L'autunno dell'innocenza



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18
Camminammo per un altro miglio e poi decidemmo di mettere il campo per la notte. C'era ancora un po' di luce, ma nessuno aveva molta voglia di usarla per andare avanti. Eravamo sfian­cati dalla scena allo scarico e dalla paura sul ponte della ferro­via, ma non era solo questo. Ora eravamo nella zona di Harlow, nei boschi. Da qualche parte davanti a noi c'era un ragazzo morto, probabilmente maciullato e coperto di mosche. E di vermi, anche, ormai. Nessuno aveva voglia di arrivargli troppo vicino con il buio che veniva avanti. Avevo letto da qualche parte — in un racconto di Algernon Blackwood, mi pare — che un fantasma si aggira attorno al suo corpo finché questo non ha avuto una decente sepoltura cristiana, e nemmeno lontanamente avevo voglia di svegliarmi durante la notte e trovarmi davanti il fantasma luminoso e incorporeo di Ray Brower, gemente e farfugliante e svolazzante tra i pini neri e mormoranti. Fermandoci lì, pensammo che dovessero esserci almeno una decina di miglia tra lui e noi, e certamente ognuno di noi sapeva benissimo che non esistono cose come i fantasmi, ma dieci miglia sembravano la misura giusta nel caso che quello che ognuno sapeva fosse sbagliato.

Vern, Chris e Teddy raccolsero la legna e fecero un modesto fuocherello su un letto di ciottoli. Chris preparò una zona ripuli­ta tutt'attorno al fuoco — la legna era secchissima e non voleva correre rischi. Mentre loro facevano questo io preparavo alcuni stecchi e davo forma a quelle che mio fratello Denny chiamava «bacchette di tamburo dei pionieri» — una palla di carne ma­cinata applicata all'estremità di un rametto verde. Loro tre ride­vano e si rimbeccavano sulla loro catasta di legno (che era quasi nulla: esisteva un reparto di Boy Scout a Castle Rock, ma la gran parte dei ragazzi che frequentavano il nostro lotto di terre­no abbandonato la ritenevano un'organizzazione costituita so­prattutto da femminucce), discutendo animatamente se fosse meglio cuocere sulla fiamma o sulla brace (discussione del resto accademica: eravamo troppo affamati per aspettare la brace), se il muschio secco potesse funzionare da esca, cosa fare se avesse­ro consumato tutti i fiammiferi prima che il fuoco prendesse. Teddy sosteneva che lui sapeva fare un fuoco strofinando due bastoncini. Chris sosteneva che era così pieno di merda che cigo­lava. Non ci fu bisogno di provarci; Vern riuscì a dare fuoco alla piccola pila di rametti e di muschio secco al secondo fiammife­ro. Il giorno era immobile e non c'era vento che soffiasse sulla fiamma. Facemmo a turno ad alimentare il fuoco finché non cominciò a farsi più robusto, grazie ai rami grossi quanto un polso che prendemmo da un vecchio albero secco a una trentina di metri nel folto della foresta.

Quando le fiamme presero a calare un po', infilai nel terreno attorno al fuoco, inclinati verso la fiamma, gli stecchi delle bac­chette dei pionieri. Rimanemmo seduti attorno al fuoco guar­dandole sfrigolare e sgocciolare finché cominciarono a scurirsi. Gli stomaci intanto facevano la loro conversazione prima di cena.

Incapaci di aspettare che fossero completamente cotte, ne prendemmo una ciascuno, la infilammo in un panino, e sfilam­mo lo stecco bollente dal centro. Erano bruciati fuori e crudi dentro, e assolutamente deliziosi. Li divorammo in tre bocconi e ci ripulimmo l'unto dalla bocca con il braccio nudo. Chris aprì lo zaino (sul fondo c'era sempre la pistola) e tirò fuori una scato­letta di Band-Aid. L'aprì e diede a ciascuno di noi una Winston malconcia. Le accendemmo con rametti infiammati presi dal fuoco e poi ci sdraiammo all'indietro, uomini di mondo, a guar­dare il fumo delle sigarette che si disperdeva nel morbido crepu­scolo. Nessuno di noi aspirava perché poteva venirci da tossire, e questo significava un giorno o due di prese per il culo da parte degli altri. Ed era già sufficientemente piacevole tirare e soffiare, sputando nel fuoco per sentire lo sfrigolio (fu quella l'estate in cui imparai come si riconosce uno che sta appena imparando a fumare: se sei un novellino sputi in continuazione). Ci sentiva­mo bene. Fumammo le Winston fino al filtro, poi le buttammo nel fuoco.

«Non c'è niente come fumare dopo mangiato», disse Teddy.

«Bestiale», convenne Vern.

I grilli avevano cominciato a cantare nella penombra verde. Alzai lo sguardo verso la striscia di cielo visibile sopra il taglio della ferrovia e vidi che l'azzurro era ora avviato verso il viola. Vedere quel preannuncio di tramonto mi rese triste e calmo allo stesso tempo, coraggioso ma non proprio coraggioso, confortevolmente malinconico.

Ci trovammo un posto in piano tra il sottobosco accanto alla massicciata e stendemmo i nostri sacchi letto. Poi, per un'oretta, continuammo ad alimentare il fuoco e a parlare, quel ge­nere di discorsi che non puoi più ricordarti bene una volta che hai superato i quindici anni e hai scoperto le ragazze. Parlavamo di chi ci sapeva fare di più con le macchine, a Castle Rock, del Boston che magari quell'anno riusciva a rimanere fuori dalla cantina del campionato, e dell'estate appena passata. Teddy ci raccontò di quella volta che era stato alla White's Beach a Brun­swick e uno si era preso una botta in testa tuffandosi su un cavallone ed era quasi annegato. Discutemmo per un po' dei relativi meriti degli insegnanti che avevamo avuto. Fummo d'accordo che Mr. Brooks era la peggiore femminuccia della scuola elementare di Castle Rock — si sarebbe messo a piangere se uno gli rispondeva duro. Dall'altra parte c'era Mrs. Cote (pronunciato Cody) — lei era tra le peggiori vipere che Dio avesse mai messo sulla terra. Vern disse che aveva sentito che due anni prima aveva colpito un ragazzo così forte che quello era diventato quasi cieco. Guardai Chris chiedendomi se avesse voluto dire niente su Miss Simons, ma lui non disse niente del tutto, non vide neppure che lo stavo guardando — lui stava guardando Vern e annuendo sobriamente alla storia di Vern.

Non parlammo di Ray Brower ora che il buio si faceva vici­no, ma io pensavo a lui. C'è qualcosa di orribile e di affascinan­te nel modo in cui cala l'oscurità in un bosco, il suo arrivo non attutito dai fari o dai lampioni stradali o dalle luci delle case o dalle insegne al neon. Arriva senza le voci delle madri, che chiamano i figli dicendo basta adesso torna dentro, ad annun­ciarla. Se siete abituati alla città, l'arrivo del buio nei boschi vi sembrerà più una catastrofe naturale che un fenomeno naturale; deborda, come il Castle deborda in primavera.

E come pensavo al corpo di Ray Brower in questa luce o nella sua mancanza — quello che sentivo non era la tremarella o la paura che improvvisamente apparisse davanti a noi, verde spirito mormorante il cui scopo era rimandarci là dove eravamo venuti prima di andare a disturbare la sua pace, ma un'improv­visa e imprevista ondata di pena per lui che se ne doveva stare così solo e indifeso nel buio che ora stava coprendo la nostra parte di terra. Se qualcosa voleva mangiarlo, l'avrebbe fatto. Non c'era lì la mamma a impedirlo, né il padre, né Gesù Cristo in compagnia di tutti i santi. Era morto, ed era solo, sbattuto giù dalla ferrovia nel fossato, e mi resi conto che se non avessi smesso di pensarci mi sarei messo a piangere.

E così raccontai una storia di Le Dio, improvvisata e non un gran che, e quando finì, come quasi tutte le mie storie di Le Dio, con un solitario americano faccia di mastino che tossisce una moribonda dichiarazione di patriottismo e di amore per la ragazza che ha a casa, sulla faccia triste e saggia del sergente del plotone, non fu la faccia pallida e spaventata di qualche cono­scenza di Castle Rock o di White River Junction che mi vidi davanti agli occhi della mente, ma la faccia di un ragazzo molto più giovane, già morto, gli occhi chiusi, i lineamenti sconvolti, un rivolo di sangue dall'angolo sinistro della bocca. E sullo sfondo, invece delle botteghe e delle chiese diroccate del mio paesaggio immaginario di Le Dio, vidi solo la foresta buia, e la massicciata della ferrovia stagliarsi contro il cielo stellato come un cumulo sepolcrale preistorico.
19
Mi svegliai nel mezzo della notte, disorientato, chiedendomi come mai facesse tanto freddo nella mia stanza e chi avesse la­sciato aperte le finestre. Denny forse. Sognavo Denny, qualcosa come un giro sui pattini all'Harrison State Park. Ma quello era successo quattro anni prima.

Non era la mia stanza; era qualche altro posto. Qualcuno mi teneva in una stretta potente, qualcun altro era schiacciato con­tro le mie spalle, e l'ombra di un terzo era accucciata accanto a me, la testa china in atteggiamento di ascolto.

«Ma che cazzo?» feci, sinceramente perplesso.

Un lungo gemito in risposta. Sembrava Vern.

Questo mi mise le cose a fuoco, e ricordai dov'ero... ma che facevano tutti svegli nel mezzo della notte? O avevo dormito solo per qualche secondo? No, non poteva essere, perché un'un­ghia argentata di luna si vedeva nel centro di un cielo d'inchio­stro.

«Non farmi prendere!» borbottava Vern. «Giuro che sarò un bravo ragazzo, non farò niente di male, tirerò su la tavoletta prima di pisciare, io... io...» Con un certo stupore mi resi conto che stavo ascoltando una preghiera — o almeno quello che per Vern Tessio equivaleva a una preghiera.

Saltai a sedere, spaventato. «Chris?»

«Zitto, Vern», disse Chris. Era lui quello accoccolato ad ascoltare. «Non è niente.»

«Oh, sì che è», disse Teddy sinistramente. «È qualcosa.»

«Che cosa è?» chiesi. Ero ancora mezzo addormentato e disorientato, spostato dal mio posto nello spazio e nel tempo. Mi faceva paura essere arrivato in ritardo in quello che stava succedendo — troppo tardi per difendermi a dovere, probabil­mente.

Allora, come per rispondere alla mia domanda, un urlo lun­go e profondo si levò languidamente dalla foresta — quel genere di urlo che ci si aspetta di sentire da una donna morente in estrema agonia e in estrema paura.

«Oh-Gesù-mio!» guaì Vern, la voce acuta e piena di lacri­me. Riprese la stretta che mi aveva svegliato, impedendomi di respirare bene e aumentando il mio terrore. Me ne liberai con uno strattone ma lui ritornò strisciando come un cucciolo che non trova un altro posto dove andare.

«È quel ragazzo Brower», bisbigliò roco Teddy. «È il suo fantasma che si aggira per i boschi.»

«Oh Dio!» urlò Vern, evidentemente per niente entusiasta dell'idea. «Prometto di non rubare più i libri sporchi al Dahlie's Market! Prometto di non dare più le mie carote al cane! Prometto... prometto... prometto...» Si affannò, disposto a fa­re baratto con Dio su qualsiasi cosa, ma senza riuscire a tro­vare niente di veramente buono nell'eccesso della paura. «Non fumerò più sigarette senza filtro! Non bestemmierò più! Non...»

«Zitto Vern», ripeté Chris, e sotto il suo solito tono autorita­rio, potei sentire il rimbombo vuoto della paura. Mi chiesi se anche lui aveva le braccia e la schiena e lo stomaco rigidi e con la pelle d'oca come me, e se i capelli sulla nuca tentavano di rizzarglisi come setole, come i miei.

La voce di Vern si fece un bisbiglio mentre continuava a enumerare le riforme che si proponeva di mettere in atto se solo Dio gli avesse fatto passare vivo quella notte.

«È un uccello, no?» chiesi a Cris.

«No. Almeno, non credo. Credo che sia un gatto selvatico. Mio padre dice che fanno delle urla strazianti quando sono pronti ad accoppiarsi. Dei versi come di una donna, eh?»

«Sì», dissi io. La voce mi si spezzò in mezzo alla parola e due cubetti di ghiaccio caddero nella frattura.

«Ma nessuna donna potrebbe urlare così forte», disse Chris... e poi aggiunse disperato: «O potrebbe, Gordie?»

«È uno spettro», ripeté Teddy bisbigliando. Le lenti riflet­tevano la luce della luna in due deboli macchie, un po' irreali. «Vado a cercarlo.»

Non credo che dicesse sul serio, ma non potevamo correre rischi. Quando cominciò ad alzarsi, Chris e io lo ritirammo giù. Forse fummo troppo bruschi, ma i nostri muscoli si erano tra­sformati in cavi per la paura.

«Lasciatemi alzare, teste di cazzo!» sibilò Teddy, divinco­landosi. «Se dico che vado a cercarlo, vado a cercarlo! Voglio vederlo! Voglio vedere il fantasma! Voglio vedere se...»

Il selvaggio urlo singhiozzante si levò di nuovo nella notte, tagliando l'aria come un coltello dalla lama di cristallo, conge­landoci con le mani su Teddy — se fosse stato una bandiera, saremmo apparsi esattamente come quella foto dei marines che prendono Iwo Jima. L'urlo salì con agilità folle di ottava in ottava, raggiungendo finalmente il suo picco agghiacciante. Ri­mase lì per un momento e poi tornò giù vibrando, scomparendo in un registro basso impossibile che ronzava come un'ape mo­struosa. Questo fu seguito da quello che pareva uno scoppio di risate pazze... e poi tornò il silenzio.

«Gesù Cristo Testapelata!» mormorò Teddy, e non parlò più di andare tra gli alberi a vedere chi è che faceva quei versi. Ci stringemmo tutti e quattro vicini e io pensai di scappare di corsa. Non credo che fossi l'unico. Se fossimo stati a dormire nel campo di Vern — dove i nostri genitori pensavano che fos­simo — probabilmente saremmo scappati. Ma Castle Rock era troppo lontana, e il pensiero di tentare di correre sopra il ponte al buio mi gelava il sangue. Correre nell'altra direzione, addentrandosi nella zona di Harlow e verso il cadavere di Ray Brower era ugualmente impensabile. Eravamo inchiodati. Se c'era una bestia là nel bosco, e ci voleva, con ogni probabilità ci avrebbe avuto.

Chris propose di fare dei turni di guardia e tutti fummo d'accordo. Sorteggiammo e Vern uscì per primo. Io ebbi l'ulti­mo turno. Vern si mise a sedere a gambe incrociate accanto al bagliore del fuoco da campo mentre noialtri ci stendevamo di nuovo. Ci ammucchiammo vicini come pecore.

Ero convinto che dormire sarebbe stato impossibile, ma dormii — un sonno leggero, agitato, che oscillava dentro e fuori dall'incoscienza come un sottomarino col periscopio alzato. I miei sogni nel dormiveglia furono popolati di urla selvagge che potevano essere tanto reali quanto prodotte solo dalla mia im­maginazione. Vidi — o mi parve di vedere — qualcosa di bian­co e informe sgattaiolare tra gli alberi come un grottesco lenzuo­lo semovente.

Alla fine scivolai in qualcosa che sapevo essere un sogno. Chris e io stavamo nuotando alla White's Beach, una cava di ghiaia a Brunswick trasformata in un laghetto quando le scava­trici avevano raggiunto l'acqua. Era lì che Teddy aveva visto quel ragazzo battere la testa rischiando di annegare.

Nel sogno eravamo nell'acqua in un punto dove non si toc­cava, nuotando pigramente, con un caldo sole di giugno che splendeva. Dietro di noi, sul galleggiante, si sentivano le grida e gli scoppi di risa dei ragazzi che si arrampicavano e si tuffavano, o che si arrampicavano e venivano spinti giù. Sentivo i bidoni di cherosene vuoti che tenevano a galla la zattera urtarsi e rim­bombare uno contro l'altro — un suono non diverso da quello delle campane della chiesa, altrettanto solenne e profondo. Sulla spiaggia di sabbia e ghiaia, i corpi unti d'olio giacevano a pancia sotto sugli asciugamani, i bambini piccoli con i secchielli erano accovacciati sulla riva o sedevano schizzandosi allegramente la sabbia bagnata nei capelli con le palette di plastica, e i ragazzi più grandi si riunivano in gruppi allegri, osservando le ragazze passeggiare senza posa avanti e indietro in due o in tre, mai da sole, i punti segreti dei loro corpi nascosti dal costume da bagno. C'era gente che camminava sulla sabbia bollente sui tallo­ni, facendo smorfie di dolore, fino al bar. Tornavano con patatine, Devii Dogs, Red Ball Popsicles.

Mrs. Cote ci superò su un materassino gonfiabile. Era sdraiata sul dorso, vestita con la sua uniforme da scuola, che portava da settembre a giugno: un abito in due pezzi con un pesante maglione al posto della camicia sotto la giacca, un fiore appuntato su un petto praticamente inesistente, grosse calze elastiche color menta. Le scarpe nere coi tacchi da vecchia signora pescavano nell'acqua lasciandosi dietro tante piccole V. I capelli erano tinti e mandavano dei riflessi azzurri, come quelli di mia madre, ed erano acconciati in fitti riccioli a molla di orologio che odoravano di medicinale. Gli occhiali riflettevano brutal­mente il sole.

«State attenti a dove camminate, ragazzi», disse. «State at­tenti a dove camminate o vi colpirò così forte che rimarrete cie­chi. Posso farlo; il consiglio scolastico mi ha dato questo potere. Ora, Mr. Chambers, 'Mending Wall,' per favore. A memoria.»

«Io ho cercato di restituire i soldi», disse Chris. «La vec­chia signora Simons disse va bene ma poi se li tenne! Mi ha sentito? Se li tenne! Adesso lei che pensa di fare? Farà diventare lei cieca?»

«'Mending Wall', Mr. Chambers, per favore. A memoria.»

Chris mi lanciò uno sguardo disperato, come per dire Non te l'avevo detto che sarebbe stato così? e poi cominciò a mettersi mezzo fuori dall'acqua agitando le gambe e le braccia. Attaccò: «'Qualcosa c'è che non ama un muro, che ci manda sotto...'» e poi la sua testa andò sotto e la bocca che continuava a recitare si riempì d'acqua.

Saltò fuori, gridando, «Aiutami, Gordie! Aiutami!»

Poi fu trascinato sotto di nuovo. Guardando giù nell'acqua trasparente potevo vedere due cadaveri gonfi, nudi, attaccati alle sue caviglie. Uno era Vern e l'altro Teddy, e i loro occhi aperti erano bianchi e senza pupille come gli occhi delle statue greche. I loro piccoli peni prepuberali fluttuavano inerti dalle pance di­stese come alghe albine. La testa di Chris riemerse. Mi tese una mano ed emise un grido stridente, come di donna, che crebbe e crebbe, ululando nell'aria afosa assolata d'estate. Guardai di furia verso la spiaggia ma nessuno aveva sentito. Il bagnino, col suo corpo abbronzato e atletico adagiato sul suo sedile in cima alla torre di legno a croce, continuava a sorridere a una ragazza, di sotto, col costume rosso. L'urlo di Chris si mutò in un gorgoglio soffocato dall'acqua mentre i cadaveri lo tiravano di nuovo sotto. Mentre lo trascinavano verso l'acqua nera riuscii a vedere i suoi occhi stravolti rivolti verso di me in un'espressione di agonia supplicante; le sue mani bianche come un pesce tese disperatamen­te verso la superficie dell'acqua bruciata dal sole. Ma invece di immergermi e cercare di salvarlo, mi misi a nuotare come un pazzo verso la spiaggia, o almeno verso un punto dove toccassi il fondo. Prima di poterci arrivare — prima ancora di arrivarci vicino — sentii una mano molle, marcia, implacabile, stringersi attorno al mio polpaccio e cominciare a tirare. Un urlo mi crebbe nel petto... ma prima di poterlo cacciare, il sogno si dissolse in un grigio facsimile di realtà. Era Teddy con la mano sulla mia gamba. Mi stava scuotendo per svegliarmi. Era il mio turno.

Ancora mezzo in sogno, quasi parlando nel sonno, gli chiesi con voce impastata: «Sei vivo, Teddy?»

«No, sono morto e tu sei un negro nero», mi rispose, dissol­vendo definitivamente il sogno. Mi misi seduto vicino al fuoco e Teddy si mise giù a dormire.


20
Gli altri dormirono pesante per il resto della notte. Io continua­vo a fare dentro e fuori, sonnecchiavo, mi svegliavo, sonnecchia­vo di nuovo. La notte era tutt'altro che silenziosa; sentivo il verso trionfante del gufo che piombava sulla preda, l'esile grido di qualche piccolo animale forse sul punto di essere mangiato, un qualcosa di più grosso strisciare irrequieto nell'intrico del sottobosco. Sotto tutto questo, il canto continuo dei grilli. Di quelle urla non se ne sentirono più. Sonnecchiavo e mi sveglia­vo, sonnecchiavo e mi svegliavo e probabilmente se fossi stato scoperto a fare la guardia in questo modo a Le Dio, sarei stato portato davanti alla corte marziale e fucilato.

Feci un sobbalzo più forte uscendo dal mio ultimo sonnelli­no e mi resi conto che c'era qualcosa di cambiato. Mi ci volle un momento per capire cosa: anche se la luna era tramontata, po­tevo vedere le mani appoggiate sui jeans. L'orologio diceva cin­que meno un quarto. Era l'alba.

Mi alzai, sentendo la spina dorsale che mi scricchiolava, mi allontanai di una ventina di passi dai corpi ammucchiati uno accanto all'altro dei miei amici, e orinai nei cespugli. Comincia­vo a scuotermi di dosso le ragnatele della notte: le sentivo allon­tanarsi. Era una bella sensazione.

Mi arrampicai sui ciottoli della linea della ferrovia e mi misi seduto su uno dei binari, giocherellando oziosamente con i sassi tra i piedi, senza fretta di svegliare gli altri. In quel momento preciso il nuovo giorno pareva troppo bello per dividerlo con altri.

Il mattino arrivò presto. Il verso dei grilli cominciò a calare, e le ombre sotto gli alberi e i cespugli evaporarono come poz­zanghere dopo un acquazzone. L'aria aveva quella tipica man­canza di sapore che presagisce l'ultimo giorno caldissimo di una serie di giorni caldissimi. Uccelli che probabilmente erano rima­sti rintanati tutta la notte come noi ora cominciavano a trillare con aria di importanza. Uno scricciolo si posò in cima all'albero morto da cui avevamo preso la legna, si lisciò le penne col bec­co, e poi spiccò il volo.

Non so quanto tempo rimasi seduto lì sulla rotaia, a guarda­re il colore viola uscire dal cielo, silenzioso come la sera prima quando ci era entrato. Abbastanza, comunque, perché il mio sedere cominciasse a lamentarsi. Stavo per alzarmi quando guardai verso destra e vidi una daina, sul letto della ferrovia a meno di dieci metri da me.

Il cuore mi saltò in gola, così in alto che avrei potuto met­termi una mano in bocca e toccarlo. Sentii lo stomaco e i genita­li riempirsi di un'eccitazione rovente. Non mi mossi. Non avrei potuto nemmeno volendo. I suoi occhi non erano marroni, ma di un nero profondo, polveroso — come il velluto che si vede sul fondo delle vetrine dei gioiellieri. Le piccole orecchie erano di una pelle vellutata. Mi guardava con tranquillità, la testa leggermente inclinata in quella che mi parve un'espressione di curiosità, a vedere un ragazzo con i capelli arruffati per il sonno, con i jeans con i risvolti e una camicia beige con le toppe ai gomiti e il colletto rialzato secondo la moda del giorno. Quello che vedevo io era una sorta di dono, un dono offerto con una disinvoltura che mi spaventava.

Ci guardammo a lungo... credo che fosse a lungo. Poi si girò e si allontanò dall'altra parte della ferrovia, con la corta coda che scattava svogliata. Trovò dell'erba e prese a brucarla. Non potevo crederci. Si era messa a brucare. Non guardò verso di me, e non ne avrebbe avuto bisogno: io ero completamente pa­ralizzato.

Allora i binari si misero a tremarmi sotto il sedere e pochi secondi dopo la testa della daina si sollevò, girata verso Castle Rock. Rimase ritta lì, il naso nero che annusava l'aria. Poi in tre salti fu scomparsa, svanendo nel bosco senza altro rumore che quello di un ramo marcio, che si spezzò con uno scatto secco.

Io rimasi come ipnotizzato seduto a guardare il punto dov'e­ra stata la daina, finché lo sferragliare del treno merci non emer­se dal silenzio. Allora scivolai giù dalla massicciata fino a dove gli altri stavano dormendo.

Il lento, fragoroso passaggio del convoglio li svegliò, e si misero tutti subito a sbadigliare e a grattarsi. Ci furono un po' di battute, nervose, sul «caso dello spettro urlante», come lo chiamò Chris, ma non quanto potreste immaginare. Alla luce del sole sembrava più stupido che interessante — quasi imbarazzan­te. Meglio dimenticare.

Stavo proprio per dire della daina; ma poi finii per non farne niente. È una cosa che mi tenni per me. Finora, fino a oggi, non ne avevo mai parlato o scritto. E devo dirvi che scritto sem­bra una cosa di poco conto, quasi insignificante. Ma per me fu la cosa più bella della spedizione, la parte più pulita, e fu un mo­mento a cui mi sono trovato a ritornare, quasi inevitabilmente, ogni volta che mi sono trovato in difficoltà nella mia vita — il mio primo giorno nella foresta in Vietnam, e quel tizio uscì con la mano davanti al naso nella radura dove eravamo e quando tolse la mano naso non ce n'era perché gli era stato sparato via; quella volta che il dottore ci disse che nostro figlio più piccolo poteva essere idrocefalo (poi risultò che aveva solo una testa un po' grande, grazie a Dio); le lunghe, allucinanti settimane prima che mia madre morisse. Sempre avrei trovato che i miei pensieri tornavano a quella mattina, al morbido pelo delle sue orecchie, al lampeggiare bianco della coda. Ma a ottocento milioni di ci­nesi rossi non gliene frega proprio niente, giusto? Le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le parole le rim­piccioliscono. È difficile far in modo che un estraneo provi inte­resse per le cose belle della tua vita.


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