La vita e I miracoli



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Abbiamo preso Macallè – disse trionfante Padre Filippo, un giovane religioso cappuccino di pas­saggio a San Giovanni Rotondo. Si era presentato nella sala della ricreazione con un giornale in mano e il viso raggiante. - Fai vedere. - Alcuni frati gli si avvicinarono per leggere la notizia. Padre Pio non si mosse. Stava guardando fuori della fine­stra e non si girò neppure verso i confratelli eccitati. Le notizie belliche di quel periodo, che riferivano delle vittorie della campagna italiana nell'Africa Orientale, lo rendevano triste. - Non hai spirito patriottico - lo rimproveravano i confratel­li. E ogni volta che erano annunciate nuove imprese, cercava­no di coinvolgerlo. - Abbiamo conquistato Amba Alagi. - Siamo entrati in Addis Abeba. - Il Duce ha proclamato l'Impero. - Mussolini ha stretto un patto con Hitler e ha proclamato l'asse Roma-Berlino. Padre Pio taceva e pregava. Aveva fama di grande veggente. Pa­dre Agostino e Padre Benedetto lo avevano interrogato spesso sul­le sorti dell'Italia all'inizio della prima guerra mondiale. E anche adesso arrivavano personalità ecclesiastiche e politiche a chiedere consigli. Il Padre non gradiva domande su quell'argomento e dava risposte sibilline, polemiche. - Non dobbiamo dimenticare il sangue che scorre in Spagna. Sangue chiama sangue - ribatteva a coloro che magnificavano le vittorie fasciste. - Che significa, Padre? - L'Europa piangerà tanti morti... Una follia infernale ci tra­scinerà nell'abisso. - Siete sempre pessimista, Padre. Perché non festeggiate anche voi le conquiste africane del nostro paese? - Non è terra nostra. Noi perderemo malamente ciò che ab­biamo rubato. Perderemo Tobruk, la Cirenaica... E poi ci ritirere­mo fino a Bengasi... e poi fino al deserto, e poi fino a Tripoli... e poi in Sicilia... e poi in Italia. - Dite sul serio? Avverranno di sicuro queste sciagure? - Anche di peggio, fratello, molto peggio. 112 febbraio morì Pio XI. Ai primi di marzo fu eletto Papa il cardinale Eugenio Pacelli, che prese il nome di Pio XII. - È”nu bello Papariello - commentò il Padre. - Lasciate in pace Padre Pio - fece sapere subito Pio XII alla Curia vaticana. Il nuovo Papa conosceva la storia del celebre frate. Una sua sorel­la, Maria Teresa Pacelli Germi, era devota del Padre e informava il fratello di tutto quel che accadeva a San Giovanni Rotondo. Nel 1932, quando il cardinale Pacelli era da poco diventato segretario di Stato di Pio XI, l'avvocato Francesco Morcaldi, che si batteva per liberare Padre Pio dalla "segregazione" ordinata dal Sant'Uffi­zio, gli aveva inviato una lunga lettera in cui riassumeva tutta la storia del Padre e invocava un suo intervento. Nella veste di segretario di Stato, il cardinale Pacelli aveva dife­so il Padre nei limiti di quanto poteva fare senza intromettersi in problemi che non erano di sua competenza. Ma adesso che era Papa aveva deciso di proteggerlo. Per Padre Pio inizio un periodo caratterizzato da una certa li­bertà d'azione, che gli permise di realizzare grandi opere. Intanto, l'Europa era travolta dalla guerra. Cleonice Morcaldi aveva ottenuto un posto d’insegnante a San Giovanni Rotondo e ne era molto felice. Dopo la morte della mamma, era rimasta praticamente sola, poiché i suoi fratelli e sorelle si erano sposati. - Perché non vieni ad abitare vicino al convento? - le suggerì Padre Pio. – Saresti più comoda per raggiungere la chiesa e pre­gare il Signore. Cleonice aveva scelto di dedicare la propria esistenza a Dio e al­le opere del Padre. Vendette la parte della casa paterna che le spet­tava e, aggiungendo al ricavato i propri risparmi d’insegnante, si fece costruire una casetta nei pressi del convento. Viveva come una monaca: tutto il tempo libero lo dedicava alla preghiera. Trascorreva ore e ore inginocchiata in chiesa davanti al tabernacolo. Ogni giorno, finite le lezioni scolastiche, si affrettava verso il convento. Arrivava in tempo per vedere Padre Pio che, terminato il pranzo, usciva dal portone del convento e si recava in chiesa per le preghiere di ringraziamento. Al termine delle preghiere il Padre sostava sul piazzale per fare un pò di ricreazione, e allora era pos­sibile avvicinarlo, parlargli. A volte c'erano diverse persone, altre volte nessuno, soprattutto in quei mesi invernali, dopo che era scoppiata la guerra. E Cleonice era contenta di restare sola a con­versare con Padre Pio. Erano i momenti delle domande, delle con­fidenze. Aveva preso l'abitudine di mettere per iscritto tutte le ri­sposte del Padre. Era sicura che le sue parole costituissero delle indicazioni preziose, da conservare e trasmettere. Un giorno il Padre, uscito da chiesa, si avviò verso la montagna. Oltrepassò la spianata del sagrato e si incamminò tra le pietre. I suoi piedi feriti si muovevano incerti sul terreno accidentato. Cleonice gli stava appresso preoccupata. Il viso del Padre era radioso, ispira­to, sembrava che vedesse di fronte a sé non quel pendio roccioso e deserto, bensì costruzioni meravigliose, un villaggio pieno d’animazione. Guardava e sorrideva. E continuava ad andare avanti, in­curante degli ostacoli che incontrava sul terreno. Padre, state attento a dove mettete i piedi. Potreste cadere e fe­rirvi - gli consigliava preoccupata Cleonice, che faticava a seguirlo. Lui non rispondeva. Sembrava non sentire le sue parole e conti­nuava a procedere incurante dei pericoli. - Padre, il vostro passo è traballante. Ecco, attento, quella pie­tra non è solida, rischiate di inciampare... Niente. Padre Pio era assente, distratto, rapito in altri pensieri. Ma, Padre, dove state andando? - lo supplicava Cleonice. - Qui ci sono solo sassi, non c e sentiero. - Li toglieremo tutti, questi sassi - disse finalmente Padre Pio, come svegliandosi da un sogno. - Li porteremo via e faremo tut­to il resto con l'aiuto di Dio... Poi, rivolgendosi a Cleonice, aggiunse quasi a spiegare il suo in­solito comportamento: - Mio cibo è fare la volontà del mio Signore... Mio pane quo­tidiano e mia delizia è la sofferenza. - perché siete venuto ad esplorare la montagna? - gli domandò Cleonice. - Prega, figliola, perché si compia il disegno di Dio così come Lui vuole. Dio è Provvidenza, Dio provvede. - Padre, non vi capisco. - Vedi, il buon Dio mi ha affidato una missione terrena: la fondazione di una clinica per i poveri infermi d'anima e di corpo. - E proprio su questa montagna arida e sassosa vuole una cli­nica? - domandò Cleonice in tono ironico. - Smembreremo tutta la montagna. - E con che mezzi? - Con quelli del Signore. - È un lavoro ciclopico. Occorreranno soldi a palate. - Non ti affannare. Le offerte verranno, spontaneamente e in abbondanza. La clinica sorgerà, e sarà bella e grande. Quello di Padre Pio era un progetto ambizioso. Cleonice, pur avendo una grande fiducia in lui, lo riteneva assurdo. - Chi verrebbe mai a farsi ricoverare quassù? - domandava al Padre tutte le volte che lui riprendeva a parlare del suo progetto. - La gente di San Giovanni è povera, non ha soldi per farsi cura­re in una clinica. È un sogno irrealizzabile, un'utopia. Il Padre sorrideva. - Non sono io, figliola, a volere una clinica quassù - le ri­spondeva. - Io sono soltanto un piccolo inutile mezzo nelle mani del Signore. Lui ha i suoi fini. Il mio compito è rendermi utile, col­laborare alla loro realizzazione. A qualcuno dei suoi amici aveva fatto capire che la clinica gli era stata chiesta da Gesù stesso, durante una visione. Perciò costruirla era diventato un suo pensiero fisso. "La mia grande opera terrena" la chiamava, facendo intendere che sarebbe stata come la "sintesi" visibile e concreta della sua missione. Era un sogno che, in realtà, coltivava da anni. La sofferenza fi­sica degli ammalati aveva sempre sconvolto il suo animo. Nel 1914, confidandosi con il direttore spirituale, gli aveva scritto in una lettera: mi pare che Iddio abbia versato nella mia anima molte grazie ri­guardo i poveri bisognosi. Alla vista di un povero provo una grandissi­ma compassione e desidero subito soccorrerlo. Se dessi ascolto al mio cuore, sarei disposto a spogliarmi anche dei vestiti per darli a lui. Se poi il povero è anche ammalato, sarei disposto a prendere su di me tut­te le sue afflizioni, pur di liberarlo. Nelle sue conversazioni il Padre ricordava spesso l'esperienza militare compiuta all'Ospedale Trinità di Napoli. Ricordava lo smarrimento dei giovani soldati ammalati che aveva conosciuto in quell'enorme costruzione. Erano sofferenti, tristi, lontani da casa, erano trattati come oggetti, umiliati, trascurati. Nei loro occhi leggeva una pena infinita. - In ogni uomo ammalato vi è Gesù che soffre! - diceva ai suoi amici. - In ogni povero vi è Gesù che langue! In ogni amma­lato povero vi è due volte Gesù che soffre e langue. E ancora: - L'uomo che, superando se stesso, si china sulle piaghe del fratello sventurato, eleva al Signore la più bella, la più nobile pre­ghiera, fatta di sacrificio e d’amore vissuto. Nel 1919, quando si era diffusa la notizia delle stigmate, erano iniziati i pellegrinaggi della speranza a San Giovanni Rotondo, e su­bito Padre Pio aveva pensato al sollievo di quelle persone sofferenti. - Arrivano qui in cerca di conforto spirituale e materiale - di­ceva. - Dobbiamo dare loro l'aiuto più sollecito. L’ospedale più vicino era a Foggia: 40 chilometri di strada disa­giata. Nessuno degli ammalati poveri di San Giovanni Rotondo o dei paesi vicini si sarebbe mai potuto far ricoverare e curare a Fog­gia. E se gli ammalati che venivano da lontano per incontrare Padre Pio avessero avuto bisogno di un ricovero urgente, sarebbe stato molto problematico aiutarli. Così lui aveva deciso di fondare un ospedale. Lo progettò con gli amici medici di San Giovanni Rotondo, e nel 1925 ci fu l'inaugurazione. Il Padre ne affidò la direzione al dottor Merla, che, affascinato dalla personalità del religioso stig­matizzato, aveva abbandonato l'ideologia comunista per diventa­re un fervente cristiano. Padre Pio, però, in quel periodo era nel mirino del Sant'Uffizio. Le autorità ecclesiastiche ostacolavano la sua attività in ogni mo­do. Divieti, restrizioni, limitazioni, proibizioni si susseguivano in continuazione, fino ad arrivare alla "segregazione" totale, che durò tre anni. Il Padre non poté seguire la sua creatura come sa­rebbe stato necessario, e l'ospedale, che aveva chiamato "Ospeda­le di San Francesco", non ebbe fortuna. Divenne una struttura fa­tiscente, abbandonata, e nel 1938 crollò in seguito ad alcune scosse di terremoto. Nel cuore e nella mente del Padre, tuttavia, restava il suggeri­mento di Gesù. E lui non dimenticava: la sua mente continuava a progettare, studiare, verificare. Nel 1929 alcuni amici di Roma lo avevano invitato a partecipa­re ad una società per azioni, legata ad una serie di brevetti degli in­ventori Fausto Zarlatti e Umberto Simoni che avrebbero rivolu­zionato il sistema ferroviario mondiale. Questi amici erano il conte Vincenzo Bajocchi, il conte Alessandroni, l'avvocato Anto­nio Angelini Rota e l'ingegner Umberto Simoni. - Non posso - rispose. - Come religioso sono legato al voto di povertà, che mi impedisce di entrare in una società per azioni. La vostra offerta, comunque, è provvidenziale. Voi sarete i primi a collaborare alla mia grande opera terrena. - Quale opera? - Lo saprete a suo tempo, ora non posso parlare. Se siete d'ac­cordo, mi faccio rappresentare nella società da un mio figlio spiri­tuale, Emanuele Brunatto. È un tipo un pò ribelle, ma capacissi­mo. Lui saprà divulgare bene il brevetto e riuscirà a farlo fruttare. Brunatto entrò nella società come prestanome di Padre Pio. Si tra­sferì a Parigi e affrontò un lavoro massacrante per vendere all'estero quel brevetto, che in Italia invece era ostacolato da alcune forze po­litiche. Il Padre lo seguiva da lontano e con la massima discrezione. Intanto sceglieva le persone che lo avrebbero aiutato nel suo progetto. Non era facile trovarle. Nessun professionista avrebbe mai accettato di lavorare ad un progetto come quello che prospet­tava Padre Pio: costruire una clinica sul fianco di una montagna, in un luogo lontano dai grandi centri, tagliato fuori dalle vie di comunicazione, dove non c'era neppure un acquedotto. E farlo senza un piano finanziario sicuro. - Con quali mezzi realizzerete la clinica? -gli aveva domanda­to Cleonice il giorno in cui il Padre le aveva confidato il suo sogno. - Con quelli del Signore - aveva risposto lui. Il Signore era la sua banca. Tuttavia, ingegneri, impresari, progettisti e ammini­stratori volevano qualche cosa di più concreto. Padre Pio sapeva che doveva "prepararsi" i collaboratori cer­cando uomini capaci di credere nei sogni. Il dottor Guglielmo Sanguinetti era nato a Parma, ma viveva ed esercitava la professione di medico a Borgo San Lorenzo, nel Mu­gello. Era un medico eccezionale, molto preparato, coscienzioso, amato dai suoi pazienti, ma imbevuto da quell'anticlericalismo e materialismo ateo che andava di moda soprattutto tra i medici al­l'inizio del secolo. - Vorrei andare a San Giovanni Rotondo - gli disse un giorno la moglie, signora Emilia. - A far che? - domandò il dottor Sanguinetti. - A vedere Padre Pio. Ci vanno tutti... Il medico, che aveva un'autentica venerazione per la moglie, non volle contraddirla ma precisò subito: - Io non voglio avere niente a che fare con quel frate. Posso ve­nire con te, ma solo come tuo autista. - Va bene - disse la moglie ridendo alla manifestazione di scetticismo del marito. Fecero il viaggio il 28 giugno 1935. Ogni giorno il dottor Sangui­netti accompagnava la moglie con l'auto fino al convento e se ne stava fuori dalla chiesa. Una mattina, tuttavia, incuriosito, volle as­sistere alla Messa. E poi, sempre spinto dalla curiosità, raggiunse anche lui la sacrestia per vedere quel religioso da vicino. Il Padre si stava togliendo i paramenti sacri. Sanguinetti si mi­metizzò nel gruppo dei presenti. Quando ebbe finito, il Padre si girò, puntò gli occhi dritto verso di lui, lo chiamò per nome, come se lo conoscesse da sempre, e gli disse: - Tu devi venire qui ad aiutarmi a costruire un grande ospedale. Il dottor Sanguinetti si mise a ridere, ma rimase molto impres­sionato dal fatto che il Padre lo avesse chiamato per nome. "Chi gli avrà parlato di me?" si interrogava turbato. I coniugi Sanguinetti dovevano restare a San Giovanni Rotondo alcuni giorni, ma il medico non si decideva a ripartire. Tornava con­tinuamente al convento e si aggirava inquieto sul sagrato. Non par­lava neppure alla moglie di ciò che stava accadendo nel suo cuore. Dopo qualche giorno Padre Pio si affacciò sulla porta della chiesa e, vedendo il medico, gli parlò come se stesse continuando il discorso iniziato giorni prima: - Vendi quel poco che hai a Firenze e vieni ad abitare qui da me. - È impossibile - rispose Sanguinetti. - A Firenze ho i miei pazienti, i miei affari, la mia attività. E poi io non sono un medico ricco, non ho risparmi per potermi costruire una casa in questo paese. - Tu hai una carta che risolverà presto i tuoi problemi - sen­tenziò il Padre e si allontanò. Sanguinetti, tornato a Firenze, continuava a pensare alle strane parole di Padre Pio. Un giorno gli fu comunicato che aveva vinto un grosso premio. Da tempo possedeva dei buoni del tesoro e, in seguito ad un'estrazione, aveva vinto una somma rilevante. In quel momento capì il significato delle parole del Padre. "Lui sapeva già" disse fra sé. "Devo andare da lui." E divenne uno dei primi collaboratori del Padre nel progetto della costruzio­ne di una grande clinica. Carlo Kiswarday era un farmacista di Zara. Era un uomo mol­to ricco. Possedeva una farmacia, case e terreni. Era sposato con Mary, una signora gentile, figlia di un conte, e non avevano figli. Cattolico fervente, era affascinato dai segni carismatici. Avendo saputo che in Germania viveva una certa Teresa Neumann, aveva detto alla moglie: - Dobbiamo andare a conoscerla. Erano partiti in treno. A Bressanone, durante una sosta in sta­zione, si erano messi a conversare con dei passeggeri tedeschi, che dissero loro: - Anche voi in Italia avete un grande stigmatizzato. - Mai saputo - rispose il dottor Kiswarday. - Padre Pio da Pietrelcina, un frate cappuccino che vive in Pu­glia, a San Giovanni Rotondo. È ritenuto un grande santo. Intor­no a lui accadono prodigi strepitosi di cui si parla ovunque. - Allora andiamo da Padre Pio - disse il farmacista alla mo­glie. Scesero dal treno e cambiarono itinerario. - Fatti una casetta qui - gli suggerì Padre Pio dopo averlo co­nosciuto. - Ti voglio vicino a me, ti voglio molto vicino a me. Il dottor Kiswarday cominciò a recarsi a San Giovanni Rotondo con frequenza. Comperò del terreno e si costruì una casa. Padre Pio gli fece conoscere il dottor Sanguinetti, di cui divenne amico. Il Padre poi chiamò anche un agronomo di Perugia, il dottor Mario Sanvico, che aveva una fabbrica di birra. - Ti voglio qui, mi servi - gli disse. - Sono a disposizione - rispose Sanvico. Un medico, un farmacista, un agronomo: "Tre moschettieri" pronti a gettarsi nella mischia per Padre Pio. La guerra incombeva. A Bari una compagnia d’attori comici si sforzava tutte le sere di far ridere la gente. Gli attori, giovani e squattrinati, erano pieni di problemi. Ce n'erano due molto legati tra di loro: Carlo Campanini, torinese, e Mario Amendola, romano. Delusi dalla vita e dalla loro attività, che non presentava sbocchi per l'avvenire, discutevano spesso insieme ponendosi a volte anche problemi filosofici. - Un tempo era facile credere in Dio - affermò una sera Cam­panini. Era l'inizio della Settimana Santa del 1939. Il richiamo della vicina Pasqua aveva portato le loro discussioni su temi reli­giosi. - Un tempo - continuò - c'erano grandi santi, come San Francesco, Sant'Antonio, San Giovanni Bosco, che compivano miracoli. E la gente, di fronte ai loro prodigi, era costretta a riflet­tere, ad interrogarsi. Oggi i santi non esistono più, non avvengono miracoli, e nessuno pensa più a Dio. - Non è vero - rispose Amendola. - I santi ci sono anche og­gi, basta cercarli. - E dove li trovi? Se ce ne fosse almeno uno, tutti quanti ne parlerebbero. - Proprio qui in Puglia - ribatté Amendola - c'è un frate santo che fa cose straordinarie. - Di che genere? - È un portento: guarisce, ti legge nell'anima, aiuta la povera gente. - Ho bisogno di soldi - disse ridendo Campanini. - Be', aiuta anche chi ha bisogno di soldi. - Figurati! È forse un santo ricco sfondato che firma assegni milionari a chiunque gli chiede aiuto? - domandò con ironia Campanini. - È un povero frate, ma di quelli che ti danno una mano. Un mio cugino è stato salvato dalla disperazione da lui. Era nei guai fino al collo: senza una lira, senza lavoro, era andato volontario a combat­tere in Spagna pur di fare qualcosa. Una volta tornato, sua moglie gli aveva detto: «Se sei qui, lo devi a Padre Pio, che ha pregato per te. Gli ho fatto voto che saresti andato a ringraziarlo". "Allora mio cugino partì per San Giovanni Rotondo e raccontò al Padre la sua disastrosa situazione. Il frate gli disse perentorio:”Torna nella tua città natale, Falconara'.”Non è possibile”rispose mio cugino.”A Roma ho degli amici che ogni tanto mi aiutano, a Falconara morirei di fame.”'Vai a Falconara”gli ripeté Padre Pio. "Mio cugino tornò a Roma e riferì alla moglie, che lo convinse ad ascoltare il consiglio del Padre. E così si trasferì con tutta la fa­miglia nella città marchigiana. Lì incontrò sua madre, che alcuni mesi prima se n'era andata da Roma per non pesare su di lui, e ora cercava di sopravvivere chiedendo la carità sulla porta delle chiese. Si erano riuniti e trascorsero due mesi tra incredibili difficoltà. "Un giorno arrivò da Ancona un signore che cercava proprio mio cugino. Gli disse:”Vengo da parte delle autorità fasciste. Il fe­derale vi aspetta domani mattina nel suo ufficio. "Mio cugino andò all'appuntamento. Il federale gli disse:”Voi avete combattuto in Spagna e quindi sapete parlare lo spagnolo'.”Sì, Eccellenza”rispose mio cugino.”Bene, abbiamo bisogno di voi', e sull'istante gli fece un contratto di 100 lire al giorno, 3000 ire al mese. Hai capito? C'è la canzone che dice”Se potessi avere 1000 lire al mese', e lui ne riceve 3000. Ora sta proprio bene, è di­ventato ricco e non finisce di ringraziare Padre Pio." - Per la miseria, questo Padre Pio è un mago fantastico! - commentò Campanini, che aveva ascoltato con stupore il raccon­to. - Perché non andiamo anche noi da questo frate? - Be”- disse Mario Amendola - San Giovanni Rotondo non è lontanissimo da Bari. Si potrebbe organizzare un viaggio. - Giovedì e venerdì non si lavora per via della Settimana San­ta, potremmo fare una capatina. Nelle prime ore del pomeriggio di quel giovedì santo, i due attori erano a San Giovanni e si aggiravano intorno al convento di Santa Maria delle Grazie. Scanzonati, scettici, irriverenti, curiosavano dappertutto e distraevano i fedeli con le loro battute dissacranti. - Che volete? - domandò loro il Guardiano del convento. - Parlare con Padre Pio - risposero. - Non è possibile. Il Padre non riceve in questi giorni. Le sue ferite gli provocano dolori e sanguinano tutto l'anno, ma durante la Settimana Santa lo riducono in uno stato pietoso, per questo motivo non riceve nessuno. - Ma noi siamo attori, veniamo da lontano e abbiamo solo questi due giorni liberi. La nostra compagnia sta lavorando a Bari. Siamo fermi oggi e domani per la Settimana Santa, però sabato sera ripren­diamo lo spettacolo e non avremo altra occasione di venire quassù. Dalla chiesa uscì un frate dall'aspetto severo che a Campanini sembrò altissimo. - Neanche in questi giorni mi lasciate pregare... - disse con un tono di voce cupo. - Cosa volete? Campanini capì che quello doveva essere il religioso mago. - Padre, siamo due poveri artisti - disse cercando di suscitare compassione nel frate. - Tutti siamo poveri - gli fece eco Padre Pio. - Sono un attore comico e giro il mondo facendo il buffone - disse ancora Campanini. - Anch'io sono un buffone - ribatté il Padre. - La mia è una vita infernale - insistette Campanini. - Viag­gio tutto l'anno come uno zingaro. Sono sposato, ho tre figli. Per il mestiere che faccio, dalla legge sono considerato senza fissa di­mora, e nessuno vuole affittarmi una casa. Mia moglie lavora con me e dobbiamo lasciare i figli a una cognata. Vorrei trovarmi un lavoro che mi permettesse di restare accanto ai miei figli. - Io sono un sacerdote - disse Padre Pio. - M’interesso del­le cose dello spirito. Dovete venire qua per confessarvi, non per chiedere lavoro. Andate in chiesa a prepararvi, vi confesserò do­mattina dopo la Messa. - Ma noi... - Campanini voleva dire che non erano venuti per la confessione, ma il Padre era già rientrato in chiesa. - Che facciamo? - domandò Campanini all'amico Amendola. - Ormai siamo qui, ed è già sera. Ci torna conto aspettare. Ve­diamo che succede domani. La mattina seguente i due attori si alzarono prima dell'alba per arrivare presto in chiesa e prendere posto in prima fila. Volevano seguire la Messa di Padre Pio da vicino. Avevano saputo che du­rante la celebrazione il Padre si toglieva i mezzi guanti ed erano curiosi di vedere le misteriose ferite che aveva alle mani. - Inginocchiatevi - dissero quelli che stavano dietro di loro. - Noi non vediamo. Campanini e Amendola s’inginocchiarono. Tuttavia, non es­sendo abitati a quella scomoda posizione, si rialzarono quasi subi­to con le ginocchia intorpidite. - Inginocchiatevi - ripeterono quelli dietro in tono più mi­naccioso. I due attori capirono che bisognava scegliere: o inginocchiarsi o perdere il posto privilegiato. La Messa sembrò loro eterna. Al termine si avvicinarono al con­fessionale del Padre. - Inginocchiati - disse Padre Pio a Campanini che gli stava di fronte impalato. - Da quanto tempo non ti confessi? - gli do­mandò. - Da piccolo sono stato in collegio dai Padri delle Scuole Cri­stiane - rispose Campanini. - Ogni mattina, prima delle lezioni, ci costringevano ad andare a Messa. La cosa mi ha talmente scoc­ciato che, uscito dal collegio, non ho più messo piede in una chiesa. - Da quanto tempo non ti confessi? - domandò di nuovo il Padre in tono burbero. - Da tanto tempo, Padre - rispose Campanini. - Da tanto tempo quanto? - Mah, diciamo dieci, quindici anni. - E addo”si statu, nella foresta? Che cosa hai fatto? Campanini non sapeva da dove cominciare. - Ho capito - disse Padre Pio. E cominciò a raccontargli la sua vita. Sapeva tutto: era come se leggesse in un libro. L'attore era stupito e commosso insieme. Il Padre parlava con voce calma, dolce, addolorata. Attraverso quella voce, quelle inflessioni cari­che di sofferenza, Campanini capì che la sua vita disordinata, di­stratta, era vergognosa. Sentì, per la prima volta dopo tanti anni, il desiderio di cambiare, di mettere ordine in se stesso, di dare una risposta seria agli interrogativi che ogni tanto si presentavano alla sua mente. - Devi promettermi di cambiare - gli disse Padre Pio. - Padre, non so se ne sarò capace - rispose l'attore. - Devi esserne capace. - Sono un povero disgraziato. - Tutti lo siamo. - Non so fare altro che il buffone. Non sono neppure un bravo attore. - Figliolo, hai perduto il metro con cui si deve misurare la vita. Tu credi che siano importanti coloro che hanno successo, fama, ricchezza. Ti sbagli, figliolo. Una persona è importante quando è in grazia di Dio. Cioè quando si trova nella luce, quando fa il be­ne, vive nella verità. Fuori da Dio e dalla sua legge, noi siamo ze­ro. La ricchezza, anche la più eccelsa, è un inganno. Nessuno può comperarsi un secondo di vita in più, neppure con tutti i soldi del mondo. La bellezza fisica è soltanto un'apparenza. Se non è soste­nuta da quella morale e da quella spirituale, è una maschera che si scioglie come cera a contatto con la morte. Non dimenticare mai che devi morire, figliolo. Che fai? Gli scongiuri? Non pensare che io voglia spaventarti, ti dico solo la verità che gli altri vogliono nasconderti. Stai con Dio, e tutto il resto ti verrà regalato. Campanini voleva confessargli la vera ragione per cui aveva fat­to quel viaggio. "Padre" avrebbe voluto dirgli "fatemi trovare un lavoro vicino a casa, anche da magazziniere, purché possa vivere accanto ai miei figli." Ma non n’ebbe il coraggio. Padre Pio aveva alzato la mano e gli stava dando l’assoluzione. - Vai, figliolo - gli disse. - Vai e non peccare più. I due attori tornarono a Bari e ripresero la loro solita routine. Al­cuni mesi dopo Campanini fu chiamato a Roma. A Cinecittà stava­no per iniziare le riprese del film Addio giovinezza, tratto dalla cele­bre commedia di Nino Oxilia. Si trattava di un lavoro importante, che sarebbe stato diretto da Ferdinando Maria Poggioli, uno dei più quotati registi di quel momento. Allora le parti venivano assegnate dal ministero della Cultura Popolare. Per i ruoli femminili erano state scelte celeberrime attrici quali Maria Denis e Clara Calamai. Per il ruolo di Leone erano candidati quattro famosi attori: Nino Besozzi, una specie di Mastroianni del tempo, Umberto Melnati, che lavorava con De Sica e trionfava in tutta Italia, Paolo Stoppa e Carlo Romano. Campanini non era conosciuto in quegli ambienti, ma fu chiamato lui. Non voleva crederci. "È uno scherzo" continuava a ripetere fra sé, mentre era in viaggio verso la capitale. - Volete proprio me? - domandò al funzionario del ministero della Cultura. - Il regista sostiene che lei è il più adatto al ruolo. Campanini stava per domandargli chi fosse il regista, ma si fermò in tempo. "Che figura avrei fatto" pensò con terrore. Fu sottoposto a un provino velocissimo e gli affidarono la parte. Tutti i colleghi lo guardavano invidiosi. - Questo è un autentico miracolo - commentava Campanini confuso. - Un colpo di fortuna incredibile. - E pensava al rac­conto dell'amico Amendola a proposito di quel suo cugino che Padre Pio aveva mandato a Falconara. - Quel frate è veramente un mago eccezionale - ripeteva. La sera del 9 gennaio 1940 i "tre moschettieri di Padre Pio", il medico Guglielmo Sanguinetti, il farmacista Carlo Kiswarday e l'agronomo Mario Sanvico si avviarono verso il convento. Il Pa­dre li aspettava nella sua celletta. Avevano da poco concluso la prima riunione ufficiale del "Co­mitato per la fondazione della Clinica". L'avevano tenuta nella ca­setta prefabbricata che Sanguinetti e Kiswarday si erano costruiti sulla via per il convento. E ora andavano dal Padre con il docu­mento firmato dai componenti il Comitato. Tra l'altro, vi si leggeva "Fondatore dell'opera: Padre Pio da Pietrelcina (che momentaneamente desidera non essere nomina­to); segretario: dottor Mario Sanvico; cassiere contabile: dottor Carlo Kiswarday; tecnico medico: dottor Guglielmo Sanguinetti; direttrice organizzazione interna: signorina Ida Seitz". Padre Pio li attendeva. Lesse il documento che avevano redatto e commentò commosso: - Da questa sera comincia la mia grande opera terrena. Bene­dico voi e tutti coloro che faranno donazioni all'opera, che diven­terà sempre più bella e più grande. I tre amici si inginocchiarono, il Padre alzò la sua mano destra piagata e tracciò nell'aria un ampio segno di croce. - Troveremo certo molte difficoltà sul nostro cammino - dis­se - ma voi sapete che Qualcuno lassù ci guida, e non dobbiamo spaventarci. Era particolarmente sereno e felice. Aveva l'aria di uno che sta partendo per un lungo viaggio. Era euforico. - La nostra è un'opera d'amore - aggiunse. - Un solo atto d'amore dell'uomo verso Dio ha tanto valore ai suoi occhi che Lui stimerebbe ben poca cosa il ripagarlo con il dono di tutta la creazione... "L'Amore non è altro che la scintilla di Dio negli uomini... l'es­senza stessa di Dio impersonata nello Spirito Santo... "Noi, povere creature, dovremmo dedicare a Dio tutto l'amore di cui siamo capaci... Il nostro cuore, per essere adeguato a Dio, do­vrebbe essere infinito, ma purtroppo solo Dio è infinito... Comun­que dobbiamo impiegare tutte le nostre energie nell'amore, così che il Signore un giorno possa dirci:”Avevo sete, e tu mi hai dissetato; avevo fame, e tu mi hai sfamato; soffrivo, e tu mi hai consolato'. Questo conta nella vita. E questo è ciò che noi vogliamo fare." Si frugò nelle tasche ed estrasse una monetina d'oro. Me l'ha data oggi una vecchietta per le opere di bene. Ecco, voglio essere io a fare la prima offerta.

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