Immigrazione


Contrastare l’immigrazione illegale e il suo sfruttamento: la Direttiva europea



Yüklə 332,17 Kb.
səhifə9/9
tarix21.08.2018
ölçüsü332,17 Kb.
#73511
1   2   3   4   5   6   7   8   9

Contrastare l’immigrazione illegale e il suo sfruttamento: la Direttiva europea


Il tema delle migrazioni per lavoro sta acquistando importanza crescente a livello europeo, non da ultimo perché alcuni settori dell’economia dei paesi membri dipendono in mistura sempre maggiore dall’apporto di forza lavoro da paesi non comunitari. Si pongono quindi problemi diversi e complementari: come contrastare efficacemente l’immigrazione illegale e il suo sfruttamento economico, ma anche come attirare quei lavoratori che possiedono qualifiche elevate di cui il mercato interno è carente. Le competenze della UE nel contrasto all’immigrazione illegale stabilite dal Trattato di Amsterdam. La recente Direttiva approvata in materia rientra nell’ambito più ampio degli sforzi che la UE sta compiendo per dotarsi di una politica coerente in materia di gestione dei flussi immigratori, richiamandosi ad una raccomandazione del Consiglio del 1996.

Le cifre del problema sono ovviamente difficili da ottenere, ma si stima che il numero dei migranti irregolari presenti attualmente in Europa sia tra i 4,5 e gli 8 milioni, in crescita di 350 mila (fino a 500 mila) unità ogni anno. Dal 7 al 16% del PIL complessivo dei paesi UE proviene dal lavoro nero. Il problema, naturalmente, riguarda il mercato del lavoro nel suo complesso, ma nel caso dei migranti si intreccia ad un fattore di ulteriore rischio potenziale, in primo luogo per il migrante stesso. Così come il lavoro regolare è uno degli aspetti decisivi del processo di integrazione, l’illegalità significa impossibilità di accedere ai servizi sociali e di difendere i propri diritti.

La direttiva contiene in linea generale il divieto di impiego di cittadini di paesi terzi non legalmente residenti nel territorio della UE, e quindi implica da parte dei datori l’obbligo, prima di assumere, di assicurarsi che il lavoratore sia in possesso di un titolo di soggiorno valido per il periodo in cui intendono impiegarlo. In caso contrario è prevista l’applicazione di pene pecuniarie – multa e versamento di contributi e tasse evasi – ma anche l’esclusione dai finanziamenti e dagli appalti pubblici. Nei casi di violazioni più gravi (ad es. se il numero di migranti illegali impiegati è particolarmente alto, se la violazione è stata ripetutamente commessa, se il datore è a conoscenza che il lavoratore illegale è una vittima del traffico di esseri umani) interviene la giustizia penale. Un elemento fondamentale affinché queste misure siano efficaci è il controllo da parte delle autorità del paese membro, con particolare attenzione per i settori considerati „a rischio‟.

Tutto quanto detto finora riguarda l’aspetto sanzionatorio, ma l’altra faccia del problema e della possibile soluzione è fare sì che l’impiego di immigrati illegali non rappresenti più un vantaggio economico per il datore, in termini di basso salario, evasione contributiva e così via. Di fatto, su 27 stati membri, 26 già prevedono nella legislazione nazionale sanzioni per questi comportamenti, sanzioni che però variano notevolmente da un paese all’altro e non sempre sono accompagnate da strumenti adeguati per garantire il rispetto delle leggi. Ad esempio, Danimarca, Lussemburgo, Cipro e Irlanda non prevedono multe; Estonia, Lituania, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, Portogallo, Cipro, Malta e Svezia non prevedono procedimenti penali; in Danimarca, Polonia, Repubblica ceca e Svezia sono previste sanzioni anche per il lavoratore. Quanto alle misure

preventive, con la sola eccezione di Slovenia e Cipro, tutti gli Stati membri ne prevedono di qualche tipo (obbligo per il datore di dichiarare l’avvio di un rapporto di lavoro, incentivi economici per i datori in regola, campagne di sensibilizzazione ecc.). Un problema comune a molti Stati membri è la scarsità di risorse impegnate nei controlli da parte delle competenti autorità pubbliche, spesso accompagnata dall’esiguità di fatto delle sanzioni pecuniarie comminate. Di conseguenza, il deterrente nei confronti dei datori spesso non è sufficiente ad arginare il fenomeno.

Il testo adottato dal Parlamento europeo, tuttavia, lascia perplessa la Confederazione europea dei sindacati (CES), secondo la quale esso non riesce ad unire nel modo migliore le misure di dissuasione nei confronti dei datori che operano illegalmente con quelle volte a tutelare le vittime di questa situazione, cioè i lavoratori migranti medesimi. D’accordo con il principio generale secondo cui il datore scoperto viene condannato ad una sanzione amministrativa e al versamento dell’eventuale salario non corrisposto, la CES è invece critica riguardo ai criteri adottati nel caso in cui a commettere la violazione sia una ditta subappaltatrice. Se infatti l’impiego in nero del migrante illegale avviene da parte di una ditta che costituisce uno dei molti anelli di una catena di subappalti, il principale committente può sempre evitare le sanzioni se dichiara di non essere stato a conoscenza della violazione (anche se di fatto taluni elementi, come il costo eccessivamente basso del prodotto fornito dal subappaltatore, dovrebbero indurre quanto meno a sospettare la presenza di una situazione di irregolarità). Questo rischia di offrire ai datori la possibilità di evadere i loro obblighi ricorrendo a catene di subappalto sempre più complicate.



L’immigrazione in Europa dalla prospettiva delle donne


È relativamente scarsa, ad oggi, la ricerca che ha approfondito a livello europeo la condizione delle donne migranti, che pure rappresentano un elemento di importanza crescente nel quadro complessivo del fenomeno migratorio, anche dal punto di vista economico. Proprio di loro si occupano due recenti progetti. Il primo, condotto dall’Osservatorio europeo sulle condizioni di lavoro (EWCO) ha analizzato la partecipazione nel mercato del lavoro delle cittadine di paesi terzi e i fattori che la influenzano, tra cui particolarmente la durata della sua permanenza nel paese UE ospitante e la presenza di figli.

I risultati più evidenti sono questi: una donna migrante ha in percentuale meno probabilità di essere lavorativamente attiva rispetto a un’autoctona, e la situazione sotto questo aspetto è più evidente proprio nei paesi nei quali l‟immigrazione è di più vecchia data, come Benelux, Francia e Regno Unito (in minore misura, Austria). In Belgio, ad esempio, a fronte di un 60% di forza lavoro femminile locale occupata, la percentuale tra le donne di origine non comunitaria è solo del 44%; nei Paesi bassi il rapporto è 56% a 72%; e il gap resiste anche nel caso di donne che vivono nel paese ospitante da oltre 10 anni. Nei paesi che solo in anni più recenti sono diventati meta di immigrazione, come Grecia, Portogallo e Spagna, il rapporto si rovescia a vantaggio delle immigrate (rispettivamente: 60% a 54%, 77% a 67% e 70% a 57%).

Belgio, Francia e Svezia sono i paesi europei nei quali si registra il più alto tasso di disoccupazione tra le donne immigrate (26,9%, 20,5% e 18% rispettivamente). Il che non significa che il problema non esista nei paesi di più recente immigrazione: a livello europeo, la disoccupazione tra i migranti è del 2,7% più alta tra le donne rispetto agli uomini, e del 5,6% superiore rispetto alle europee. Ancora più difficile trovare un lavoro se la donna immigrata ha un figlio a carico di meno di 5 anni, e questo secondo EWCO è un indizio del fatto che per le immigrate è più difficile accedere ai servizi di assistenza e cura per l‟infanzia e a tutte le altre misure che aiutano a conciliare lavoro e impegni familiari.

Anche tra le donne che lavorano non mancano gli svantaggi rispetto alle colleghe autoctone, che si traducono per le immigrate in una maggiore incidenza del lavoro part-time o temporaneo non per libera scelta della lavoratrice stessa; svantaggio ancora una volta anche rispetto ai migranti maschi: ad esempio, in Belgio il 35% delle immigrate sono sottoimpiegate a fronte del 25% tra gli uomini, in Francia sono il 30% contro poco più del 15% . nei paesi di immigrazione recente, in media, più della metà delle donne immigrate ha un contratto di lavoro temporaneo.

Per quanto riguarda il tipo di impiego, se è vero che la „segregazione occupazionale‟ si fa sentire tanto per le lavoratrici migranti quanto per le autoctone e per le cittadine di altri paesi UE, risulta altresì che la gamma di occupazioni aperte alle prime è più ristretta, sostanzialmente limitata a vendita, ristorazione, servizi, assistenza sanitaria, domestica e alla persona. Avere un impiego, evidenzia lo studio, non significa automaticamente avere pari accesso ai diritti e alle opportunità che accompagnano una piena integrazione nel mondo del lavoro. Anche il possesso di una qualifica, benché naturalmente questo accresca le chance di lavorare, non implica di necessità avere un impiego consono alla qualifica posseduta, e questo vale per le migranti in misura maggiore. La conclusione dello studio è che le politiche di sostegno individuale, per quanto utili, non sono sufficienti a contrastare il problema dell’esclusione di queste donne dal mondo del lavoro, proprio perché sono molteplici gli elementi condizionanti che stanno alla base del problema.

L’altro progetto europeo che si è concluso recentemente, chiamato FEMAGE, ha lavorato attraverso interviste svolte in 8 paesi europei e tra 9 diverse etnie per delineare esperienze e aspettative delle donne migranti nei confronti della società ospitante. Per la maggioranza delle intervistate gli aspetti negativi della migrazione – senso di destabilizzazione sociale, economica, affettiva, aggravato da una percezione di „inferiorità‟ legata al genere – sopravanzano ancora quelli positivi, soprattutto nei paesi dell’Est europeo. La sensazione di dover competere con gli immigrati sul mercato del lavoro, poi, pesa in generale negativamente sulla percezione che la popolazione autoctona ha delle comunità straniere. Riuscire o meno a integrarsi lavorativamente, e quindi smettere di dipendere dal sostegno dei sistemi locali di sicurezza sociale, è percepito comunque come un elemento decisivo per l’integrazione in senso più ampio, che rimane per la gran parte delle immigrate una meta ambita (molte infatti si sono naturalizzate o hanno dichiarato che intendono farlo). La ricerca ha rilevato

tuttavia che la percezione della società ospitante da parte delle donne immigrate è in genere più positiva e meno conflittuale di quanto non avvenga in senso opposto, e questo evidenzia la necessità di sensibilizzare di più le popolazioni locali sui benefici dell’immigrazione e dell’integrazione, tenendo in particolare considerazione le peculiarità dell’immigrazione „al femminile.
INFORMAZIONI CARITAS
ROMA - Associazioni cattoliche: "senza legge giusta a rischio la sicurezza"

Se non ci sarà una legge giusta che tuteli la dignità e i diritti dei cittadini immigrati sarà a rischio quel principio di sicurezza al quale il nuovo provvedimento vorrebbe ispirarsi. E' il punto di visto delle associazioni cattoliche che hanno avuto un incontro a Palazzo Marini con i membri della Commissione Affari Costituzionali e i capigruppo alla Camera dei deputati in vista del passaggio alla Camera del disegno di legge. Acli, Centro Astalli, Comunità Papa Giovanni XXIII, Caritas Italiana, Migrantes, Comunità di Sant'Egidio hanno chiesto modifiche al ddl su questioni riguardanti aspetti 'fondamentali' della vita degli immigrati, tra cui il matrimonio, le cure mediche, la residenza, la 'tassa' sui permessi di soggiorno, il reato di clandestinità, il prolungamento della permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione. Solo una 'legge giusta' potrà davvero rendere più sicuri i cittadini, hanno spiegato i rappresentanti delle associazioni ribadendo - come avevano fatto prima della discussione al Senato - che "alcune tra le norme proposte, se approvate, influiranno negativamente sulla vita e la dignità delle persone e persino sul bene della sicurezza" che si intende tutelare. Tra queste, il reato d'ingresso e permanenza illegale sul territorio italiano. Se approvato, lo Stato "sarebbe costretto a celebrare decine di migliaia di processi che si concluderanno, in caso di condanna, con la comminazione di una sostanziosa pena pecuniaria di fatto inesigibile a carico di persone non abbienti". Inoltre, il ddl prevede - sia per i residenti italiani sia per gli stranieri - il divieto di iscrizione anagrafica in mancanza della disponibilità di un alloggio idoneo dal punto di vista igienico-sanitario. "Un progetto irrealizzabile - spiegano le associazioni - in quanto molte abitazioni italiane ne sono sprovviste, che lascerebbe "senza residenza un'ampia porzione della popolazione". Altro punto non condiviso, la possibilità della segnalazione da parte dei medici dell'irregolarità di uno straniero che si presenta per essere curato, che "indurrà molti cittadini stranieri a non farsi curare mortificando il diritto fondamentale alla salute e alle cure mediche ed esponendo la pubblica salute ai maggiori rischi sanitari causati dal diffondersi di patologie non curate". Tra i punti evidenziati anche la difficoltà del trasferimento legale del denaro che richiede all'utente straniero l'esibizione del permesso di soggiorno, e la limitazione dei diritti della famiglia, prevedendo per lo straniero privo del permesso di soggiorno l'incapacità al matrimonio con effetti civili.


(27 febbraio 2009)
GORIZIA - Caritas: ''A Gorizia è emergenza stranieri''

Troppi richiedenti asilo, troppi stranieri che si rivolgono alla Caritas in cerca di un sostegno, di un pasto, di un letto. A Gorizia come a Trieste, a Udine come a Pordenone la situazione è di emergenza, tanto che i quattro direttori delle Caritas friulane hanno deciso di unirsi per chiedere aiuto e per reclamare attenzione. E' certamente a Gorizia la situazione più delicata, perché lì a due passi, per la precisione a Gradisca d"Isonzo, c’è il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo): gli aspiranti rifugiati in attesa di entrarvi oppure quelli appena usciti si appoggiano alle diocesi, che collassano. "Da diversi mesi stiamo affrontando una vera e propria emergenza – sottolinea il direttore della Caritas goriziana don Paolo Zuttion –: a partire dallo scorso aprile infatti il numero dei richiedenti asilo entrati via terra a Gorizia è cresciuto e li dobbiamo ospitare noi in attesa che abbiano i moduli necessari all’ingresso nel Cara”. A fronte di una capienza di 19 posti le strutture predisposte sono arrivate a tenere fino a 40 persone, tanto che è stato necessario attivare un’altra sede per 24 ospiti. “Adesso con una capienza di 43 posti abbiamo ospitato fino a cento persone” evidenzia don Zuttion. E oltre ai continui arrivi degli stranieri, ci si mettono anche le leggi italiane a complicare il lavoro: “Da dicembre 2008 abbiamo dovuto fronteggiare decine e decine di fuoriusciti dal Cara, messi alla porta per legge dopo i sei mesi di presenza. Escono solitamente di sera, senza un soldo in tasca, mandati a cercare un lavoro che non si sa da dove possa arrivare visto che in generale non ce n’è”. Chiusa la porta del Centro alle spalle, dunque, il primo posto cui rivolgersi è la Caritas: ogni sera ne arrivano decine e non si sa più come gestirli. A volte vengono aiutati a raggiungere i parenti o gli amici in Italia e per questo sono già stati spesi oltre tremila euro in biglietti di autobus o treni. Poi c’è l’universo dei “diniegati”, cioè delle persone cui in prima battuta non è concesso lo status di rifugiato: la loro unica opzione è di ricorrere in appello e quindi devono restare in zona per seguire la pratica. “In una cittadina come Gorizia, che non è Milano, avere cento stranieri senza un tetto è davvero un problema”. Nelle altre sedi regionali le cose vanno un po’ meglio, ma la situazione tende sempre comunque al collasso: Trieste ha tutti i centri e i dormitori pieni, Udine è full per avere accolto le donne che in prima battuta erano state alloggiate in alberghi di Gorizia.

“Ci sentiamo abbandonati – dice don Paolo per tutti e quattro i direttori –. Chiediamo ai politici friulani un maggiore interesse e li invitiamo a promuovere un’interrogazione parlamentare: vogliamo che si dibatta la questione a livello nazionale, che si ripensi la legge perché non è possibile che dopo sei mesi in Italia una persona riesca subito a trovare un lavoro e a diventare autosufficiente, non è realistico. Noi siamo ben disposti ad accogliere perché siamo qui per questo, ma non vogliamo essere lasciati soli”. I quattro direttori si riuniranno lunedì 2 marzo alle 11 nel Centro di accoglienza San Giuseppe in via Vittorio Veneto 74 a Gorizia per una conferenza stampa. (Gig)
(27 febbraio 2009)
ROMAIn provincia di Roma 404 mila stranieri, il 7,9% della popolazione

Non mangiano alle mense della Caritas, non dormono negli ostelli notturni, non si trovano in carcere e non chiedono l’elemosina per strada. Sono gente “normale”, che condivide lo stile di vita, i gusti e le ambizioni della cosiddetta classe medio-bassa romana di cui costituisce una sorta di specchio. Intende restituire agli immigrati un’immagine che vada al di là dei fatti di cronaca il quinto Rapporto dell’Osservatorio romano sulle migrazioni, promosso dalla Caritas diocesana in collaborazione con la Provincia e la Camera di commercio di Roma e presentato questa mattina presso l’Auditorium di Via Rieti 13.

Ma quanti sono i cittadini immigrati residenti nella provincia di Roma? Per l’Istat erano 321.887 al 1 gennaio 2008, ovvero 43.347 in più rispetto all’anno precedente. Per la Caritas e il Centro studi e ricerche Idos che ha curato il Rapporto, invece, la stima delle persone straniere regolarmente presenti è di circa 404.400 (481 mila nell’intera regione). La discrepanza tra i dati Istat e i dati Caritas, spiegano i curatori del Rapporto, dipende dal fatto che l’Istituto centrale di statistica tiene conto soltanto di “coloro che hanno deciso di stabilire la propria residenza in un comune della provincia di Roma e che però non esauriscono la presenza straniera regolare perché vi è sempre un certo numero di immigrati, che pur autorizzato al soggiorno, non è ancora riuscito a ottenere l’iscrizione anagrafica e, quindi non risulta conteggiato negli archivi Istat”. La Caritas, invece, oltre a fare riferimento ai permessi di soggiorno rilasciati dal ministero dell’Interno, ha consultato anche gli archivi Inail che registrano i lavoratori assunti per la prima volta nel corso nell’anno.

Considerando il numero dei residenti in provincia di Roma, l’incidenza dei cittadini stranieri sul totale della popolazione ha raggiunto il 7,9%, una percentuale superiore a quella nazionale che si attesta al 5,8%. La Provincia romana, inoltre, catalizza l’82,3% del totale regionale (390.993) e il 9,4% di quello nazionale, confermandosi uno tra i principali poli di attrazione dell’immigrazione italiana. Il primo comune per numero di residenti stranieri dopo Roma è Guidonia Montecelio, dove i 6.244 immigrati incidono sul totale della popolazione per l’8%. In altri comuni, tuttavia, l’incidenza appare molto più elevata. Basti pensare a Fiumicino (9,1%), Fonte Nuova (12,5%) e Ladispoli (14,9%). Come accade a livello nazionale, anche nella provincia di Roma i più numerosi sono diventati i romeni: essi sono infatti 92.258, vale a dire circa un terzo del totale dei residenti dell’intera provincia di Roma. Subito dopo, però, i più numerosi non sono albanesi, marocchini e cinesi come accade nella media statistica nazionale, bensì i filippini. Complessivamente i minori di cittadinanza straniera sono 64.539 in tutta la Provincia, il 67,4% dei quali si concentra nella Capitale. Ma il dato più interessante è sicuramente rappresentato dai 45.524 minori nati in Italia che, pur essendo “seconde generazioni” a tutti gli effetti, dal punto di vista giuridico continuano a essere stranieri al pari dei loro genitori.

Nella Capitale, infine, secondo i dati dell’Ufficio di statistica del Comune (che risultano superiori a quelli dell’Istat) al 1 gennaio 2008 i residenti stranieri erano 269.649, con un aumento rispetto all’anno precedente di 19.009 persone (+7,6%). Anche se l’incremento complessivo è stato piuttosto ridotto rispetto alla media nazionale (+16,8%), negli ultimi 10 anni gli stranieri residenti nella Capitale sono quasi raddoppiati (nel 1999 erano 145.289) e attual-mente la loro incidenza è del 9,5%, a fronte del 5,8% nazionale. (ap)
(11 febbraio 2009)
ROMA - La Caritas di Roma potenzia l'assistenza agli irregolari

La Caritas di Roma si prepara a fronteggiare le "gravi conseguenze” che potrebbe causare l'approvazione della norma del  pacchetto sicurezza che prevede la cancellazione del divieto di segnalazione degli immigrati illegali che si presentano nelle strutture sanitarie. ''Nelle prossime settimane - spiega - verranno potenziate le attività di assistenza svolte dall'area sanitaria a favore degli immigrati privi di permesso di soggiorno. Allo stesso tempo, i medici della Caritas intensificheranno l'attività di animazione e sensibilizzazione verso gli operatori socio-sanitari degli ospedali e nelle strutture sanitarie pubbliche e private”. “Pur sapendo che la norma dovrà passare all'esame della Camera dei Deputati e non è ancora in vigore, e ben conoscendo lo scrupoloso rispetto della deontologia da parte del personale sanitario che ne impedirebbe la segnalazione (come tra l'altro ribadito più volte dall'Ordine dei Medici e dai maggiori sindacati e organismi di categoria), - spiega - la Caritas ritiene che il provvedimento rischia di avere dei pericolosi effetti immediati sulla sanità pubblica per il clima di paura che sta causando. Per questo si attiverà anche nel far conoscere agli immigrati che al momento possono usufruire delle cure senza alcun rischio di denuncia”. La Caritas auspica una modifica del  provvedimento nel prosieguo dei lavori parlamentari, rilanciando  le parole della Conferenza Episcopale Italiana "di fronte al problema della sofferenza, non possiamo continuare a non difendere chi ha bisogno".


(6 febbraio 2009)




Yüklə 332,17 Kb.

Dostları ilə paylaş:
1   2   3   4   5   6   7   8   9




Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©muhaz.org 2024
rəhbərliyinə müraciət

gir | qeydiyyatdan keç
    Ana səhifə


yükləyin