Modello Amàrantos



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Senza accorgermi mi addormentai profondamente e mi svegliai verso le sette di sera. Ero di nuovo in forma smagliante, così buttai un po’ di diavolina e di legna per inviare la stufa e tornai a sedermi con la mia buona compagnia di alcol e tabacco. Ce n’era ancora troppa di roba da bruciare, carne marcia, ossa, budella. No, non volevo passare un’altra notte a tagliare merda. Poi non avevo sentito nessuno parlare di questo tizio scomparso. Forse era una persona inutile ed avevo fatto bene ad eliminarla. Lui però prima di crepare come una scrofa mi disse che era Dioniso. Cazzo, Dioniso era abbastanza conosciuto. Mi ricordo che andava in giro a bere e a fare orge, non a farsi seghe. Era carismatico, un po’ grasso, ma un uomo tutto sommato simpatico. Non ci assomigliava neanche un po’ a quel deficiente che sburrava per tirare notte. Comunque i tempi sono cambiati.

Improvvisamente scattai in piedi e decisi che l’avrei fatta finita nel giro di pochi minuti, ne avevo veramente i coglioni rigonfi e saturi. Presi il mio coltellaccio, il seghetto, indossai i guanti da sguattero, cacciai giù un’immensa sorsata di sgnappa e planai in cesso con decisione e fermezza. Presi fiato e poi giù, strappai il sacco, vidi quello che non avrei voluto vedere ed iniziai a tagliare come un forsennato. Un secondo dopo l’apparato riproduttore, con tutti i suoi vermi, era già bruciato ed io me ne stavo ad assaporare il calore della stufa. Nella foga non avevo nemmeno fatto caso se John aveva due o tre coglioni, ma anche se fossero stati solo due erano di dimensioni notevoli. Tornai in cesso con un sorriso tipico di chi aveva bruciato il cazzo del suo peggior nemico e ripresi in mano i ferri del mestiere. Iniziai a sbudellare quel tronco umano senza alcuna pietà. Tanto era morto Mi faceva un veramente impressione, soprattutto quando gli aprii il ventre ed iniziai a tirare fuori lardo lardoso, metri di intestino pieno di merda, poi il fegato, lo stomaco marcissimo, il polmoni, il cuore ed un ammasso di organi di cui non sospettavo neppure l’esistenza. Odore di morte e vermi, in quei momenti l’aria fetida si stallò all’altezza del mio naso e mi sussurrò parole che non avrei mai voluto sentire. Non avrei mai pensato di dover sezionare un cadavere. Avevo pensato spesso, invece, cosa avrei fatto se fossi stato costretto ad uccidere una persona. Avevo previsto tutto, tranne un segaiolo incallito. Quella fu la dimostrazione di come le teorie si distaccassero nettamente dalla pratica, sempre troppo imprevedibile.

Mi arrivò una vampata di odore indescrivibile, fui quasi sul punto di vomitare, poi pensai alla materia e tutto mi sembrò normale. Infondo anche questa merda è fatta di atomi, di palline intasate con delle nerchiette che ci girano intorno, rosse e blu le mostravano sui libri. Belle tutte queste palline colorate. In sostanza stavo solo smontando un pallottoliere di mille miliardi di stracazzi di biliardi di palline, era stupendo, era come quei giochi che si facevano da bambini. Beata infanzia.

Buttai tutti gli organi vari dentro ad un sacco delle immondizie per farmi un po’ di spazio per lavorare meglio. Il peggio era fatto. Ormai quello che restava era tipo una costata di manzo, un po’ andata a male. Le costole le tagliai con passione e quasi, quasi mi parvero sprecate. Quella roba stava bene alla griglia, o addirittura in umido con la polenta e dei funghi trifolati. Ma finì tutto nel fuoco. Ero ancora troppo soggiogato dalla società per compiere atti di cannibalismo. Se fossi stato in un posto di merda e senza cibo, non ci avrei pensato due volte.

Dopo un paio d’ore di manovalanza mi restava solo un sacchetto di budella ed una stufa a dieci mila gradi con qualche osso che sporgeva lateralmente al coperchio. Intanto che il tutto ardeva e scoppiettava, insieme ad un arbre magique per coprire un po’ l’aroma di grigliata, spostai il sacco di interiora e pulii con maestria tutto il bagno, poi finalmente risistemai tutto l’arredo della cucina. Era quasi fatta. Anzi era fatta, la casa era come prima, anzi, molto più pulita e l’unica cosa che mi era rimasta di tutto quell’ambaradam era solo un mucchio di budella. Mi ero veramente stra gonfiato le palle di quella storia, così, visto che non era molto tardi, presi su un po’ di soldi, il container con tutto il budello di Dioniso e me ne andai fuori. Andai fino al cassonetto delle immondizie dell’umido e buttai via il sacchetto. Era finita.

Avevo ucciso un uomo, sempre se quell’essere si fosse potuto definire tale, ed ero felice. Niente pula, niente cartabinieri, niente gente che spara stronzate, niente di niente. Cazzo. Ho rischiato la galera mille volte per cazzate talmente infime che non ho neppure voglia di parlarne. Adesso invece, dopo aver commesso un crimine sostanzioso, non rischio proprio un bel niente.

Passeggiai fino alla piazza del paese ed entrai nell’osteria centrale.

La incontrai Eddie, il mio vecchio soma. Ero contento di vederlo. Con lui la sbornia era assicurata. Per mia sfiga lo trovavo solo un paio di volte alla settimana. Non volli neppure chiedergli se si ricordava di aver visto quel deficiente moro, ormai era acqua passata e non volevo più pensarci.

- Jim, maledetto, ti sei ripreso finalmente! David mi ha raccontato che anche ieri sera hai esagerato un po’ con la bibita…

- Eh… sai come sono queste cose, Eddie. Però oggi pomeriggio, con la scusa del funerale di Anthony, sono stato a casa a dormire e mi sono ripreso. Adesso sono di nuovo in forma e mi sono già fatto qualche birra.

- Non sei l’unico, socio. Io sono già mezzo storto. Beh, intanto cosa bevi, Jim?

- Una Sambuca

- Cameriere, cameriere, una Sambuca e un Branca menta per favore

Il mio soma era piuttosto educato quand’era sobrio, poi dopo qualche branca menta ed una riga di ombre di vino si trasformava letteralmente in un baruffante. Iniziava a parlare di politica, partendo da Marx, saltando a Togliatti, passando per il Che, sostando su Guccini, per arrivare infine a Bertinotti e compagni. Poi iniziava a rovesciare bicchieri per sbaglio, sbatteva contro ogni cosa che incontrava e sostanzialmente diventava pericoloso. In quei momenti avrei voluto legarlo.

Il cameriere ci versò i drink su due bicchieri sostanziosi e tornò a fare i suoi cazzi.

- Brindiamo al budello di Dioniso, Eddie!

- Esatto. Brindiamo a Dioniso, il Dio del vino!

Calcoli statistici

Ed arrivai a casa calpestando le mie spalle pesanti, discesi le scale con il cuore a 1000, rallentai il tempo e poi lungo mi distesi sotto la porta. Aprì gli occhi per un istante.

Rumori d'estate, canti di festa, luci della notte e colpi di vento e mi rimisi in piedi. Mi appoggiai contro il vetro ferroso della porta. Restai lì per un attimo pensare poi iniziali a frugare nelle mie tasche in cerca delle chiavi di casa. Non so come me le ritrovai tra le mani e fui subito disteso sul tappeto sporco e secco.

A qualche ora di notte mi alzai per mangiare ed accesi la musica a tutto volume.

Ricordo di aver girato avanti e indietro per parecchio tempo, inciampando anche dove il pavimento era liscio. Mi appoggiavo sui mobili e sulle casse matte delle porte e prendevo fiato, poi chiudevo gli occhi e mi addormentavo ogni volta in un angolo diverso della casa. Sognai e vidi cose strane. C’era un mio amico vestito come me che mi chiamava dall’altra parte del muro. Non riuscivo a rispondergli e tanto meno ad andargli incontro poiché ogni volta che provavo a far qualcosa mi si informicoliva tutto il corpo e restavo immobile nel buio. Lui continuava a chiamarmi e a dirmi di svegliarmi, con insistenza e con voce fredda e roca. Io non potevo farci niente. Non potevo muovermi, non potevo esprimermi, ogni tanto non riuscivo neppure più a distinguerlo dalle ombre della stanza e la sua voce si miscelava con la pioggia di note echeggianti.

A mezzogiorno ero per terra in soggiorno , sudato come un maiale, con le persiane abbassate e la luce accesa. Eine kleine nachtmusik a tutto volume con un potente riverbero. Ero ancora troppo pieno per rialzarmi, quindi strisciai fino al muro, strappai la spina della corrente e tutto precipitò nel sonno. Saluti.
Ricordo di aver baruffato per colpa dei partiti, delle elezioni, dei ministri e dei porchi di Giuda insieme ad un fanatico socialista che si credeva la reincarnazione del primo Craxi. Se ne stava là, con la sua faccia scavata ed ossuta, la sua lunga e schifosa figura infima. Un uomo sempre ubriaco e maldicente, tronfio e baldanzoso, fino e secco ma mai umile. Una volta d’inverno mi insultò per esser stato bastardo nei confronti del mio paese e così si prese un mucchio di bastonate sulle palle. Eravamo in discoteca, lui ubriachissimo, io non ricordo, le luci colorate ci assalirono le menti e le parole così uscivano da sole. Il tizio urlò come un pazzo contro di me, continuò per due minuti a dire stronzate sulla famiglia e sul senso del dovere, fino al punto che lo definii fascista. Lui così perse le staffe, la dignità e la cognizione del tempo. Mi sputò addosso tre chili di catarro. Io, imbrutalito, gli saltai contro come un felino e gli stritolai le palle con la mano sinistra, fino a che non rotolò per terra ululante almeno tre volte. Infine mi arrivarono un paio di jet in testa, ma questa è un’altra storia. Quella sera invece fu una baruffa più pacifica, niente botte, ma solo insulti.

- Conta i buchi che hai sulla cintura - mi disse il finto politico del cazzo

- Come, prego?

- Ho detto di contare i buchi che hai sulla cintura

- Mi sembra una stronzata

- Non ti ho chiesto cosa sembra, ti ho detto di contare!

- Va beh… conto tutti i buchi… - Mi sembrava una cosa così stupida che decisi di farla

- Non tutti i buchi, ti ho detto, porco due, mi ascolti quando parlo? Eh?

- Non lo so - In quel momento mi passò per la mente di spaccargli la testa con il boccale di birra, ma poi pensai che quello era uno dei tanti che mi aveva offerto. Per un buon bere bisogna pagare, pensai, anche in insulti. Meglio essere insultato che sfoggiare sesterzi. Eh, sì, ma quante ne so.

- Devi contare solo quelli che fuoriescono dalla fibbia, quelli in più, hai capito adesso?

- Ne ho tre... - gli dissi quasi ridendo

- Vedi, vedi, vedi, vedi, stronzo! Conta i miei, conta i miei! Ne ho sette, sette, sette!

- Non penso tu ne debba fare motivo di vanto…

- Ma sentitelo, sentitelo, il deficiente, sentitelo, ha solo tre buchi e viene a rompermi le palle…

Tutta la gente intorno era sconvolta, molti ridevano, tanti piangevano, qualcuno mi mostrava che aveva ben più di tre buchi in eccesso dalla cintura. Io restavo là, rilassato, bevevo le mie birre a scrocco e pensavo ai buchi.

Mick in quel momento mi guardò e scoppiò in una risata grossa come una casa chiusa e poi si spense soffocato dai fumi dell’alcol. Io restai là ancora, non so per quanto, poi fu solo lo scorrere degli eventi che mi portò a casa.

Non trovavo le chiavi ed iniziai a frugare tra le mie tasche piene di crateri e mi venne da disperarmi, poi fui di nuovo disteso per terra, in corridoio, quindi probabilmente le fottute chiavi erano miracolosamente risorte dalla notte dei tempi. Le chiavi. Le stramarcissime chiavi della minchia. Avevo un unico mazzo: chiavi di casa, del lavoro, della casa di mia madre, di mia nonna, del mio macchinario, della macchinetta del caffè, delle immondizie, del budello di Giuda e del finferlo di satana. Tutto in un mazzo bombo e luccicante del peso di trecento libbre che tendevo a perdere in giro. Non osavo copiarlo, sarebbe costato troppo. Poi mi avevano detto che la chiave della porta blindata del lavoro costava 50 sesterzi ed era invulnerabile e tutto ciò mi spaventava. Per me era inconcepibile copiare tutta quella merda. Poi tra l’altro, nei tempi che furono feci tre copie delle chiavi di casa e le persi tutte nel giro di tre sbronze o di tre giorni che dir si voglia. Quindi tutto questo sta a dimostrare che se la cosa in proprio possesso è più unica che rara si stenta a dimenticarla ed è molto bello. Quando affrontavo una sbronza fin troppo prevedibile, o quando passavo erroneamente per casa mia da ubriaco, vi lasciavo le chiavi sepolte in qualche anfratto, tipo sotto dei pannelli marci che avevo davanti all’ingresso o dentro il pannello che rivestiva di allegria la bombola del gas. Poi tornavo, le recuperavo e mi insinuavo nell’appartamento: nulla di più facile.

Pensando alle chiavi ero disteso sul freddo pavimento piastrellato del corridoio e mi venne in mente di alzarmi per accendere la musica. Con uno sforzo disumano barcollai fino al computer, lo accesi e guardai le lucette illuminarsi nella bruttura della stanza. Rinunciai a trovare il mouse, probabilmente lo avevo spinto per terra o vattelapesca. Tutto era quadrato e spigoloso e non riuscii ad impastare la tastiera se non dopo diversi tentativi. Vidi il winamp aprirsi su Guccini e startai l’amplificatore con l’ultimo sforzo poi bim bum bam. Collassai sulla poltrona reclinabile rubata e spensi il cervello. Mi svegliai per la luce che non c’era a l’accesi per un istante, poi alzai il volume e mi rovinai sul divano a pancia in giù, con una bava incrostata da rimuovere in un altro momento.


Il giorno dopo ero in giro per affari che solo Dio sa, e per tanto mi ritrovai ancora una volta nel mezzo della notte con la testa piantata sul portone di legno scuro e massiccio con le mani in tasca in cerca del solito mazzo di chiavi, con il solito grugno da morto e l’alito improponibile. Sonnecchiai un buon po’ di tempo e quando aprii gli occhi mi accorsi di non essere a casa, ma disteso sopra un calcetto, ossia uno di quei tavoli bislacchi con i ferri e gli uomini di plastica per giocare a calcio balilla. Mi riassestai in piedi, mi resi conto finalmente di non essere sul solito tappeto, ma di fianco ad un fottuto calcetto balilla su quale probabilmente avevo anche giocato e perso. Alzai la mia testa pesantissima e viola e vidi le facce di chi mi era in torno. Tutte uguali. Raccolsi i miei stracci, ovvero il mio corpo sudicio e me ne andai tra le risate di qualche povero melcico, di qualche logora cappelle se non lucida scroti. Presi la mia prinz verde del 68 e con gli occhi chiusi entrai nell’appartamento di mille e mille feste. Su radio 3 il D.J. Kowskij mixava quella notte nella discoteca di casa mia e controbatteva ogni singolo suono inutile della vita con astuta melodia.

Mi addormentai quasi subito senza neppure rendermene conto. Ogni tanto aprivo gli occhi in preda agli incubi, poi barcollavo fino al rubinetto, bevevo due sorsate d’acqua e tornavo a distendermi da qualche parte. Tremavo e sudavo, il cuore mi andava a mille. Ad un certo punto sentii delle voci, poi qualcuno si mise a battere il vetro della finestra, che era socchiuso ma bloccato. Qualcosa mi volò dentro casa e si schiantò sulla mia testa, così provai reagire, ma ero troppo cotto. Mi venne quasi da piangere e così risi follemente svegliandomi di sobbalzo. C’ero solo io, io ed ancora io vestito in un divano di duro cemento e sudore palpitante, impervio di fumo e di sciocche antifone scaccia pensieri. Ancora una volta il cielo guardò in giù e mi svegliai rintronato alle sei di pomeriggio, nudo e fiero, vestito e nudo, vuoto nell’anima ma non nel peccato. Abbassai il volume della musica e provai a restare in vita. Restai disteso sul divano fino a tarda sera. Ogni tanto mi riaddormentavo, poi mi svegliavo in preda ad incubi e allucinazioni. Qualcuno si mise a battere nuovamente alla mia finestra. Il campanello suonò diverse volte ed io continuai a restare nel mio stato vegetativo.


Era mattina. Accesi il boiler e mi feci una doccia bollente e tonificante, guardai fuori dalla mia finestra e vidi passare una coppia di sposini sinceri. Erano distanti e indistinti; poi passò una vecchia decrepita ed ancora dei bambini in bicicletta. Forse là fuori c’è vita, forse fuori di questo posto c’è qualcos’altro che non voglio affrontare. Forse qua fuori c’è un altro tempo che per me ormai è passato. Mio vestii con i soliti stracci: un paio di jeans, una maglietta bianca stropicciata ed i soliti stivali sventrati. Me ne stetti in piedi per un pezzo a fischiettare e a riordinare le cose nella mia stanza salotto - cucina - camera - cesso - discoteca - sexy shop - allegria e depressione tristissima. Suonarono alla porta. Era Eddie. Splendido ma depresso, con la sua solita sicurezza tipica di chi non perde mai, anche se sconfitto. Andiamo, mi disse.

Gli offrii una birra, ma onestamente la rifiutò, visto che gli avevano ritirato la patente per stato di ebbrezza e doveva presentarsi sano ad una specie di esame del sangue. Va beh, gli risposi, andiamo.

Dovevamo andare ad un torneo di calcio a cinque in riva al lago. In riva al lago potrebbe sembrare un bel posto, infatti lo era, pieno di turisti tedeschi imbrattati di schiuma di birra con la pancia gonfia e giovani donne alte e bionde con i capezzoli irti. Poi c’era il torneo di calcio, un’occasione per far cinema con i miei soci. Io però non giocavo, partecipavo solo per la coppa chiosco, in pratica un trofeo che veniva assegnato alla squadra che beveva più birra al chiosco di questo cazzo di torneo. In ogni torneo, in ogni paese di questo piccolo regno di mammelloni scaltri e possenti, sorgeva infatti un tipico esagonale chiosco prefabbricato con al centro mille spine per la birra e milioni di fusti si sacrificavano in onore alla della morte delle inibizioni. E così fu e sarà per sempre.

Presi qualche mio piccolo avere, ossia una carta sostanziosa di sesterzi ed una tenda da piantare in riva al lago, dato che il torneo durava 24 ore, e partii insieme a Eddie. Iniziai a pensare sul fatto che ero troppo scazzato per mettermi a piantare la tenda e quasi sicuramente avrei dormito in quella di qualcun altro, o perché no, in qualsiasi posto mi avesse assalito il sonno. Quando uno è veramente ubriaco ed ha una buona filosofia infatti dorme dove e quanto ha voglia, mangia e beve quanto e come ha voglia, scoreggia se serve, rutta e scopa e vive, senza cianfrusaglie e stronzerie nelle mani e nel cervello. All’ubriaco tutti offrono da bere.


Arrivammo al fatidico posto, sotto un sole marcio che ogni tanto spruzzava gocce di pioggia, tra gli sguardi sciolti di tutti questi pseudo - atleti. La nostra squadra aveva un nome impronunciabile e tutto ciò non prometteva niente di bene. Quando arrivammo l’atmosfera si fece cupa ed iniziarono a cadere grosse gocce di pioggia calda. Io mi rifugiai al classico chiosco della birra e sinceramente me ne sbattei il cazzo delle partite ed ordinai due tessere da dieci birre ciascuna. Iniziai così la mia parte di torneo, senza troppi complimenti. Non ero troppo in forma e dopo le prime cinque - sei birre iniziai a rompere i coglioni un po’ a tutti con le mie stronzate. Attaccai bottone con una fighettina di uno dei due chioschi, ma era troppo impegnata a spinare luppolo per degnarmi qualcosa di più che stupidi sorrisi. Era una ragazza molto giovane, magra, col culetto sodo e tondo, tettine a punta e capelli lunghi chiari. Rideva e dimenava il culo e più pioveva più appariva in tutta la sua stupidità infantile. Immaginai per un momento di piegarla contro il bancone e pomparla da di dietro; avanti e indietro, fino all’ultimo atto per poi venirle sui capelli con getti tipici di un idrante. Non era per niente una cattiva idea.

I miei soci vinsero un paio di partite e molti di loro si riunirono a dissetarsi con righe di birre da quaranta cl. Tutto questo non prometteva niente di buono per la qualità tecnica della squadra, ma non gliene fregava niente a nessuno e molti di loro alle sette di sera erano belli pieni di alcol fin sopra le orecchie. A qualche ora si andò a mangiare. Polenta e pastin. Il pastin in pratica era la pasta per fare i salami non stagionata e veniva cotto alla piastra. In tutte le sagre ed in tutti i tornei si viveva di birra e pastin. Se c’era qualcos’altro da bere o da mangiare non faceva testo. Le nostre sagre erano birra e pastin. Ricordo che spesi gli ultimi soldi che avevo in tasca per comprare la mia seconda porzione di birra, polenta e pastin e costava anche troppo rispetto ai canoni a cui ero abituato. Però ero troppo pieno per protestare ed allora iniziai a rompere i coglioni al barman, che tra l’altro mi conosceva ma io stranamente non conoscevo lui. Comunque alla fine gli spillai un giro di birre per tutta la compagnia.

- brindiamo alla figa - tutti in piedi in coro tranne il sottoscritto. Credo di aver sentito pronunciare questa frase più di qualsiasi persona al mondo. Tutti quelli che ho incontrato dopo un paio di giri urlavano questa inutile frase. Non feci alcun gesto, ne pronunciai alcuna parola, mi limitai a bere in silenzio pensando che le belle fighe quando beveveno non brindavano mai ad un bel cazzo.

- Dove minchia hai la tenda?

- Come?

- Jim, ti ho chiesto dove cazzo hai la tenda?



- ah, Ozzy, sei tu. Sì, la tenda. La tenda. Bella la tenda. Ne avevo anch’io una qua in giro…- Risposi per inerzia. In quel momento non capivo una sega, ero storno come una pecora.

- appunto, mi serve la tua tenda perché forse dorme qua anche un mio socio che non sa dove andare a sbattere la testa…

- ma porco due trifolato, che cazzo me ne frega del tuo amico finocchio? Dormirà per terra come tutti, tanto fra un po’ smetterà di piovere

- ha già smesso da un pezzo per quello - puntualizzò Ozzy accendendosi una Marlboro.

- ha. Bene. Io comunque la tenda non la monto. Primo: non so dov’è. Secondo: sono troppo atrofizzato per farlo, Ok?

- che eri atrofizzato lo sapevo, ma dove hai messo questa fottuta tenda di merda. Cane boia?

- mi sembra di averla lasciata in qualche chiosco…

- In quale? Rispondi? Verme santo, ti odio quando sei ridotto così!

- Ah, forse l’ha portata via… Ah, no…- Da quanto storno ero mi distesi per terra e picchiai la testa su qualcosa di duro, sperando che non fosse un fallo in erezione.

- Sì, sì! - Esclamai sputandomi merda addosso. L’ho lasciata dietro la tua. La tua tenda era già montata. Sì. Forse l’ho messa dentro. Adesso come adesso la metterei dentro la tua. Adesso te lo metterei anche nel culo se è per questo…

- Santiddio. Ti odio quando sei in queste condizioni

- Ma allora mi monti te la mia tenda, Ozzy?

- Mi tocca, se aspetto te faccio tempo a morire
Eravamo tutti intorno ad uno di questi stramaledetti chioschi della stracazzo di birra. A bere.

Ad un certo punto sbucò dalla folla una forma perfetta. L’uomo sfera. Era Il carrozziere. Un quintale e mezzo per un metro e mezzo scarso, naso greco, addominale sferiforme, portafogli più grosso di lui, gola sempre arsa di alcol, sessant’anni ed un’energia da pornodivo. Era il proprietario di una grossa officina e lui si era ingrossato di conseguenza. Una delle poche persone al mondo che beve quattro bottiglie di vino in una sera e ne offre quaranta. Una notte mi caricò in macchina dicendomi che mi avrebbe pagato un ombra se gli salutavo mio padre. Nonostante non vedessi mio padre da parecchi anni, ovviamente gli dissi di sì e me ne andai con lui. Mi diede circa ottomila strette di mano e mi pagò altrettante ombre. Alla fine fui costretto a scappare perché ero troppo pieno e non stavo in piedi. Me ne stetti mezz’ora disteso su una panchina, poi vomitai, mi rialzai e lo vidi di nuovo arrivare in macchina.

- Vieni via con me! Vieni a bere un’ombra con Il carrozziere! - mi disse. In quel momento mi ero un attimo ripigliato e gli risposi di sì.

- Vieni, andiamo a bere un ombra a casa di tuo padre! - blaterò dondolando al testa e un quintale di stomaco vorace

- Vengo volentieri, ma non da mio padre… andiamo qua nell’osteria di Lemuria se vuoi…

- No, andiamo da tuo padre, lui ci darà da bere per tutta la notte

- Non mi sembra una buona idea, poi è tardi, sono le…, sono le, le tre…

- Hai ragione, forse è troppo tardi. Comunque mi sarebbe piaciuto andare a Godheim a trovare tuo padre…

Abbassai lo sguardo e risi. Mio padre non abitava, non ha mai abitato e penso mai abiterà a Godheim. Chissà per chi cazzo mi aveva scambiato. Va beh. Quella sera invece mi riconobbe e mi salutò con la sua classica stretta di mano multipla ed insistente.


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