Il mito del Vietnam nella cultura italiana degli anni ’60



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Il mito del Vietnam nella cultura italiana degli anni ’60


Francesco Montessoro

I termini della questione


Nella seconda metà degli anni ’60, la guerra del Vietnam assunse sul piano internazionale, e dunque anche in Italia, un significato che travalicava i limiti politici e strategici di un contenzioso apparentemente locale. Il Vietnam, infatti, segnò un’epoca e un’intera generazione coinvolgendo non solo gli antagonisti – vietnamiti e americani – ma anche vasti strati dell’opinione pubblica mondiale e paesi e governi non direttamente interessati al conflitto. La decisione di Washington di intervenire in Vietnam, provocò senz’altro una prima istintiva solidarietà con i “deboli” che ardivano opporsi alla forza e agli interessi della potenza americana. Questa guerra, infatti, assunse un carattere speciale poiché non fu combattuta soltanto nelle giungle, nelle risaie e nei cieli del Vietnam, ma vide aprirsi altri fronti, incruenti, o quasi sempre incruenti, nelle piazze e nei campus universitari americani, innanzi tutto, e poi dell’Europa occidentale e di altre regioni del mondo. Questa guerra, dunque, fu combattuta anche con le armi della protesta e del dissenso civile, con la voce di chi chiese la pace e il ritiro americano dal Vietnam. Si trattò peraltro di un conflitto destinato a ripercuotersi anche sugli equilibri interni del campo socialista, lacerato da contrapposizioni sulle scelte strategiche che riguardavano le élite dei singoli paesi e, in forma più appariscente, l’Unione Sovietica e la Cina.

Il crescente consenso alle ragioni dei vietnamiti che contraddistinse i movimenti di protesta in Occidente, segnò la nascita di ciò che sarebbe ben presto divenuto un vero “mito”. Un mito destinato a scaldare i cuori in termini insoliti e nuovi, tanto che nessun altro movimento di liberazione fu circondato da un’analoga simpatia: né le guerriglie attive in quegli stessi anni in Asia e in America latina, né la resistenza algerina, prima, o quella palestinese, poi, si conquistarono un sostegno internazionale paragonabile a quello di cui godettero i vietnamiti. Soltanto Che Guevara – con il suo fascino individuale e con la sua morte – riuscì ad imporsi nel tempo come icona antimperialista, anche se la sua azione non riuscì ad acquisire risultati politici o militari effettivi e duraturi, e, come Mao, fu idolo soltanto di una parte. Il Vietnam, invece, riuscì ad accomunare individui che esprimevano tendenze culturali e politiche anche assai lontane. In Italia, il mito dei vietcong fu alimentato dai comunisti, naturalmente, e a partire dalla seconda metà degli anni ’60 dagli esponenti di un magmatico e minoritario ambiente intellettuale e giovanile marxista, o neomarxista, che non s’identificava con il Partito comunista italiano. Peraltro, nell’elaborazione di questo mito ebbero un ruolo, forse secondario ma in sé non trascurabile, anche rilevanti componenti cattoliche e liberalsocialiste, sensibili alla montante opposizione a una guerra invisa, fuori d’Italia, ai liberal americani, agli esponenti delle chiese protestanti, ai socialdemocratici dell’Europa del nord, al variegato nazionalismo dei paesi del Terzo Mondo.

La questione vietnamita, anche, divenne un mito nel senso che per vari interlocutori (sia favorevoli sia ostili ad Hanoi) gli elementi di giudizio inerenti alle forze in campo, le scelte e le ragioni di quel conflitto non si reggevano tanto su dati di fatto o su elementi obiettivi quanto su percezioni soggettive e talvolta su pregiudizi. Un atteggiamento non inconsueto e, in sé, non reprensibile né immorale e in ogni caso assai diffuso.

Il mito della resistenza vietnamita, innanzi tutto, si fondò sulla rivendicazione di Ho Chi Minh e del gruppo dirigente del Fronte di liberazione nazionale del Vietnam del sud di difendere l’indipendenza e l’unità del paese, conculcate dal regime autoritario di Saigon e dalla prevaricazione americana. Sul piano internazionale, e in ambienti eterogenei, si diffuse l’opinione che la guerra animata dai vietcong fosse “giusta”, e che la resistenza avesse una propria legittimità intendendo prima di tutto sanare un vulnus risalente alla mancata applicazione degli accordi di Ginevra del 1954. Alla crescita della solidarietà, per la verità, contribuirono anche i fattori più diversi, d’ordine culturale e addirittura psicologico: a molti, i vietnamiti sembrarono tanti Davide in lotta contro Golia. Effettivamente, il volto familiare di Ho Chi Minh, lo “zio Ho”, sulle pagine dei quotidiani o nei resoconti televisivi si contrapponeva spesso e in modo stridente all’immagine di muscolosi soldati americani.

Tuttavia, l’ampio sostegno di cui godettero i vietnamiti non era legato tanto all’immagine accattivante di un singolo leader (per quanto significative fossero le figure di Ho Chi Minh o di Giap), quanto al carattere collettivo della resistenza e, soprattutto, al suo stesso successo e alla sua capacità di costringere sulla difensiva le soverchianti forze americane. Inoltre, pesò anche l’efficacia con cui i comunisti vietnamiti riuscirono a tessere relazioni solide e durature con i più diversi interlocutori internazionali. Hanoi, innanzi tutto, riuscì ad ottenere un sostanziale sostegno politico, militare ed economico da parte di Cina e Unione Sovietica; e si trattava di un appoggio che nessuno avrebbe dato per acquisito a priori, anche per il dissidio lacerante che opponeva allora Mosca e Pechino. L’Unione Sovietica e la Cina, in realtà, cercarono di utilizzare la questione vietnamita per consolidare o conquistare l’egemonia in seno al movimento comunista internazionale, sottovalutando l’abilità dell’élite di Hanoi che riuscì a sottrarsi ai condizionamenti dei partiti “fratelli” giocandoli uno contro l’altro. In un altro contesto, inoltre, si poté misurare anche una certa capacità diplomatica dei vietnamiti nell’incoraggiare la fronda di paesi che per collocazione internazionale avrebbero dovuto essere al fianco degli Stati Uniti, come la Francia di de Gaulle. Parigi, infatti, alla metà degli anni ’60 ebbe un ruolo non secondario nell’indicare a Washington una strada diversa dall’intervento militare, difendendo nello stesso tempo un proprio ruolo autonomo nell’area. I vietnamiti, infine, riuscirono a realizzare anche una sorta di “diplomazia dei popoli”, favorendo ogni occasione per parlare agli altri, agli esponenti dei paesi non allineati e alle opinioni pubbliche dell’Occidente. Già nei primi anni ’60, infatti, Hanoi e il Fronte di liberazione nazionale sud-vietnamita avevano moltiplicato le missioni all’estero, innanzi tutto con l’obiettivo di consolidare i legami con i paesi del blocco comunista, e in secondo luogo cercando di tessere nuovi rapporti con organismi non ufficiali, con personalità degli ambienti politici e intellettuali occidentali e del Terzo Mondo ritenuti disposti a sostenere la propria causa.

La geografia politica di questa particolare offensiva diplomatica merita di essere considerata, sulla scorta delle analisi di un esperto americano, Douglas Pike, che all’epoca aveva studiato la questione per il beneficio dei servizi d’informazione del suo paese. Nel 1963-64 il Fronte di liberazione nazionale del Vietnam meridionale aveva cercato di avere rapporti con molti paesi socialisti, oltre a Unione Sovietica e Cina, come vari paesi dell’Europa dell’est, e poi Cuba e Corea del nord; tra i paesi non comunisti, all’epoca prevalsero le relazioni con l’Indonesia di Sukarno, con il Giappone, la Gran Bretagna (dove l’eminente filosofo Bertrand Russell si era mostrato assai sensibile alla causa vietnamita), poi la Francia, il Pakistan, l’India. All’Italia era riservata un’attenzione sostanzialmente marginale, per la relativa modestia del profilo internazionale e per l’assenza di una tradizione di politica asiatica del nostro paese. Solo più tardi quest’aspetto si modificherà sostanzialmente, per la crescente attenzione prestata alla questione vietnamita da parte del Partito comunista italiano e delle sue organizzazioni sindacali e di massa, e di altri interlocutori.

In Italia, per la verità, mancavano soprattutto gli “esperti”, vale a dire coloro che nel mondo accademico, nel giornalismo, nell’editoria (e, in fin dei conti, negli ambienti politici e nella stessa diplomazia) avessero una conoscenza specifica, approfondita e di prima mano del Vietnam. Alla metà degli anni ’60, infatti, furono assai pochi coloro che riuscirono ad informare e ad orientare l’opinione pubblica, e tra questi solo pochissimi potevano essere considerati esperti davvero: forse, e in un certo senso, era tale solo Enrica Collotti Pischel, allora non ancora approdata all’Università ma attiva in quella vera scuola di studi internazionali che era l’Ispi di Milano. Inoltre, in un ambiente culturale e politico in cui la conoscenza delle lingue straniere era, con poche e rilevanti eccezioni, ancora scarsamente diffusa, e si tendeva ad utilizzare il francese (e talvolta il tedesco) piuttosto che l’inglese, era stato possibile accedere con fatica e con una relativa lentezza alle fonti dell’informazione. In Italia, all’inizio, i grandi giornali non scrivevano nulla del Vietnam (con la sola eccezione dell’Unità, che per un certo periodo ebbe un inviato speciale ad Hanoi), in buona misura per reticenza e allineamento alla posizione filoamericana del governo, ma soprattutto per provincialismo. Infine, non sembra neppure ingeneroso attribuire ad alcune collaborazioni (che permisero a certi periodici di trattare la questione vietnamita) un carattere sostanzialmente occasionale, e addirittura casuale.



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