimostrato di sapersi sviluppare, perché da una scommessa aggregata di un gruppo di donne che aveva scelto di lavorare insieme, puntando sul genere femminile, ha saputo radicarsi in diverse realtà e negoziare con le istituzioni, collegamenti, operatività, scelte. Io penso che ora sia davvero il momento di radicarle nel mercato.

Ma dobbiamo sapere che la Toscana è una regione conservatrice da questo punto di vista, noi abbiamo un problema di gap strutturale tra disoccupazione maschile e disoccupazione femminile, il che vuol dire che la disoccupazione femminile cresce nonostante le donne siano quelle che si industriano di più a cercare, trovare e fare lavoro. Tanto lavoro anche informale, atipico che dovrà essere regolato. Tutto questo riguarda le donne di ogni età; anche le giovanissime, sebbene più scolarizzate dei loro coetanei, hanno difficoltà ad esordire sul mercato del lavoro con riconoscimento del valore acquisito nella loro formazione. Per questo penso che sia una strada importante per tutte, quella di chiedere alla Regione che vengano creati percorsi accessibili per le imprese di donne per stare sul mercato.

Concludo dicendo che i diritti di cittadinanza di cui abbiamo parlato oggi sono elementi chiave per riaffermare dei criteri di giustizia sociale e di genere, elementi da far valere nella costruzione di uno stato sociale meno frammentato, meno settorializzato, se vogliamo anche meno gestito pubblicamente, più di comunità. Io penso che questo sia un nodo fondamentale da tenere vivamente presente anche nella negoziazione che insieme sapremo fare con le donne che scegliamo, con le quali ci confrontiamo. Si tratta di fare molta autostima nei momenti di valorizzazione delle nostre proposte. Io penso che da un mecenatismo tutto maschile, bisognerà passare ad un darsi affidabilità e credito tra donne, non su tutto, ma su alcune cose dette pubblicamente, da praticare in relazioni politiche, in modo trasparente, finché ci siamo, dove ci siamo.

Grazie.


SINTESI DEL DIBATTITO DELLE GIORNATE SEMINARIALI

Vi offriamo qui una sintesi del dibattito che si è svolto nelle giornate seminariali dell'Università. In appendice trovate i nominativi delle partecipanti.


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