PIERRETTE SOUMBOU
ASSOCIAZIONE ASIFA
Buongiorno a tutte e a tutti. Sono stata invitata a parlarvi dell'esperienza di Asia (Associatiòn Interculturelle des Femmes Actives di Rouen) e della sua prima iniziativa di inserimento economico che è il Ristorante Plein Sud. Vi parlerò anche della nostra volontà di mettere in rete i vari ristoranti di quartieri presenti in Francia.
Comincerò con una piccola autobiografia. Ho lasciato il Congo a 17 anni, ho vissuto 6 anni in Russia per studiare. Da 17 anni vivo a Rouen, in un quartiere molto svantaggiato, situato alla periferia della città. E' un quartiere marginale anche fisicamente, ricorda una sacca tra le alture, un "cul de sac". E' vivendo in questo quartiere che è sorta l'idea di raggruppare le donne per creare l'associazione Asifa, nel 1991.
Il nostro è attualmente un quartiere molto povero, con una grande concentrazione di popolazione immigrata. Era un quartiere piccolo borghese, negli anni 60.A poco a poco le popolazioni povere sono arrivate e le famiglie più agiate se ne sono andate. Nel quartiere erano dunque presenti più comunità (marocchina; senegalese; congolese, algerina…), raggruppate intorno a un capo villaggio come in tanti piccoli villaggi, e che conservavano le usanze, i modi di fare, i riti dei loro villaggi di origine. E' stata la volontà di emanciparsi da questi poteri patriarcali che le tenevano chiuse in casa a spingere le donne a riunirsi in associazione. Non è una associazione nata dalla volontà delle istituzioni, ma dalla volontà delle donne immigrate di uscire dai gruppi primari patriarcali: la famiglia e la comunità etnica. Per noi è là che comincia "L'Impresa di Essere Donna". Uscire dal gruppo primario e costruirne uno secondario, l'associazione, al fine di migliorare la qualità della vita nel quartiere e per le donne: al fine di combattere per le scuole, per la sicurezza negli immobili, ma anche al fine di creare una cultura nuova, aprire le comunità rompendo le barriere. Combattere per una cultura che riconoscesse il ruolo delle donne e il loro posto nella società. Si trattava di smettere di riprodurre un ruolo che gli uomini ci avevano delegato e imposto: quello di trasmettere le culture di origine. Volevamo uscire da questo ruolo. E potevamo farlo, nonostante fossimo mantenute dai nostri uomini, perché le donne in Francia erano già uscite dalle case e dai ruoli. Noi d'altra parte, non avevamo niente da perdere. Le donne del quartiere erano tutte disoccupate. Molti ostacoli impedivano loro di entrare nel mercato del lavoro. Di solito chi ha un impiego da offrire privilegia gli uomini bianchi, poi forse gli uomini neri, poi le donne bianche, e solo in extremis si piega ad assumere una nera, come me. Se poi vengono assunte, le donne immigrate sono pagate meno e licenziate più facilmente. E quando hanno un diploma, questo non viene riconosciuto in Francia -ma è lo stesso in tutta l'Europa. Quelle che hanno dato vita ad Asifa erano dunque donne che sopportavano grandi pesi di ordine culturale e familiare, e soprattutto soffrivano l'isolamento, che è una conseguenza della scelta di emigrare.
Asifa raggruppa attualmente 100 socie, e altre donne che non sono socie ma partecipano alla attività della associazione. La socia più giovane ha 19 anni, e la più vecchia 79 anni. Vengono da luoghi e paesi diversi: dal Magreb (Algeria, Tunisia, Marocco), dall'Africa sub-sahariana (Gabon, Congo, Costa d'Avorio, Benin, Madagascar), dall'America Latina (Perù e Cile) e da alcuni paesi europei (Polonia, Turchia, Romania). Ma fanno parte di Asifa anche alcune francesi autoctone.
Siamo partite cercando di sviluppare delle attività ricreative per valorizzare lo scambio tra le culture; poi abbiamo avviato attività che favorissero lo sviluppo di progetti individuali e collettivi. I nostri interventi riguardano l'inserimento sociale -abbiamo moduli di attività che riguardano il diritto alla parola e la cittadinanza; il sostegno psicologico per le donne in difficoltà; la prevenzione della delinquenza; la mediazione interculturale. Per quanto riguarda la prevenzione sanitaria, lavoriamo sull'igiene, sui tabù alimentari, sulle mutilazioni sessuali, sul Aids, sulle tossicodpendenze. Abbiamo anche un modulo dedicato alla promozione delle culture d'origine, e insieme alla formazione professionale: abbiamo un laboratorio di parrucchiera, un laboratorio di cucina, un laboratorio di tessitura. Questi laboratori ci hanno portato rapidamente alla creazione dell'impresa. I prodotti dei laboratori finalizzati alla promozione delle culture hanno cominciato ad essere venduti. Il problema del lavoro era vivo, sia tra le donne di recente immigrazione, arrivate in Francia alla ricerca di un lavoro, sia tra le donne che appartenevano alla prima ondata di immigrazione, arrivate al seguito dei loro sposi: donne che vivevano in Francia da 20-25 anni che cercavano un lavoro per integrare le entrate economiche in famiglia, e che erano costrette ad arrangiarsi con piccoli lavori di assistenza o di pulizia nelle case L'associazione non era nata allo scopo di sviluppare delle attività economiche. Ma la battaglia per la cittadinanza ci ha spinte a farlo.
Da subito abbiamo dunque dovuto affrontare il dibattito se inserire o no nelle attività della associazione quelle donne che spesso provengono da villaggi, che non hanno studiato, che non hanno strumenti per cercare un lavoro autonomamente. Abbiamo deciso di partire tutte insieme. Ed è per questo che parliamo della valorizzazione dei saper fare tradizionali. Pensiamo d'altra parte che questi saper fare tradizionali saranno i lavori del domani.
Abbiamo cominciato con un processo di riabilitazione di queste "donne di base": l'alfabetizzazione; l'educazione sanitaria, ma anche l'empowerment e l'autostima, perché fossero in grado di riconoscersi come donne ed affermare le loro ragioni. Perché fossero in grado, per esempio, di andare alla scuola dei loro figli a discutere con gli insegnanti. Può sembrare banale. Ma persino io, che pure posso sembrare una donna molto sicura di me, ho dovuto affrontare queste difficoltà ed ho avuto bisogno di appoggiarmi all'esperienza di altre donne -anche alle donne autoctone, emancipate,- per potermi affermare. E' infatti necessario avere un ancoraggio territoriale. Le donne immigrate, rischiano di sentirsi sempre in partenza. Questo crea una barriera nella loro testa. E un giorno è necessario che elaborino questo loro dolore della partenza, che ripongano mentalmente la loro valigia, che lottino e lavorino per inserirsi nella società di accoglienza. Perché possano trovare un lavoro, è necessario che gettino le radici, che assumano il territorio in cui sono arrivate come il territorio del cuore, del loro amore, della loro vita.
Le attività di svolgimento e di trasmissione dei saper fare hanno diverse finalità e aspetti: di apprendistato, di conoscenza, di emulazione. Da queste attività nascono sovente i microprogetti di inserimento economico.
Così dal laboratorio di cucina, 5 donne si sono distaccate per creare il ristorante "Plein Sud", una SRL che ha aperto nel 1995, e che riunisce una congolese, una senegalese, una francese, una francese algerina, e una marocchina. Attraverso le "tontine" abbiamo racimolato il capitale iniziale, 25.000.000 franchi. Ci siamo poi affidate a una esperta che ha fatto per noi gli studi di mercato e ha curato tutte le connessioni con le istituzioni necessarie per aprire l'attività.Il ristorante ha lavorato per 3 anni. Poi, una serie di contingenze politiche e di conseguenti tagli di finanziamenti ci ha portato a sciogliere la SRL e a tornare in ambito associativo. Infatti il mercato da solo non assicurava la sopravvivenza del ristorante. Esso è situato in un quartiere povero, e noi ci siamo sempre rifiutate di trasferirlo al centro di Rouen. La nostra è una scelta militante. Per gestire Plein Sud abbiamo allora fondato una nuova associazione "Initiative Femmes et Developpement" , che ha anche avviato un servizio itinerante di vendita dei pasti sui mercati limitrofi e che sta promuovendo una rete tra le iniziative economiche di ristorazione presenti nei quartieri delle periferie francesi. Questa rete si chiama "Reactive" (Reauseau de Activité de Economie Soidaire). Reactive si propone di riunire tutti i ristoranti di quartiere presenti in Francia -siano essi gestiti da donne che da uomini- sotto un "marchio di qualità" che funzioni da garanzia dell'impegno di queste attività nella trasformazione sociale e in una diversa gestione dell'impresa: dalle procedure di lavoro, alla gestione del tempo -perché vita lavorativa e familiare siano conciliabili-, al rispetto e la promozione delle donne. Le esperienze che Reactive vuole mettere in rete non sono attività puramente economiche, ma sono attività economiche intrise di valore sociale e politico.
Nel corso dei lavori di questa Università abbiamo parlato a lungo di identità, di cittadinanza, di diritti. Sono temi che sento profondamente legati e intrecciati con l'esperienza di Asifa e di Plein Sud. Credo infatti che tutto il lavoro di trasformazione sociale, di emancipazione, di empowerment delle donne ha a che fare con l'identità. E che la cittadinanza non si decreta, ma si costruisce e si vive deponendo degli atti nel territorio in cui si vive; e infine che il diritto viene riconosciuto e diviene effettivo solo attraverso il confronto con i poteri istituzionali, quando le donne sono capaci di essere forza di proposizione.
PERFORMANCE di ALMATEATRO
DALLO SPETTACOLO RIGHIBE'
Flor: Ciao, io mi chiamo Flor e tu?
Maria: Io?…Non lo so!…Un tempo sono stata bambina e donna in un paese dell'Africa Orientale…ero Righibé. Allora, quando si parlava di me si diceva: "Righibè ha detto…"Righibè ha fatto…". E io dicevo: "Salam, sono Righibè, sono venuta a trovarti. Andiamo insieme a prendere l'acqua". Mia madre da sempre mi ha chiamato con il mio nome.
Flor: hai figli?
Maria: Ho tre figli, e gli altri, quando parlavano di loro, dicevano: "E' Hailé, figlio di Righibè…"; "Vado a giocare con Abrehet, di Righibè…"; "Sium di Righibè è un monello!…". Mio marito mi chiamava da lontano nei campi: "Righibè! Vieni!"…
Irene: E oggi?
Amina: Cosa fai?
Maria: Oggi vivo a Torino, sono qui da 12 anni, sono qui perché nel mio paese c'è la guerra…la guerra ti porta via tutto… Ho perso mio marito, sono diventata Righibè, la vedova di Brahanè. Lavoro come "domestica fissa"…
Enza: Anche io sono "domestica fissa"
Giò: Anche mia madre lo ha fatto per tanti anni, quando siamo arrivate dal sud…
Naki: Anche mia nonna è andata a servizio a 14 anni…poi è emigrata in America…
Suad: per me è proprio strano…quando sono arrivata a Roma per la prima volta ho detto: "ma…non è possibile! Quelli che portano le valigie hanno la pelle bianca!"
Malika: …sì! E anche gli spazzini!..
Amina: …e i camerieri!…
Pas: …e le donne delle pulizie sono bianche!…
Suad: E pensare che nel mio paese ogni signora bianca ha due domestiche nere!
Irene: Io qui vorrei trovare di meglio…
Maria: Sono diventata una appendice di questa famiglia per tutto ciò che riguarda la casa…Ho imparato a conoscere le abitudini degli italiani, di cosa ridono e godono, come si truccano, come vivono le festività, la religione, la morte, la nascita, i matrimoni, come si vestono…Come riempire le valigie per le vacanze in montagna e come riempirle per le vacanze al mare…
Malika: Da noi non ci sono le vacanze…
Chou Chou: da noi non ci sono nemmeno le stagioni…
Maria: Dove lavoro nessuno mi chiede mai: "Chi sei…Chi eri…" Ho imparato tutti i loro nomi: Ernesto, Giovanni, Alessandra, Patrizia, Giacomo. Loro invece hanno deciso che il mio nome era difficile…
Malika: Io mi chiamo Malika..e continuo a lottare con mia suocera che è italiana perché ancora adesso mi chiama Melina!…Melina!!
Maria: All'inizio di me dicevano anonimamente "La Donna"…senza cattiveria, ma anche senza accorgersi che la sensibilità non ha pelle…La guerra mi ha portato via tanto, ma mi ha lasciato il mio nome…
OGGI MI CHIAMANO ANNA!!!…
MARIA VARENGO
ALMA MATER
Righibé è la storia vera di una donna raccontata in questa pièce teatrale di Alma Teatro. Alma Teatro è una piccola impresa che vive all'interno dell’impresa Alma Mater. Attraverso questo spettacolo, abbiamo voluto dare voce a quelle donne che restano chiuse nelle case, che sono impotenti e praticano la cultura del silenzio , finchè, a un certo punto della loro vita, come è successo a Righibé, dopo aver assistito sei o sette anziani e averli accompagnati nell'ultimo viaggio, si trovano a non avere più casa. Righibè era una eritrea che viveva in Italia. Viveva in uno spazio chiuso, faceva la domestica fissa, e dopo aver curato per anni persone italiane, si è trovata a non sapere dove andare a dormire. Allora è tornata nel suo paese, ma con grande dolore, perché lei ormai non era più né eritrea, né italiana. Adesso che è anziana, che ha bisogno di cure, vorrebbe essere qui, perché qui gli ospedali sono migliori…ma non ne ha il diritto!
La storia di Righibè è anche la storia delle nostre mamme, delle nostre nonne, delle nostre zie, e di tutte le donne immigrate che sono arrivate qui prima di noi. E la loro presenza, e il loro futuro, è un nodo politico che noi donne, in prima persona, dovremmo sottoporre alla attenzione dei politici.
Volevo anche aggiungere che L'Impresa di Essere Donna è faticosissima, e L'Impresa di Essere Donna colorata è ancora più faticosa, ve lo assicuro
Lascio la parola alla impresa Alma Teatro, e in particolare a Rosanna Rabezzana.
ROSANNA RABEZZANA
ALMA TEATRO
Noi abbiamo voluto iniziare con questa performance per presentarci. Ci chiamiamo Alma Teatro, e quello che facciamo all’interno della grande impresa del Centro Alma Mater di Torino è il teatro. L’Alma Mater è una grande casa che abbiamo voluto fortemente, dove donne del nord e del sud del mondo possono conoscersi, comunicare e produrre insieme. A partire da sé e dai propri bisogni, bisogni che sono sociali, economici, ma anche culturali e politici. E' un bisogno di piena cittadinanza, il bisogno di uscire dalle logiche assistenziali. Solo in un contesto come quello dell'Alma Mater poteva nascere un’iniziativa come quella di Alma Teatro, che un po’ per volta si è trasformata in una piccola impresa.
Alma Teatro conta attualmente quattordici donne provenienti da diversi continenti, che attraverso il teatro vogliono prendere la parola - una parola che in teatro è più pesante - per raccontarsi, per esistere nel mondo, per occupare la città, per occupare la realtà. Questa esperienza è partita anche dal bisogno di rimettere il teatro nel mondo. Molto spesso si dice che il teatro ha bisogno di ossigeno, ha bisogno di fare i conti con una realtà che sta cambiando, e noi abbiamo sentito questo bisogno, questo desiderio forte di realtà. La realtà che vedeva nuove persone abitarla, che ci cambiava: basta avere le antenne un po’ dritte e ci cambia. Il fatto di lavorare in un centro dove le donne vogliono produrre insieme ci ha obbligate a trovare dei modi di comunicare, a creare relazioni , ad andare aldilà di noi e dei nostri ombelichi. Fare intercultura significa dover attuare un decentramento; significa viaggiare leggere, essere leggere, cioè avere gli spazi dentro vuoti, non per una mancanza, ma per un senso di libertà, per lasciare spazio a concetti e simboli che prima non ci appartenevano, ma che si trovano, sono nuovi. Mettere in piedi un laboratorio teatrale interculturale voleva dire proprio questo: trovare degli obbiettivi comuni, senza dimenticarci di noi, ma anche senza difenderci, viverci in tutte le contraddizioni delle nostre identità in cambiamento, scambiare in modo profondo tra noi.
A questo proposito vorremmo leggervi un pezzo del diario che riguarda il lavoro di costruzione dello spettacolo "Luna Nera" e che racconta i modi diversi della relazione tra madri e figlie nelle diverse culture del mondo.
Dal diario di Luna Nera
Guardo questi corpi, corpi alti, corpi magri, corpi bassi, corpi tondi, corpi angolosi.
Pelli chiare, pelli scure, donne diverse del mondo e della storia, ora unite nel tempo e nello spazio, in un’unica esperienza.
Scopro una simmetria inaspettata, vedo lo sforzo e la concentrazione sui volti di queste donne. Intuisco l’intensità e la necessità di un volersi migliorare, per trasmettere al meglio un messaggio al mondo in un modo in cui a loro piace.
Esercizio: ognuno di noi deve regalare tre cose del proprio carattere, di noi stesse, della vita che abbiamo imparato da sole o che ci sono state trasmesse, che comunque per noi nella vita sono importanti, trovando anche una maniera di passarli verbalmente o con movimenti del corpo.
Parte Passe, arriva saltellando come un giullare, un folletto con un ampio sorriso, regala l’allegria, la pranoterapia appresa dalla madre e la pazienza; Anna si dirige in ginocchio, a quattro zampe verso Jo che è la destinataria arbitraria di questi doni. Sta di fronte a lei come se giocasse con i suoi cani, non parla, poi annusa, picchietta col naso il corpo di Jo, resta un po’ ferma, poi improvvisamente Anna si volta di scatto, lancia un urlo che lacera l’aria e fugge via; Carla spezza dolcemente questa tensione si dirige verso Jo cantando un bellissimo canto in francese, va ad accoccolarsi ai piedi di Jo che inizia ad accarezzarle il capo. Alla fine del canto Carla spiega che con esso voleva fare dono del testo che è una poesia di Prévért, della musica e della lingua francese. Maria parla seduta contro una parete, dice che regala l’acqua di Rambelù, perché è fresca, il suono dei coborò così non sarà mai sola e un paio di scarpe per fare tanta strada. Tocca ora a Lola con le braccia aperte che avvolgono tutto il corpo di Jo in un’ampia carezza, le regala un gigante sorriso, poi le dona l’ottimismo che è da un po’ che non c’è e poi il sentimento che si prova ad essere madri; per ultima Suade si avvicina a Jo, per prima cosa le da un bacio sulla guancia, le regala l’amore, perché senza amore come diceva sua nonna la vita non ha senso, le regala il coraggio, perché come diceva sua madre senza coraggio non si vive a lungo e infine le regala la serenità perché la vita è difficile e può fare morire se almeno non si è sereni.
ROSANNA RABEZZANA
Ci era stato chiesto di parlare in questo convegno delle sfide che si giocano quando si fanno questo tipo di imprese.
Per noi la prima sfida è stata proprio quella culturale: riuscire a fare un teatro al femminile, con donne del sud e del nord del mondo; quella di darci visibilità e cittadinanza rispettando i nostri tempi, conciliando come diceva anche Pierrette prima, e tenendo insieme tutti gli aspetti della nostra vita. Lavoriamo con i figli, abbiamo fatto degli spettacoli con cinque donne incinte, con tanti limoni dietro le quinte, per combattere le nausee; abbiamo fatto gli spettacoli con i bambini in scena e proviamo con loro. Credo che nessun uomo potrebbe accettare il nostro modo di lavorare, sarebbe troppo difficile, cioè è troppo complesso, gli uomini semplificano. L'altro aspetto di questa sfida culturale è quello di non essere recepite come folklore, come una presenza esotica, ma di essere riconosciute come teatro meticcio, Meticcio non è una bellissima parola però noi le regaliamo dei significati che ci piacciono, dove riusciamo ad incrociare le nostre lingue, i nostri modi di essere per arrivare ad un prodotto che sia sintesi delle diversità e delle uguaglianze, e che riesca a dar conto di tutti i nostri a volte diversissimi, punti di vista sull' essere madri, sull' essere donne, su come vivere la vita. La sfida più grossa forse è quella che lanciamo alle istituzioni, a coloro che decidono in che modo si fa cultura. Spesso gli assessorati di riferimento non riescono tanto a definirci, non trovano le parole per inquadrarci, perché non siamo teatro di professionisti, perché lavorando all'interno di una associazione non paghiamo le marchette Enpas. Non siamo però neanche un teatro amatoriale e non occupiamo il tempo libero, perché non ne abbiamo. Quindi non si capisce bene dove collocarci. Spesso la logica che muove il teatro ufficiale è una logica che tarda a rendersi conto di quello che succede e di quello che capita nella società civile, nei suoi movimenti e inoltre le esperienze di teatro al femminile sono poche e spesso marginali nel nostro paese, non esistono o sono rarissimi i circuiti che raccolgono le esperienze di teatro al femminile ed è difficilissimo creare una rete tra queste esperienze. Se noi avessimo voluto fare un gruppo di teatro al modo classico, non avremmo lavorato con donne che hanno figli, che spesso sono sole, che devono mettere insieme due o tre lavori in una giornata; avremmo agito in un altro modo. Ma la nostra è una scommessa, oltre che culturale: è quella di riuscire a costruire un’impresa culturale che non sta nei modelli economici classici di questa società. In qualche modo quindi , nel nostro piccolo, dal nostro modo di stare un po’ ai margini, vogliamo mettere in discussione le politiche culturali tradizionali, ma non come soggetti deboli da assistere, perché non ci sentiamo tali e non vogliamo esserlo. Proponiamo un modello diverso che secondo noi ha un grosso valore di "scasso culturale". Il lavoro che facciamo nelle scuole, nel territorio, ci fa verificare con mano cosa vuol dire comunicare in un modo diverso, al di là della solita conferenza sull'intercultura, con degli approcci completamente diversi, creando dei laboratori con i ragazzi in cui emergono le varie problematiche. Per questo noi vogliamo essere usate dalle istituzioni, fino in fondo, come uno strumento per le politiche culturali. Per questo chiediamo la possibilità di fare, la possibilità di stare nel mercato, di inventare, di trovare il modo perché all’interno di un mercato che è molto chiuso si aprano degli spazi anche per queste realtà poco definibili, a cui spesso mancano le parole per nominarsi. La logica che oggigiorno sta dietro ai circuiti distributivi ci esclude, e credo che sia questa logica che dobbiamo arrivare a cambiare.
L’altra sfida che giochiamo è quella della sopravvivenza economica di questa realtà. Perché ciò che ci ha mosso è stato anche la ricerca di un lavoro che renda, perché questo è un lavoro. Quindi volevamo fare anche noi economia attraverso il prodotto culturale, fare un’impresa. Il problema è come far riconoscere e come dare valore a quel valore aggiunto che offre questa impresa, per il fatto di essere fatta di empowerment, di socialità, di risposte ai bisogni di cittadinanza, di soggetti economici, culturali, politici: in che modo dare valore a tutto ciò che sta dietro il nostro agire? La nostra impresa vive perché c’è un progetto condiviso tra di noi, che trae la sua forza proprio dal senso che riveste per noi ciò che facciamo. L’associazione in cui viviamo, l’Alma Mater sposta continuamente i confini stabiliti tra l’economico e il sociale e noi viviamo combinando differenti risorse, vendiamo ciò che facciamo, per quel che riusciamo, abbiamo dei piccoli contributi dalla Regione Piemonte e poi c’è il famoso volontariato. Quello che vorremmo è spostare le quote tra queste tre voci, vorremmo che la quota del volontariato diminuisse un po’ e aumentassero le altre. Nel gruppo, quattro o cinque di noi ormai lavorano a tempo pieno perché c’è tutto il mercato della scuola, ma altre rischiano di dover lasciare l’esperienza perché ciò che ricavano di reddito da questo lavoro è troppo poco e porta via troppo tempo. Noi crediamo che questa sarebbe una grossa sconfitta. La passione che muove tutto il nostro fare è fondamentale, però la passione deve avere un valore, deve essere riconosciuta. E con questo grazie.
Le donne nell'economia globale
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