Sommario. IL dibattito antropologico tra fede e scienza



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ANTHROPOLOGIA CORDIS

Sommario.

1. Il dibattito antropologico tra fede e scienza. I.1. Il difficile dialogo tra fede cristiana e scienze positive I.2. La complessa relazione tra l’uomo, immagine di Dio, e le scienze umane. II. La sfida umana della post-modernità II.1. L’uomo senza casa II.2. L’uomo senza volto. II.3. L’uomo senza cuore. III. Anthropologia cordis. III.1. Il “pathos” di Dio all’opera in Dio. III.2. Il tema del perdono e della riconciliazione nell’agire divino. III.3. La riscoperta della misericordia-compassio.

Vorrei introdurmi con una citazione di M. Heidegger (+1976) quando scrive «Nessuna epoca è riuscita, come la nostra, a presentare il suo sapere intorno all’uomo in modo così efficace e affascinante, né a comunicarlo in modo tanto rapido e facile. È anche vero, però, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni».1 Per non lasciare un senso di amarezza critica, vorrei richiamare un passo di Hannah Arendt (+1975) che, commentando un passo di Agostino, lo traduce così: «Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare».2 Il senso della vita e della storia umana è sempre un ricominciare, un trasformare il circolo naturale del nascere e del morire in un processo umano di continua rifondazione. Citando ancora la Arendt, direi che, se «le nuove generazioni nascono sempre in un mondo vecchio»,3 ogni epoca – in particolare la nostra – ha il dovere di inventare vie nuove.



1. Il dibattito antropologico tra fede e scienza

Nel quadro di profondi cambiamenti socio-culturali, l’antropologia odierna registra un complesso dibattito tra mentalità scientifico-tecnica, filosofia umanistica a sfondo biblico, tradizione cristiana ed una rinnovata attenzione ai grandi sistemi etico-filosofico-religiosi dell’Asia. In questo dibattito, la teologia cristiana svolge un ruolo minore, praticamente inesistente; è così perché il trattato di antropologia cristiana è segnato da un peccato di origine. Nato relativamente tardi rispetto agli altri trattati, questo trattato sorge con Suarez (+1617) quando la nascente antropologia laica si stava separando dalla fede per molte ragioni che andavano dalle guerre di religione alla scoperta di persone e popoli privi di ogni conoscenza del Dio di Gesù ed alla lontananza dei dibattiti teologici dalle problematiche della vita reale.

Da qui quella svolta che siamo soliti indicare come secolarizzazione: il cristiano appariva un caso particolare di una più generale esistenza umana qualificata nella sua dignità dalle universali esperienze della ragione e della libertà. Questa obiettiva marginalità della fede porterà a tematizzare una antropologia dei due fini che per un verso intendeva aprire un tavolo – il De Deo creatore – al dialogo con il mondo nascente e, per un altro, manteneva il dato cristologico – il De gratia – isolandolo però dal dialogo culturale e riservandolo ai credenti. Nascerà così il suarezianesimo, una delle più grandi teologie missionarie dei tempi moderni ed una delle peggiori teologie della grazia. Il suo mancato dialogo con la cultura condurrà ad una antropologia centrata sui temi aristotelico-tomisti dell’anima e del corpo da una parte e sulle problematiche della grazia, del peccato e della giustificazione dall’altra.4

Ovviamente la teologia parlava della persona umana anche prima delle scoperte geografiche ma ne parlava in contesti particolari quali il commento alla Genesi, il sacramento del battesimo, l’etica dei comandamenti, i novissimi e via dicendo: la persona umana non era un punto sintetico apprezzabile, in grado di raccogliere attorno a sé la multiformità del dato teologico. La stessa trattazione della persona umana era intitolata De Deo creatore. Ancora nel 1957, Karl Rahner (+1984) parlava dell’antropologia teologica come unerfüllte Aufgabe der Theologie,5 cioè come di un compito non ancora realizzato dalla teologia, e dieci anni più tardi rincarava la gravità della denuncia imputandone la ragione alla frammentarietà della trattazione antropologica, dispersa in molti trattati. 6



1.1. Il difficile dialogo tra fede cristiana e scienze positive

Il dialogo più difficile resta quello con la scienza. Ci stiamo sempre più rendendo conto che le possibilità offerte oggi dall'innovazione scientifica e tecnologica sono tali da apportare sostanziali cambiamenti a molti quadri di riferimento concettuali e valoriali:

a nessuno sfugge che esse ingigantiscono le responsabilità morali di tutti, nei confronti delle generazioni presenti come di quelle future.

Scienza e fede appaiono due metodi di ricerca della verità. Non è facile chiarire quali siano gli ambiti di queste due modalità di conoscenza; non è facile perché entrambe hanno come oggetto la totalità dell’esperienza umana sia pure in forma diversa; se assumiamo come indicazione che il mondo della scienza è quello del cosmo e che il suo cammino rimane centrato sulla soggettività della persona, possiamo dire che la fede è aperta ad un “ulteriore” e che legge ogni cosa in questa prospettiva. Possiamo dire che una forma di “riduzionismo metodologico” fa parte della scienza: non si interessa che di quanto rientra nell’ambito sensibile; una simile prospettiva è legittima e necessaria ma, non di rado, è stata trascesa e trasformata in una negazione categorica. La storia ha conosciuto questa contrapposizione dei due saperi: mentre la scienza procede per ipotesi e verifiche, dubitando e indagando, la fede mette al centro la fiducia in Dio, l’abbandonarsi a Lui.7 Sullo sfondo di questa diversità, la scienza prima e l’illuminismo poi avevano ricondotto la verità all’evidenza razionale: anche la dignità della persona umana andava vista come una conquista della ragione. Respinta al di fuori della razionalità, la fede restava un terreno segnato da logiche autoritarie ed impositive.

A questa sfida la comunità credente aveva risposto in termini sostanzialmente apologetici, richiamando i limiti metodologici della scienza; aveva sostenuto che essa insegna il “come” dell’universo mentre la fede ne evidenzia il “senso ultimo”. Ne era venuta una radicale incommensurabilità tra scienza e fede: diverse per metodo, scienza e fede si svelavano del tutto eterogenee. Questa vicendevole estraneità era ben presto degenerata in totale indifferenza, in una ripartizione del sapere in due comportamenti stagni, privi di ogni comunicazione tra loro. La diversità era degradata in chiusura.

Il nostro tempo chiede un ripensamento di queste conclusioni; lo esigono gli studi di K. Popper (+1994), T. Kuhn (+1996) e P. Feyerabend (+1994) sulla scienza e sulla sua metodologia: questi autori hanno portato alla fine del positivismo scientifico ed al recupero della interdipendenza delle diverse forme di sapere; la coscienza del carattere probabilistico delle leggi scientifiche ha permesso di concludere che la conoscenza scientifica è certo esatta ma anche incompleta. Da qui il recupero del limite della scienza e della sua apertura ad altre forme di sapere fino ad invocare, con I. Prigogine (+2003),8 una nuova alleanza tra scienza e filosofia. Ampliando questa sua ipotesi, molti teologi pensano ad una nuova stagione di rapporti tra scienza e fede; se ne possono vedere esempi nei lavori di F. Capra (+1991)9 e di P. Davies10 che si aprono a tematiche che vanno ben oltre il puro dato scientifico. Del resto scienza, filosofia e fede sono forme di sapere universale, aperte alla totalità del reale, sia pure sotto una propria prospettiva formale.

Il dibattito resta comunque tuttora difficile: basta pensare all’astrofisica e al dibattito sull’intelligent design,11 agli studi di fisica molecolare e alla scoperta del “bosone”,12 all’ ingegneria genetica ed alla bioetica.13 Al di là dello scientismo, per nulla scomparso, il dato più positivo è la rinata volontà di un dialogo che non si fermi alla diversità del concetto teologico di «creazione» rispetto a quello scientifico di «universo», «cosmo» o «natura». Superata l’accusa di una fede antropocentrica che avrebbe legittimato una civiltà predatoria e distruttiva dell’equilibrio del cosmo, siamo ormai nell’ambito di un vivace dibattito tra fede e scienza.14 Bisogna comunque riconoscere che la teologia si trova oggi a dover inseguire un dialogo troppo a lungo disertato: il cosmo è oggi pensato come un universo in espansione, popolato da galassie simili alla nostra ma che si allontanano dalla terra a velocità elevatissime.15 Il cosmo è sempre più pensato come un processo evolutivo, come un sistema aperto capace di autoregolazione.16

Il risultato più importante di questo dialogo è stato la ripresa di una «teologia della natura»; completamente diversa dalla “teologia naturale” del passato, questa va intesa come «interpretazione della realtà conosciuta con l’esperienza alla luce della divinità già nota».17 Legata ad un quadro interdisciplinare, questa branchia della teologia si avvale di una metodologia positivamente aperta al sapere scientifico e dialogica: «non si tratta di riproporre il vecchio argomento di convenienza […]. Si tratta, invece, di attenersi al livello epistemologico della problematica e di chiedersi se il dono della fede non ha una funzione illuminante anche per lo scienziato e per la cultura scientifica: l’accesso al punto di vista altrui non fa perdere la propria specificità ma conduce ad arricchire la propria, originale capacità di osservazione e di sintesi».18

Da questa teologia della natura attendiamo una rinnovata teologia della creazione ed un effettivo discorso sulla ecologia, sulla armonia tra l’uomo e il mondo. Alcuni tentativi hanno segnato effettivi passi in questa direzione; penso a W. Pannenberg19 che parte dalla non-necessità, cioè dalla contingenza del mondo intesa come categoria biblico-religiosa, a P. Gisel20 che inizia invece il suo discorso dal Dio che fa esistere; entrambi poi risalgono così a quel Dio che precede ed è indipendente dal mondo così da pensare il cosmo come una totalità integrata nel volere divino. Se J. Moltmann21 legge questa volontà come Weltimmanenz Gottes, secondo una linea che abbandona la diversità di Dio dal mondo per vedere quest’ultimo come la sua dimora, come la sua shekinah, Ruiz de la Peña (+1996)22 e Ganoczy23 mantengono il concetto di creazione sforzandosi di legare la nozione di creatio continua con quella di evoluzione. I temi del male da una parte, dell’origine e della fine del mondo completano queste tematiche. In una parola abbiamo qui un cantiere aperto del quale si cominciano appena ad intravvedere i primi frutti.

La domanda che possiamo porre è se l’orizzonte scientifico sia veramente in grado di porsi la questione dell’intero, della totalità; il suo concentrarsi su alcune caratteristiche dell’esperienza per poi universalizzarle gli ha permesso di cogliere la complessità del cosmo e la sua articolazione in diversi livelli, gli ha permesso di postulare la necessità di un quadro complessivo nel quale tutto riceve un senso e tutto va spiegato ma solo nel quadro della esperienza fisica. Questo è un limite ma ogni forma di pensiero partecipa di questo limite: si pensa all’interno di un contesto ma il bisogno di quadro rimanda ad una ulteriorità che è indispensabile per pensare unitariamente il tutto. La scienza che si è costituita liberandosi dalla metafisica, scopre così di averne bisogno per dare un senso compiuto al proprio pensiero. L’ipotesi del “Trascendente” non è formulata dalla scienza come ipotesi scientifica ma come ipotesi razionalmente utilizzabile per esplorare quell'intero che la scienza riconosce come presente fuori e oltre se stessa.



1.2. La complessa relazione tra l’uomo, immagine di Dio, e le scienze umane

Se il dibattito con le scienze positive è difficile, quello con le scienze umane è altrettanto difficile. In termini descrittivi, si può dire che le scienze umane sono quelle discipline che studiano l’uomo e la società, affrontando obiettivamente e storicamente i fondamenti della vita sociale, le relazioni sociali, le loro istituzioni e lo sviluppo storico delle società umane. 24Tra queste scienze vi è la psicologia e la pedagogia, la sociologia e l’etnologia, il diritto e le scienze politiche, la psicanalisi e la linguistica. Tempo fa, avevano al centro la persona umana quale “oggetto” dei loro studi ma poi, progressivamente, sono andate riscoprendo la soggettività umana.

W. Dilthey (+1911), in particolare, separerà nettamente le scienze della natura da quelle scienze umane che indicherà come “scienze dello spirito”:25 a differenza delle scienze della natura, queste ultime hanno per lui come oggetto quel fenomeno storico-sociale che è l’uomo vivente. Mentre le scienze naturali hanno a che fare con dati estranei alla coscienza dell’osservatore, le scienze umane affrontano fenomeni spesso vissuti dal ricercatore stesso; ne viene una comprensione che non si fonda sulle categorie di causa, di ipotesi, di modelli, di leggi ma piuttosto sulle nozioni di vita, di scopo, di significato, di valore. Di particolare interesse è la fenomenologia che svilupperà la convinzione che la coscienza umana è sempre intenzionale e, per questo, va analizzata come sempre rivolta ad un contenuto, desiderato e cercato.26

Un simile cammino ha portato ad un netto distacco dall’antropologia dell’uomo immagine di Dio;27 Ne verrà una concezione della vita e della persona che inevitabilmente entra in un complesso rapporto con il mondo cristiano. Questo aveva normalmente analizzato il mondo vitale della persona secondo una prospettiva morale che analizzava la problematica della libertà in ordine ai temi del merito e del peccato e che riconduceva le questioni della emotività alla dinamica della concupiscenza o, più in genere, delle “passioni”. Il distacco dal quadro biblico-cristiano si muove verso una filosofia della vita che, nella sua globalità, abbandona la logica dell’adattamento all’ambiente – propria dell’evoluzionismo – per pensarsi invece come attività. Se F. Nietzsche penserà questo processo dinamico come volontà di potenza, la fenomenologia lo analizzerà nel quadro dell’intenzionalità della persona e M. Scheler lo aprirà apre ad una prospettiva sociale ed etica.

Da parte sua, il cristianesimo sosterrà che amare Dio significa partecipare al suo stesso atto d’amore per tutte le creature e, quindi, amare il mondo e l’umanità in Dio. Questa linea di fondo sarà alla base di molti sviluppi culturali, due dei quali sono qui di un certo interesse. Il primo è il personalismo, punto di arrivo di un insieme di autori diversi per mentalità e scelte che però convergono nel riconoscere la centralità della persona umana colta nella sua complessità di dati corporei e spirituali; uno degli esiti più lucidi si può probabilmente vedere nella filosofia dell’amore, uno dei vertici di queste prospettive. Penso in particolare a M. Nédoncelle (+1976)28 e a L. Lavelle (+1951).29 Il loro pensiero, nettamente credente, spiega probabilmente l’interesse di K. Wojtyla per queste correnti e sarà comunque alla base del suo lavoro Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale.30

L’altro punto di arrivo, completamente diverso, sarà invece lo strutturalismo; nella sua ricerca di un punto di vista unitario, abbandonerà i concetti classici di “natura” e porrà al centro le nozioni di “struttura”, “sistema” e “insieme” visti come indicativi di un modello latente nelle cose stesse e, per questo, capace di spiegarle secondo una logica obiettiva non dipendente dalla realtà ma espressione di una generale struttura di tutto l’esistente. Paradossalmente si può dire che siamo di fronte ad una filosofia della vita umana senza soggetto umano; la ricerca di una comprensione globale della vita non termina ad una persona ma ad un sistema anonimo.31 In pratica incontriamo una rinnovata forma di positivismo scientifico: rispetto al positivismo classico, la svolta strutturalista sta nel fatto che analizza i fenomeni umani dal di dentro, servendosi di contesti motivanti ma che non risalgono ad una soggettività umana ma sono espressione della complessità del reale.

Queste convinzioni sono alla base di alcune antropologie; tra le più note ricorderei l’Anthropologie structurale di C. Lévi-Strauss (+2009).32 Il suo intento resta l’impegno per ricercare e analizzare le strutture sociali, cioè le strutture che danno ordine alla vita dei gruppi umani: sono strutture comuni a tutto il genere umano dato che dipendono dalle strutture inconsce ed universali della mente ma si diversificano nei contenuti e nella capacità di osservazione della vita reale dei gruppi. Per vivere socialmente, le persone devono organizzare le loro esperienze e questo avviene normalmente attraverso opposizioni binarie: destra e sinistra, sole e luna, maschio e femmina, vita e morte, bene e male e via dicendo. I quattro volumi dei Mythologiques ne sono un esempio. La tensione tra “natura” e “cultura” e la sua varia interpretazione rappresenta un’ulteriore ragione di queste formulazioni antropologiche.

Senza fare un elenco dei diversi autori e delle diverse posizioni vorrei richiamare qui due autori che presento a titolo di esempio, ricordandoli per l’importanza che ognuno dei due riveste nel proprio ambito. Il primo è Arnold Gehlen (+1976).33 Proprio perché la persona umana ha tra le sue principali caratteristiche la necessità di prendere posizione su se stesso, è fondamentale non disperderne la comprensione in una multiformità di indicazioni ma offrirne una formula globale, interpretativa dell’insieme. Figlio del novecento, l’autore sa bene che non esiste una visione complessiva in grado di presentare la globalità dell’esperienza umana; non esiste perché l’essere umano, colto nella sua storicità, «è per qualche verso “incompiuto”, non “costituito una volta per tutte”».34 Questa osservazione ha il suo senso ultimo nel riconoscere che l’unità organica dell’antropologia deve essere il frutto di una pluralità di metodi, che analizzano modi diversi dell’esistere umano.

Normalmente l’antropologia di Gehlen è presentata come antropologia biologica – lui stesso la chiama così – dato che ritiene che «nell’Uomo si dia un progetto globale della natura, un progetto affatto unico, mai altrimenti tentato».35 Per Gehlen la persona umana è Mängelwesen, è un essere carente, non adattato quindi ad un preciso ambiente come richiederebbero le leggi dell’evoluzionismo; questa mancanza l’ha però obbligato ad aprirsi al mondo per costruirne uno che si adattasse alla sua vita; ha bisogno del mondo, ma per renderselo familiare lo deve adattare, assoggettare: «l’appropriarsi del mondo è un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo in uno con la sua costituzione è sempre sia un oggettivo padroneggiarsi verso l’esterno sia un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita».36 In altre parole l’antropologia di Gehlen è una sintesi di natura e cultura che chiarisce il preciso rapporto dell’uomo con il mondo: ogni ulteriorità di senso, ogni finalismo religioso gli risulta ignoto.

Il secondo è Ferdinand de Saussure (+1913),37 unanimemente considerato fondamentale nei moderni studi di linguistica. A lui dobbiamo una netta distinzione tra linguaggio e parola; questa distinzione serve a precisare il rapporto tra dimensione sociale e dimensione personale della linguistica, cioè tra “lingua” e “parola”: mentre la lingua è costituita dal codice di strutture e di regole che le persone ricevono dalla società e che non sono modificabili a piacere, la parola è il modo personale, creativo o ripetitivo, con cui un soggetto si serve di quel codice per esprimere il proprio mondo, il proprio vissuto.38 In una simile prospettiva il dato essenziale sta nella lingua mentre la parola è accidentale, è frutto dell’esercizio personale di un linguaggio sociale; il realismo di chi – come Gen 2,19-2039 pone un rapporto obiettivo e diretto tra la parola e la realtà – appare qui superato: l’«immagine linguistica» non avrebbe nessun rapporto con il «concetto» di riferimento ma solo con il sistema linguistico.40

A questo scopo elaborerà pure la distinzione tra significante e significato:41 il significato è ciò cui il segno linguistico rimanda mentre il significante è il mezzo utilizzato per esprimerlo. Pur essendo tra loro inseparabili – come le due facce di uno stesso foglio – il rapporto tra i due è arbitrario, non nel senso che ognuno lo possa costruire a piacere ma nel senso che è immotivato, privo di un necessario rapporto con il significato espresso. Il limite che Saussure ravvisa nella linguistica a lui precedente sta nell’aver privilegiato l’aspetto evolutivo della lingua – l’etimologia e le trasformazioni linguistiche – rispetto alla sfera sistematica. La sua valorizzazione dell’aspetto sociale del linguaggio farà del suo pensiero una sorta di anticipo dello strutturalismo.

L’importanza di questi studi è evidente dato che la “lingua” è lo strumento decisivo sia per configurare il cammino di una comunità alle prese con il mondo, con la propria vita e con le ragioni della sua coesione, sia per delineare il rapporto tra la realtà e la rappresentazione simbolica che ne fa la mente. La lingua organizza l’esperienza umana della vita e dà forma al pensiero co cui la persona vi abita. In poche parole una lingua è lo strumento più semplice e più appropriato per partecipare alla vita di una comunità ed esserne membro attivo. Da qui la povertà umana di chi non conosce a fondo la propria lingua e il nodo educativo scolastico del rapporto tra lingua materna e lingua scolare. L’inculturazione consiste nell’aiutare le persone a decodificare linguaggi che provengono da un mondo diverso dal loro per vivificarli in una logica di fedeltà creativa; questo impegno tocca la dimensione umana ma sta al cuore stesso di una fede che, per comunicarsi, si affida a persone in cui la fede e la Parola sono diventate una cosa sola, un’unica vita: testimoni più che maestri.

2. La sfida umana della post-modernità

Proprio la questione della totalità di quanto è verificabile e della rinascita del senso del limite e del bisogno del trascendente permette di addentrarsi nel mistero della persona umana. Henri del Lubac la sintetizzava così: valde profundus est ipse homo.42 Cercare di offrirne un quadro sarebbe rischioso. Possiamo dire che, già nel 1950, R. Guardini presagiva la nascita di una nuova concezione della vita e del mondo;43 sarà J.F. Lyotard – nel 1979 – a parlare di “condizione postmoderna”.44

Parlare della post-modernità ci permette di addentrarci nelle unquiet Frontiers of Modernity,45 cioè in quelle esperienze di persone che si sentono continuamente sfidate dalla fragilità esistenziale, dalla futilità del quotidiano e dalla mediocrità della vita reale. Provando ad arrischiare una breve sintesi di questo pensiero, vorrei richiamare le due diverse interpretazioni offerte prima da G. Vattimo e R. Rorty e poi da Z. Baumann e da Ch Taylor.

Il cuore del pensiero di Vattimo è l’abbandono della razionalità, tradizionale via di ogni cammino verso la verità dell’uomo e del Trascendente; accogliendo la precarietà, la molteplicità e la contraddittorietà di una realtà effimera,46 fa di questo pensiero debole la chiave per una convivenza meno violenta e più democratica dove la perdita della pretesa della verità della verità si accompagna con la diffusione di atteggiamenti di pluralismo e di tolleranza.

Da parte sua Rorty propone una migliore intesa con quella comunità nella quale l’individuo vive:47 questa comunità è una realtà post-metafisica che non prova rimpianti per le verità del passato né desiderio di nuove certezze. L’uomo post-moderno è una persona sola che non avverte il bisogno di quella rassicurazione offerta da Dio: gli bastano quelle “mezze verità” che lo abilitano a convivere con se stesso e la propria mancanza di fondamenti. Se qualcosa gli può servire, è una etica laica ma non una fede. Praticamente la post-modernità che questi autori riconoscono e valorizzano è una rivoluzione del mondo spirituale dell’Occidente, una riorganizzazione del suo universo culturale, una sua diversa coerenza mentale volta ad una nuova coesione sociale. Una simile prospettiva non può mancare di interpellare la fede: impone di ridefinire il significato sociale e culturale della fede oggi, in questa storia.

Diversa è invece la posizione di Z. Baumann e di Ch. Taylor: la loro presentazione della post-modernità ha un suo centro nel ripensamento della fede cristiana in questa cultura. Baumann48 Nel 1993 Z. Baumann pubblica Postmodern ethics, un testo nel quale sostiene che la moralità non dipende dalla società come vorrebbero Rorty e Vattimo ma, al contrario, la moralità è il fondamento della vita sociale. Secondo Baumann il giudizio etico compete alla persona in quanto tale e non può essere delegato a nessuno; riprendendo Lévinas, sostiene che nell’incontro con l’«altro» è insita una responsabilità incondizionata, una originaria istanza etica che si oppone al relativismo. L’incontro con l’altro è una esperienza che sfida il potere e la libertà dell’io: mettendo in questione il puro spontaneismo, l’incontro con l’altro diventa il fondamento di un nuovo, originale rapporto etico con la realtà.

Da parte sua, Ch. Taylor49 costruisce il suo lavoro come una lunga analisi storica della secolarizzazione e, tramite essa, vi coglie la presenza di una costante antropologica che sostituisce il precedente ordine socio-culturale centrato su Dio con due realtà immanenti: il controllo razionale della natura e l’espressione autentica e disinibita della propria soggettività. A suo modo di vedere, non solo queste due costanti antropologiche hanno ormai acquisito un’assolutezza storicamente pari a quella del teismo ebraico-cristiano ma hanno portato le persone a porre in modo nuovo la questione della fullness, cioè di quella pienezza e ricchezza interiore che sono il luogo simbolico di un loro integro essere-al-mondo. Questa fullness, questa pienezza umana ha mantenuto la dignità della persona ma, invece di fondarla su Dio, l’ha descritta secondo una concezione immanente che, per altro, è anche alla base di quella fragilità che accompagna oggi la nostra vita.50

Sono queste le unquiet Frontiers of Modernity a cui Vattimo e Rorty aderiscono radicalmente; mentre Baumann fa appello ad un’etica, Taylor ritiene che il cristianesimo non debba esprimere una concezione antagonista a questa società proclamando verità assolute e legandole a una fondazione metafisica e naturale ma debba accettare di collocarsi all’interno di questo pluralismo come una delle possibili scelte che le persone possono fare. Se una simile indicazione può avere un valore sociale e pubblico per il suo rimando a quella testimonianza della vita che la fede sa incarnare, è difficile riconoscergli anche un valore personale; un ordine politico che accetti la finitezza umana sa che questa produce pluralità di posizioni più che uniformità, possibilità di errori più che certezze assolute, scelte opinabili più che verità intoccabili. In questo contesto pluralista Taylor pone la questione della fullness: questo termine fa riferimento a quella pienezza di vita, a quella ricchezza interiore, a quella profonda riconciliazione che i credenti riportano all’incontro con Dio ed i non-credenti ad una sorta di autenticità umana. Se la fede può coltivare il sogno di una rinascita, di un “born-again”, è in questa sfida tra credenti e non-credenti sulla autenticità umana che la fede deve inserirsi e mostrare il suo valore. Nell’incontro con la fede l’umana esperienza della fragilization e la sua aspirazione alla fullness devono trovare la loro soluzione. La missione della Chiesa andrebbe oggi intesa in base a questa prospettiva.

Il punto basilare alla cui luce raccogliere il mistero della persona umana è il contrasto tra ricerca della totalità ed esperienza della frammentazione; la percezione della precarietà può forse dar valore alla corporeità, alla sensibilità ed alla intuizione ma rischia di lasciar nell’oscurità l’identità ultima della persona. Alla base di questi percorsi sta una totale separazione tra natura e cultura che finisce per sostituire la metafisica con il supporto tecnologico. Al centro vengono così la robotica e le biotecnologie: prolungare la vita, ritardare la vecchiaia, lenire il dolore, programmare le caratteristiche fisiche ed il temperamento del nascituro, ricombinare il DNA spostando parti di informazioni genetiche da una specie all’altra, creare nuovi alimenti, fabbricare nuove specie di viventi, dare la vita e la morte: questa utopia sta diventando realtà.

Nasce così il post-umano, una realtà che per un verso ha generato una serie di interrogativi sul futuro dell’uomo contemporaneo e, per un altro, ha visto una prima convergenza sulla difesa della dignità della persona e la ricerca di un’etica condivisa tra studiosi di diverse convinzioni.51 Questi problemi sono enormi; qui vorrei solo offrire un primo quadro di queste problematiche e presentare queste situazioni-limite e, per farlo, mi atterrò ad un comodo, forse incompleto, schema di un mio collega.52



2.1 L’uomo senza casa

Il primo ad usare questa espressione è stato M. Buber (+1965). Filosofo, studioso delle Scritture e della tradizione dei hassidim, ne Il problema dell’uomo53 osservava con acutezza la questione antropologica si ripropone sempre come decisiva in quelle epoche in cui l’uomo perde la sua ambientazione acquisita, perde cioè una posizione «sicura» nel mondo: la perdita di certezze in grado di favorire un tranquillo ritrovarsi nell’universo lo costringe a riproporre la domanda su se stesso, sulla sua essenza, sul senso della sua vita. Ci sono epoche – sostiene il nostro autore – in cui l’uomo ha una sua dimora, Epochen der Behaustheit, ed epoche in cui invece ne è senza: è Hauslosigkeit, cioè senza casa. Essere senza casa significa essere senza risposte soddisfacenti per i principali problemi dell’esistenza. La nostra è una di queste epoche. A conferma, basterebbe registrare il confronto tra il testo di J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo [1946] ed il lavoro praticamente contemporaneo di M. Heidegger Lettera sull’umanismo, del 1947.54 Del tutto ateo, pur in presenza della negazione di Dio, l’umanesimo di Sartre conclude alla affermazione della coscienza e della responsabilità umana in una sorta di disperato ottimismo. Heidegger invece prende decisamente posizione contro queste tesi e sosterrà che la riduzione dell’essere all’ente ha finito per subordinare ogni cosa alla soggettività e che, di conseguenza, ne è venuta una centralità del mondo e del dominio scientifico con una invasiva presenza della scienza che ha distrutto ogni senso di sacralità. Da qui la sua conclusione sulla necessità di un ritorno all’essere senza soggiogarlo; in altre parole il nodo dell’umanesimo e della libertà sarebbe metafisico e non ideologico.

Va da sé che quanto abbiamo detto sul post-umano va ben oltre queste posizioni. Il post-umano implica una profonda rivoluzione spirituale: il frammento prende il posto della totalità, l’originalità del singolo quello dell’insieme, la contrapposizione quello dell’unità; persa la memoria storica di un passato comune, l’unica realtà è quella del presente. Ma proprio il presente riporta al centro una sfida per la nostra inadeguatezza: la crisi economica mondiale, la guerra senza termine del Medio Oriente allargata all’Afghanistan, i sommovimenti della primavera araba, i drammi della Somalia e di tutto il Corno d’Africa, l’esplosione del fondamentalismo religioso non possono più essere ridotti a semplici episodi ma chiedono una nuova diversa interpretazione.55

Questi dati non hanno offerto per ora delle indicazioni conclusive ma alcune convergenze sembrano sempre più significative. La prima mi sembra essere il pensiero post-coloniale e le esigenze che porta con sé. La bengalese Gayatri Chakaborty, analizzando il progetto che sottostava all’impero britannico, concluderà che la englishness è una sindrome imperialista e razzista che ha contaminato l’incontro tra le culture mondiali56 e questa conclusione apre uno spazio per la valorizzazione di culture finora subalterne. Anche l’indiano Homi Bhabha, tramite un’analisi critica, ha fatto emergere i limiti di una storia coloniale che si vorrebbe grandiosa; il rifiuto di simili modi di pensiero apre la stagione di una nuova coscienza della diversità culturale, della autorità sociale e della discriminazione politica.57

In concreto la cultura post-coloniale è un ambito teorico-pratico che ripensa i sistemi della conoscenza e del potere in atto nel passato ma che lo fa in vista del presente. Oggi questo impegno incrocia forme di globalizzazione dove le ragioni profonde del colonialismo – cioè egemonia commerciale e tecnologica dell’Occidente, identificazione della civiltà con la cultura occidentale, subalternità politica e sociale delle altre culture – si sono mescolate a conflitti locali, alla corruzione di élites politiche e ad una violenza mondializzata fino a generare forme di neocolonialismo. Prenderne coscienza significa recuperare una larga disinformazione, proponendo una consapevolezza culturale ed una rinnovata sensibilità etica in grado di sviluppare una rinnovata dinamica di giustizia e di pace.58 Al di là della pretesa della salvaguardia di un’ottimale identità collettiva, che si vorrebbe occidentale e cristiana, l’insieme di queste riflessioni chiede un profondo ripensamento della vita cristiana e dei suoi compiti apostolici ed una ricerca di progetti di sviluppo sostenibile anche attraverso modelli alternativi.

La seconda convergenza riguarda il discorso di un “nuovo realismo”.59 È un tema caro a Benedetto XVI che lo ha richiamato in Verbum Domini 10,60 motivandolo in termini decisamente cristologici. La problematica culturale invece è soprattutto la presa d’atto di un cambio culturale che sta avvenendo sotto la spinta di dati ormai indiscutibili che hanno imposto la fine di alcuni miti: la convinzione che la costruzione sociale della vita umana sia frutto di dinamiche socio-economiche indefinitamente manipolabili in vista di un futuro migliore e quella conseguente che, in questo cammino, la verità e l'oggettività siano nozioni inutili. Questa visione del progresso come istanza etica di un futuro di felicità conosce oggi una netta battuta d’arresto; la stessa affermazione del pensiero debole e la convinzione che la metafisica sia inutile e ormai superata cozzano contro la necessità di un discernimento della storia in grado di chiarire e di distinguere ciò che è naturale e ciò che è culturale: ritroviamo qui spazio per un’etica ed una politica che non potranno fare a meno della filosofia.



2.2. L’uomo senza volto

Dobbiamo a E. Lévinas (+1995)61 una piena critica alla chiusura egocentrica oggi largamente dominate: tutto ruota intorno ad un “io” che guarda ogni altra realtà come esterna o, al massimo, come dotata di una funzione strumentale che la mantiene a disposizione del soggetto stesso. Ripiegato su se stesso, sul proprio “io”, lo sguardo umano resta rivolto verso il basso, verso le cose, verso il possedere; in una simile vita l’apertura all’altro, la responsabilità e l’amore per altri non é nemmeno pensabile. In realtà, già M. Buber aveva ricordato che la persona non giunge a se stessa che nel dialogo con il “tu”; andando oltre e richiamando il rischio che il soggetto si prenda cura dell’altro piegandolo ai propri interessi, E. Lévinas formulerà la tesi del volto come epifania, manifestazione e rivelazione dell’altro.

Il volto di cui parliamo è la cifra dell’altro nella sua carne, nella sua corporeità e nella sua storia; nello stesso tempo, è l’altro nel suo farsi parola, nel suo essere rivelazione di un’alterità che resiste ad ogni potere di dominarla e, nella sua libertà e nella sua povertà, instaura una prossimità che si erge solida contro ogni pretesa di assimilarla a quanto già si conosce. Nel suo volto, l’altro non è “visto” da chi – guardandolo – lo riconduce a parametri che già gli sono noti ma si rivela nella sua assoluta libertà, nel suo inafferrabile rimandare chi lo vede a qualcosa su cui non ha potere. Il volto – scriverà Lévinas – non è il risultato dei dati somatici che pure lo compongono; la vera natura del volto, il suo segreto, sta nella interpellanza che è in grado di rivolgere a chiunque lo incontra: interpellanza che è, insieme, richiesta di aiuto e possibilità di minaccia.62 Risvegliato dal volto dell’altro, il pensiero ha a che fare con una irriducibile differenza che non si piega alle dinamiche impassibili della conoscenza; l’accesso all’altro è direttamente etico: interlocutore della nostra responsabilità, l’altro chiede amore e non si rassegna a quella conoscenza che ha nell’interesse la sua sorgente ed il suo criterio. L’incontro con l’altro non genera tanto un pensiero di qualcosa o di qualcuno ma chiede di diventare pensiero per qualcosa o per qualcuno.

Incontrare l’altro è quindi ritrovarsi con una responsabilità, è scoprirsi coinvolto in una esigenza di risposta: prima di ogni personale assenso, prima di ogni patto o contratto. Nell’incontro con l’altro scatta una relazione che si produce come domanda di accoglienza e di bontà e che, come tale, interpella la stessa libertà coinvolta nell’incontro; segnato dal comandamento non uccidere, l’incontro è spazio di apprendimento e di educazione: di fronte all’altro posso tutto e, nello stesso tempo, a lui devo tutto, devo il concreto cammino della mia umanità. Il volto è spoglio, è nudo ma lo è perché questa nudità è offerta di sé ed è richiesta di accoglienza e di amore.

Il mondo umano è tenuto insieme da questi fili dove il confine tra apertura e comunicazione, tra scoperta dell’altro e responsabilità verso di lui, tra attenzione e giustizia, tra cura dell’altro e prepotenza su di lui è sottile e facilmente mistificabile. Parlare di un uomo senza volto è parlare dell’uomo incapace di incontrare l’altro nella sua profonda verità e sempre tentato di ridurlo a quanto gli è noto e gli reca vantaggio. In ultima analisi, questa incapacità di accogliere l’altro nella sua sorprendente novità, è incapacità di incontrare l’Altro per eccellenza, cioè Dio. Qui l’attenzione non si rivolge tanto all’ateismo classico ma ad una sorta di disinteresse etico e di interpretazione della vita raccolta attorno ad un codice di valori centrati sull’individuo.

L’autore che, in una serie di studi, ha portato all’estremo questa interpretazione umana è stato probabilmente Christopher Lasch (+1994) che, in una serie di studi sul periodo degli anni settanta e ottanta, ha messo a fuoco il narcisismo.63 Con questa terminologia, fa riferimento ad un periodo storico segnato dalla caduta della tensione politica, dal culto del corpo e dall’ossessione della vecchiaia e della morte, dalla liberalizzazione sessuale e da forme esasperate di edonismo. In questo modello sociale Lasch coglie una sorprendente alleanza tra il liberismo ed il libertarismo; i movimenti libertari nati alla fine degli anni sessanta, con la loro pretesa di abolire un ordine borghese presentato come autoritario e repressivo, avrebbero offerto al liberismo e cioè alla società dei consumi tutte le giustificazioni e gli alibi culturali di cui questa aveva bisogno.



Le vittime di questa inattesa alleanza sarebbero state soprattutto due: la famiglia ed una tradizione culturale, spesso legata alla visione cristiana. La famiglia, naturale argine contro ogni banalizzazione della vita, è rimasta sola a difendere l’importanza della responsabilità e del sacrificio, dello spirito comunitario e del rimando della vita ad un senso ultimo e religioso mentre la trasformazione culturale ha visto il trionfo dei modelli televisivi e l’imporsi della cultura del tutto-facile e del tutto-subito, la rimozione vittimistica degli insuccessi ed il rifiuto di responsabilità onerose.

Una società senza volto, incapace di misurarsi con i veri problemi della vita, finisce per polarizzarsi o attorno ad un ottimismo progressista che nega ogni limite o attorno ad una visione tragica che perde il senso della meraviglia e della fiducia nella bontà della vita. Nasce così una società funzionale alla conquista del potere da parte di èlites che, gestendo una massiccia intromissione dello Stato nella vita privata, conducono alla perdita di identità individuali e collettive in cambio di un facile appagamento consumistico e di una deresponsabilizzante società di massa controllata e gestita da imponenti burocrazie statali. La centralità sociale è oggi occupata da un “io” bloccato su se stesso che incontra un mondo mediatico fatto di apparenze e superficialità, di realtà virtuali quando non illusorie, che incontra una realtà levigata che non graffia e non introduce ad una reale esperienza della vita.

Una società senza volto è una società non accogliente, non ospitale: è quanto sperimentiamo a fronte della massiccia mobilità che tocca oggi gran parte del mondo. Il mio paese – l’Italia – nei primi decenni del novecento ha conosciuto una forte migrazione verso l’America; verso gli anni sessanta ha visto una grande migrazione interna, dalle regioni del sud a quelle del nord-Italia ed oggi è al centro di tutte le ondate migratorie che attraversano l’Europa da est a ovest e da sud a nord. Dovremmo aver imparato qualcosa da questa storia ma in realtà siamo disarmati di fronte a decine di migliaia di giovani e di donne che arrivano da fuori cercando lavoro e chiedendo sensibilità e attenzione per i loro diritti.

Stiamo imparando sulla nostra pelle che pregiudizi, generalizzazioni e giudizi spregiativi servono ad uno sfruttamento umano e lavorativo e promuovono metodi di controllo quasi sempre negativi. Soprattutto fanno crescere un clima sociale di sfiducia tra le persone, deprezzano valori come la solidarietà ed offrono ragioni a forme aggressive e violente di tipo xenofobo. Di fronte a un esercito di baby-immigrati che si affacciano al sistema scolastico e che chiedono di crescere accolti, vediamo crescere la paura per la diversità più che la volontà di valorizzarne ricchezza e potenzialità. Gli stessi migranti sono oggi diversi; i migranti di seconda generazione vivono la loro condizione in modo diverso e spesso, ma non sempre, sono di aiuto nel coltivare il sogno di una città che sia in grado di far crescere e di far crescere insieme. Passa da qui una difficile scommessa sul nostro futuro.

2.3. L’uomo senza cuore

«Forse è venuto il tempo – scrive Marko Ivan Rupnik – in cui si può riscoprire il cuore come luogo dell’integrazione, come luogo in cui l’uomo è già intero, non frantumato, smembrato. […] La vera integrazione avviene solo nel cuore, cioè in un contesto relazionale cui partecipano tutte le dimensioni della persona, da quella affettiva a quella razionale, da quella volitiva a quella religiosa».64 Il nostro tempo conosce una profonda divisione che attraversa l’umano: divisione tra ragione e volontà, tra libertà e responsabilità, tra affettività e norme, tra desideri e regole sociali e via dicendo. La ricerca di un punto organico di organizzazione dell’umano non può che passare attraverso la ragione ma, in molti, vi è la convinzione che la razionalità da sola non basti: occorre integrarla con una realtà superiore di cui il cuore è cifra e simbolo.

Una società senza cuore è una società senza misericordia, cinica, spietata, priva di pietà e di mitezza; per convincersi che viviamo in una società del genere basta pensare ai crimini commessi contro i bambini, contro le donne, nel nome dell’amore; prendendo atto di questa realtà non mancano autori che hanno messo l’accento sul dominio del cinismo.65 Secondo Sloterdijk, la perdita di fiducia nei valori assoluti – originata dall’illuminismo – avrebbe condotto ad un relativismo segnato da un accentuato atteggiamento cinico. La gaia scienza, di cui parlava Nietzsche, si è trasformata nella “triste scienza” responsabile della distruzione di tutto ciò in cui gli uomini credevano e su cui fondavano le loro esistenze.

Da qui la sua ripresa di una critica a religioni fondate sulla paura, all’affermazione della coscienza e dell’io come frutti della concezione borghese, al movimento operaio come pretesa di potere assoluto al pari della borghesia; da qui la sua conclusione che ogni gruppo sociale sviluppa una morale funzionale ai propri interessi e la sua proposta di una ripresa dell’antico cinismo capace di tradurre la critica nella satira e nella risata. Ma nemmeno la sua proposta soddisfa; tutto sommato si rifà agli antichi filosofi cinici in grado di affrontare le dinamiche sociali con la satira e con atteggiamenti sconcertanti forse ma pienamente liberi e vitali. La proposta di staccarsi da ogni forma di coscienza illuminata, vista semplicemente come falsa coscienza della realtà, non mi pare una proposta ma solo la rinuncia alla questione stessa del senso.



Una simile prospettiva non saprebbe nemmeno rendere ragione alle vittime ed al loro significato storico. Come spiega E. Wiesel, le vittime stanno in silenzio perché non possono parlare ma le generazioni successive, a partire da questa memoria portatrice di ferite, possono e devono formulare una coscienza socio-culturale e politica che sappia rendere loro ragione. In questo impegno i cristiani non dovrebbero essere secondi a nessuno: non dovrebbero esserlo perché il loro Dio – così si presenta in Es 34,6-7; Sal 86,15; 103,8 – è un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato».

Questa prospettiva deve accompagnare la vita e la ricerca del credente. Ancora nel lontano 1967, lo psichiatra E. Minkowski (+1972) scriveva che «l’uomo è fatto per ricercare l’umano»;66 era come dire che cerchiamo una vita che sia più della nostra stessa vita, una vita ricca di valori, di pienezza e di continuità. Si potrebbe osservare che una simile ricerca cozza contro quella precarietà che il post-moderno fa continuamente valere ma non è difficile osservare che la precarietà così esaltata è figlia del nostro tempo e della nostra cultura più che della nostra esistenza. Appartiene a questa organizzazione consumista ed edonista della vita l’aver disarticolato i tessuti sociali e comunitari dell’esistenza per sostituirvi comunità etniche, egoismi regionali, forme di xenofobia e di razzismo. Ne è venuta una massificazione mercantile e disumanizzante che ha finito per indicare come unico criterio etico un egoismo individualista; di fronte ad una simile società serve una svolta profonda, liberante e luminosa.

Andando al fondo della questione, molti pensatori hanno indicato la radice ultima di questo dramma nell’assunzione dei criteri borghesi:67 l’aver assunto il commercio e lo scambio mercantile come il criterio ultimo della vita umana e della sua organizzazione sociale ha orientato l’intera vita sociale su percorsi di selezione e di esclusione più che su cammini di solidarietà e servizio. Per questo va segnalata una corrente di pensiero che, rifacendosi all’originaria realtà dell’esistere umano, ha cominciato a pensare un mondo di relazioni personali e sociali costruite non sullo scambio ma in base all’originaria esperienza del dono.68 In termini antropologici il donare ha una profonda valenza simbolica: lungi dall’essere lungimiranza di interessi, è espressione di altruismo e di solidarietà, di gratuità e di generosità. La stessa reciprocità, che pure vi appartiene, non può esprimersi né con lo sdebitarsi restituendo subito un altro dono né offrendo poi un dono di ugual valore. In pratica il dono introduce una maniera festosa e positiva di intendere i legami sociali.

Porlo alla base delle relazioni umane e sociali significa ripensarli in un quadro nuovo che comprende gioia di stare insieme e vicendevole misericordia, compassione e perdono, accoglienza e volontà di pace. Questi atteggiamenti, lungi dal ridursi a semplici reazioni emotive, dicono la volontà e l’impegno per cambiare le cose. Si tratta di un impegno umano che accompagna una partecipazione intensa per motivazioni e affettività con una forte spiritualità e che, tramite questi atteggiamenti, ripensa a fondo quella dinamica antropologica e sociale che aveva trovato nel dono una sua espressione fin dalle origini dell’umanità stessa.

Tra gli autori che hanno provato a sviluppare una simile antropologia, richiamo soprattutto Roberto Mancini, docente di filosofia teoretica presso l’Università di Macerata.69’Quando il dono impegna l’esistenza, si traduce in relazione interpersonale e cura della sua qualità; se non si vuole che questo atteggiamento si arresti alla superfice esteriore, bisogna recuperarne la vera sorgente che, per Mancini, è la creaturalità umana. In effetti la creaturalità comporta una relazione fondativa con l’Altro, una relazione cioè con quel Dio che ci accompagna con cura materna e paterna. Cogliere nella nostra vita l’attesa di questo Altro e viverne l’esperienza comporta un impegno per fare della propria esistenza un dono per il bene degli altri. Se un credente ne può cogliere la mistica profondità, tutti possono avvicinarvisi attraverso quella solidarietà e quel servizio all’altro che l’amore sa motivare e giustificare. Rimettere un simile atteggiamento al centro della vita sociale è riportare un mondo senza cuore alla sua verità, alla sua profonda identità.


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