Modello Amàrantos



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Oggi è stata una giornata di merda. Niente scopata. Niente Grace. Solo sangue e vibratori nel culo. E per poco non ammazzavo quella troia di Pam. Pam. Ma che cazzo le aveva preso? È sempre stata così? Evidentemente sì, considerata l’attrezzatura sadomaso che a aveva. Ma tutti quelli che si scopava finivano flagellati come il sottoscritto? Che era andato in bianco tra l’altro... e Grace? Era anche lei una psicopatica? Forse sì, forse no. Un po’ sì, dato che viveva insieme a quella baldracca. Santiddio.

E se l’avessi uccisa... forse l’averi seppellita classicamente in qualche bosco... no... l’avrei demolita insieme alla mia Prinz nello sfasciacarrozze di un mio socio, sullo stile di Pulp Fiction. Ma che cazzo me ne frega, Pam è viva. Perversa e viva. Mi leccava il sangue come una vampira. Quasi certamente le piaceva perché era dolce di anice. Pam, cazzo. Dopo quello che era successo forse non le avrei più degnato la parola. O no...

Smisi di farmi domande inutili e mi immersi nel film. Verso tarda notte cucinai degli spaghetti e dei fagioli con la cipolla, mangiai voracemente e mi addormentai solo al terzo digestivo.

IceFive

Trascorrevo le mie giornate in maniera troppo stronza e forse per questo un po’ mi piacevano. Le mattine erano sempre quelle: sveglia in totale rincoglionimento alle sette e qualche minchiata di minuti, fuga e lavoro. Poi a casa e giù di whisky, Sambuca, birra, rosso e quello che passava il convento. O meglio, quello che mi girava di bere quella sera. I weekend non erano troppo diversi dal resto della settimana, se si escludeva la totale allergica assenza di lavoro.



Andava, tutto sommato, andava, avanti o indietro, ma andava in qualche sfottuto posto. Magari non nel buco del culo, ma neanche chissà dove e chissà come. Cazzo.

Qualche mattina mi svegliavo e mi sembrava che tutto girasse intorno a quel sfottuto lavoro che avevo. I soldi, le mie giornate, le mie energie, la possibilità di avere un macchinario di merda, un tetto imputridito e non per ultimo mangiare e bere. Andando avanti mi accorgevo che effettivamente era così e dovevo mettermela via, possibilmente non nel culo.



Lunedì. Arrivò ancora quel maledetto lunedì. Anche quel giorno. Su quello non potevo farci proprio un cazzo ed il mio culo dovette accettarlo con sottomissione. Avevo puntato il tutto su una domenica sera tranquilla, un filmetto, un paio di birre e poi dormire pesantemente a partire da un’ora decente. Niente di tutto questo successe la sera prima. Niente di eccezionale, comunque, una serata tra amici una chitarra e uno spinello. Purtroppo nessuno di noi aveva una chitarra e pertanto ci affidammo al buon vecchio alcol, abusando di lui come se lo stessimo stuprando.

La sera prima infatti avevamo fatto un festino a casa di Roy; eravamo il solito gruppo di personaggi anomali, farciti da una caterva di birre, vino, mangiare anche per tutti i morti di fame del mondo e una bottiglia di qualche vodka per il sottoscritto. Roy mi comprava sempre una bottiglia di vodka quando organizzava una festa. Non perché io gli fossi particolarmente simpatico o perché bevessi quella roba dalla mattina alla sera, ma probabilmente perché aveva capito il concetto delle mi sbronze. Di routine bevevo whisky e birra, che si sposavano bene insieme. La birra era dissetante ed il whisky così vecchio e potente da farmi stordire in poco e tempo e regalarmi distorti momenti di completa insensibilità poetica, con il solo svantaggio di cancellarmi la memoria tipo un vecchio format ci due punti. La birra. Vai ad una sagra e bevi una birra, sempre solo birra. D’estate è un toccasana, d’inverno è sempre preferibile all’acqua, costa poco, la vendono anche in comode lattine, e nei discount costa una cazzata, è buona, ma è consigliabile solo in certi momenti per i veri bevitori. A lungo andare ti gonfia lo stomaco e dato il suo misero grado alcolico ti costringe ad andare a pisciare ogni due secondi. Però ci vuole e non potrei farne a meno. Il whisky. E che dire del whisky? Io non sono mai stato un fanatico del gusto, del dolce al centro e l’amaro sulla punta della lingua (almeno mi sembra che sia così) e pertanto non conosco le doti da intenditori di questa bevanda. So solo che mi piace e del resto non me ne frega proprio un gran cazzo. Lo bevo perché è una mostruosità di gusto di vecchio e forza inverosimile; e non ti stanca mai. Puoi berne due bottiglie in due giorni ed il terzo, se non devi andare a lavorare, puoi berne tranquillamente un’altra e così via. Fortunatamente sono senza soldi e tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, devo essere presente in un qualche cantiere di qualche tipo, contro la mia volontà e contro tutti i miei sani principi morali, altrimenti a quest’ora sarei defunto da un pezzo, seppellito sotto duecento quintali di bottiglie vuote di whisky. Lo svantaggio di questa bevanda, almeno per me, è devastante. Dopo essermene fottuto una bottiglia, ma neanche, anche due terzi (ovviamente il tutto dipende dal mio stato psico - fisico) inizio a diventare nervoso, spacco tutto, mi faccio male e alla mattina mi risveglio pieno di ferite e di bestemmie. Non che succeda sempre così, ma ho visto che il fottuto whisky mi rende troppo arrogante, arrogante e artistico. Tutte le volte che riesco a dire basta a questa miscela demoniaca, o più probabilmente ogni volta che mi scolo tutta la bottiglia e sono ancora in piedi, mi pervade una certa vena artistica ed inizio a fare quadri, scrivere stronzate e a spararmi seghe. La Sambuca invece era per me tipo una medicina. La bevevo quando ero depresso, triste e ammalato; poi andava a finire che ne abusavo anche nei momenti più splendidi e questo non mi andava troppo bene. Mi faceva persino passare il mal di cuore, i dolori glandali e l’insonnia, ubriacandomi senza troppo nervosismo e con mistica beatitudine. Ogni tanto mi faceva straparlare di più delle altre bevande, ma ne ero contento, tranne quelle volte in cui inceppavo in qualche rissa, ma sempre felice ed in buona fede. Risse positive e post - sbornia da ulcera. La Sambuca infatti mi spaccava letteralmente lo stomaco, più delle altre troiate, e per questo cercavo di limitarne l’uso. Non che avessi paura di morire di qualche magagna interna, ma avrei preferito, che ne so, morire scopando. Ma alla fine non me ne fregava un cazzo. Preferivo vivere nel nell’idiozia credendomi Dio ed abusando del mio mondo, dov’ero il re, piuttosto che fossilizarmi in uno stato di atrofizzazione mentale stile casa - lavoro - moglie - figli - pensione - cassa da morto. Purtroppo però per motivi che non sto a raccontare ogni tanto ero costretto a calare le braghe. Infatti ero leggermente impastato in un provvisorio intrigo di sbronze - affitto - lavoro - sbronze - lavoro - affitto - sbronze - sbronze, ma sono sempre le sbronze che dominano ed il resto può morire sotto il mio enorme cazzo di fustagno. Comunque stavo parlando della Sambuca, Molinari. E così ho detto tutto. Tra le altre bevande alcoliche che consumavo c’era anche la fottuta vodka liscia del cazzo, dalla quale era partito tutto il discorso. Ecco, con la vodka, il mio concetto di ubriacarsi cambia leggermente. Non ci sono più vincoli. La vodka non fa stare fino alle tre di mattina a scrivere al computer come adesso, non mi tira su il morale quando le babusche non me la vogliono dare, in pratica non fa proprio una sega. È la bevanda per chi ha i coglioni quadri, per chi vuole solo far festa e se ne sbatte il cazzo se qua e là, se sì ma forse e poi vedrò. Quando bevo vodka a manetta significa che sono al top e potrei anche morire in quel momento senza fare una piega e/o pensare a stronzerie di qualsiasi genere. Festa, festa e basta, senza pensare a madri, a padri, a figli, a lavori, a soldi, a finte troie, a vere troie, ad “amici” ed amici e svegliarsi, non il giorno dopo, ma quando si ha voglia, senza rimorsi, ma solo con grasse risate. Tutto sommato, comunque e perciò nonostante, la vodka è il bere dei duri. Per quanto riguarda invece il vino e la grappa, largamente consumati anche dal sottoscritto, non mi permetto neppure di inglobarli nel mio discorso. Forse perché la maggior parte della gente che conosco li considera come unici veri alcolici. Non posso seppellire il credo dei miei compagni di sbronze. Il vino ci sta sempre: è versatile, buono, naturale, sofisticato, sia bianco che nero. All’epoca andavo a periodi di circa sei mesi per tipo. Bianco, nero, poi dopo mezzo anno circa ancora bianco, poi riscoprivo il nero e così via. Il vino può essere definito come il collante sociale per eccellenza. Un credo per molti. Infondo quello che conta è cosa si crede, la realtà oggettiva invece può benissimo starsene di fuori in attesa di succhiarmi la minchia, tanto non la farò mai avvicinare. La grappa, la vera grappa bianca di vinaccia a 50 gradi invece è l’apoteosi della magistrale potenza della sbronza. Era buona anche aromatizzata alla genziana o a qualche altra erba. Quelle merde con ciliegie e frutti vari invece mi facevano cagare. Non erano grappe, erano diarrea dolcificata. La vera grappa ti spacca il fegato, lo stomaco, il cervello, è peggio di una droga e per fortuna ne bevo poca. L’ho sempre evitata, l’ho sempre e comunque segregata nell’armadietto con un etichetta immaginaria “correzione per il caffè”, ma in caso di mancanza d’alcol vario, non ci pensavo due volte a prenderla in ostaggio. E vai, e giù, la grappa è una forza. Fortunatamente per il mio fisico, però, ne ho bevuti ancora troppo pochi ettolitri per poterne effettivamente concepire le potenzialità, forse perché la tradizione mi ha imposto, purtroppo, di farne un uso il più possibile limitato. E quella forse l’unica tradizione a cui credo, quella della grappa intesa come elisir della vita, un folclore dei vecchi saggi. Quei vecchi per i quali l’alcol era un lusso ricercato, un bene da non sottovalutare, quelli che vivevano fuori dal mondo, di pane e salame con le vacche ed i maiali, quelli che all’epoca ignoravano tutte quelle stronzate che ci hanno resi schiavi. Quelle persone che vivevano nella miseria dei boschi e delle bestie. Chiamateli stupidi se avete il coraggio. Siete tutti degli schiavi. Siete tutti dei dipendenti del sistema. Fottetevi voi e tutte le vostre cifre in banca, non valgono una vecchia lira in confronto alla libertà. Mi sto allargando troppo, forse è meglio che ritorni nei miei parametri di leggero dibattito sull’alcol, tra me e me stesso. Tutto sommato non ero molto delicato e alla fine dei conti qualsiasi cosa mi andava bene, soprattutto se era gratis. Ho ucciso anche molte serate bevendo miscugli di coca gin rum e succo di pisello in qualche discoteca, ma d’altronde a caval donato non si guarda in bocca. Stop mi sono rotto il cazzo.
Tornando a Roy, di lui si può dire che vivesse solo per far festa, niente di più; pagava sempre da bere a tutti e mi regalava ogni volta una fottutissima bottiglia di vodka. Si comportava proprio da persona splendida. Non era però uno di quegli amici che se non vedi per un po’ di tempo ti passa per la testa di chiamarli, o almeno ti sfiora il concetto che è una miriade di giorni mesi anni che non li vedi e tutto sommato ne senti la mancanza. Lui era diverso. Se c’era era meglio, se mancava non ti faceva pesare il fatto di non esserci. Meglio di tutto. Se fosse crepato non me ne sarebbe importata una sega.

Così io, Roy, David, Bob, Ozzy, Mick, Kurt e Vattelapesca andammo a questa nerchia di festa. Vera festa, autentico cinebrivido fino ad essere completamente fatti e fottuti; robe da riuscire a mettersi il cervello in tasca ed iniziare a ragionare con lo scroto. In tutta la serata infatti non mi passò mai di mente il fatto che fosse domenica sera, non sabato e che il giorno successivo sarei dovuto andare alla strafottutissima IceFive, a vendere surgelati come un marocchino. Purtroppo mi resi conto di questo piccolo dettaglio solo in extremis, ma d’altronde il divertimento ha un prezzo, mai troppo alto per non essere pagato. Quella sera andava veramente bene, non so dirvi niente di più preciso, visto che premetti così forte il piede sull’acceleratore del gomito da dimenticarmi perfino il mio nome. Ricordo un gran casino, casse di birra che si svuotavano, salsicce e braciole dappertutto. Mangiavo più che altro per il gusto di farlo, non che avessi chissà che fame. Mi ingozzai di tanta di quella roba fin quasi a vomitare. Arraffando un agglomerato di carne bovina passai davanti al pianoforte e con il retto gracidante mi impersonai per un attimo nel mitico Michael Piccoli in uno dei suoi tanti capolavori. Poi locchiai Kurt che discorreva e scrutai in lui un che di Tognazzi. Al momento giusto abbandonai l’abbuffata ed iniziai con i digestivi e la vodka naturalmente, ma notai senza troppa meraviglia che me ne ero già fottuto un terzo di bottiglia mentre pasteggiavo. Quello era cinema. Nel frattempo David ed Bob iniziarono ad intonare le classiche canzoni da osteria. Io, manco a dirlo, mi aggregai con la voce roca e la mia modesta mimica alla Dario Fo.

Festa. Bicchieri in mano e stupidi cappelli sopra stupidi teschi.

- Hei, Jim, se non ti fai un paio di chilometri in retromarcia non sei contento, vero?

Retromarcia… Ah, sì, la festa si era spostata nell’antica osteria ed io, per non sta là a far manovre con la Prinz avevo fatto tutta la strada in retro.

- Hei, ma ti ricordi o no? è passata appena mezz’ora!

- Scusa, ma stavo pensando a cosa potresti offrirmi da bere…

Il tizio non si perse in chiacchere e mi fece portare una birra. Quando afferrai il boccale in mi fermai per un momento, organizzai le mie inutili idee, mi resi conto finalmente di dov’ero e per qualche minuto restai immobile al bancone del bar ad osservare la gente. C’erano praticamente tutti quelli della festa, più qualche classico barfly e l’intera compagnia di ragazzini ubriaconi che bazzicava sempre in quel locale. Era pazzesco. C’era un casino impressionante, tutti urlavano, cantavano, spaccavano bicchieri e le bestemmie erano il sottofondo musicale. Ed era solo mezzanotte. Di solito a quell’ora il locale chiudeva, anzi di solito anche prima. Era troppo strano. Mi venne un lapsus di sobrietà fasulla e per un attimo mi sentii estraneo a quel bordello. Tutti erano pazzi, barcollavano uno contro l’altro e non si accorgevano neppure di rovesciarsi la roba addosso quando bevevano. Perfino il barista non si reggeva in piedi; spinava le birre con la testa appoggiata al banco e non chiedeva neppure più i soldi. Diciamo di sicuro che non avrei potuto lamentarmi.

Svuotai la mia birra quasi d’un fiato e improvvisamente mi salì alle stelle la pressione della vescica. Scesi le scale per andare a pisciare e là mi ritornò la botta. Ero stato pseudo - sobrio per qualche minuto, chissà per quale assurdo motivo, poi dopo aver buttato giù quella misera birretta mi riassalì tutta la vena alcolica repressa. Le orecchie ritornarono a fischiarmi e la mia camminata si rifece dondolante. Quando entrai in cesso buttai il mio sguardo in un angolo e vidi un ragazzino biondo che vomitava nel lavandino. Lo scansai per controllare la mia faccia allo specchio e lui quasi mi sbavò addosso; poi si buttò dentro il cesso e finì di fare quello che stava facendo.

- Cazzo, ragazzo, hai intasato il lavandino di merda verde!

- Ah, ah! Sono sbronzo come una capra, ah, ah, adesso torno a bermi una birra, ah, ah!

Evidentemente il giovane non era a posto con la testa, ma infondo, infondo non ho mai conosciuto una persona perfettamente sana di mente. Finalmente mi fissai sullo specchio per un secondo, ma in quell’istante le gambe mi lasciarono a piedi e barcollai fino a sbattere contro il muro. Chiusi gli occhi e focalizzai l’immagine che avevo visto riflessa. Non ero preso malissimo, se si escludevano delle chiazze verdi in tutto il truglio. Probabilmente erano solo schizzi di vomito sullo specchio. Mi arraffai lungo il corrimano e tornai nel bar. C’era il demonio putrefatto. Ozzy era per terra, con le mutande calate e tutti quanti tentavano di strappargliele. Il barista invece era là tranquillo, anzi, aveva perfino una telecamera e tentava di immortalargli l’uccello, non ci potevo credere. Insieme alle grida e alle bestemmie che risuonavano in ogni angolo della stanza mi arrivò a gratis anche una birra, poi un'altra, poi la terza la regalai ad un melcico che passava. E giù l’alcol fino infondo, fino alla morte. In un lampo mi trovai catapultato sulle spalle di due miei soma che mi portarono in giro per tutto il locale. Con le mani toccavo il soffitto ed urlavo cinebrivido, ma non so come e perché ad un certo punto mi fecero volare contro un qualcosa di duro e mi maciullai con la testa per terra.

L’interruttore scattò su off.
On. Come un deficiente iniziai a rincorrere un topo per la stanza.

Non ero più nell’antica osteria e non c’era quasi più nessuno. Era un’altra osteria. Forse meno antica ma più decrepita. Non era un posto nuovo, in tutti i sensi. Probabilmente era il bar di... bo. Non mi ricordavo mai i nomi della gente. Ero solo con Roy, un barista anonimo ed un roditore che scivolava tra le fessure come fosse fatto di liquame. Di tutto il resto mi restava solo un dolore al cranio ed uno smisurato tasso alcolico che fortunatamente non voleva sapere di andarsene. La bestia saettava tra le sedie di sotto i tavoli sperando di riuscire ad infilarsi in qualche buco. Poi iniziò a percorrere la stanza lungo il battiscopa, ma quell'idea gli costò la vita. In un lampo, non so come, Roy gli tirò una randellata da uccidere un brontosauro obeso senza neppure lasciargli il tempo di ululare. Due secondi dopo il mio socio era già al banco del bar con la cicca in bocca ed il roditore spiaccicato tra le mani.

- È morto?

- no, sta dormendo. Ha il vizio di dormire con il cranio aperto

- buon per lui, io non dormo ormai da troppo tempo ed il mio cranio si sta chiudendo

- Infatti non ti vedo troppo in forma… va beh che ti sei scolato un litro di vodka… scusa, barman, disse Roy mentre continuava a trastullare il povero animale - Versaci pure due rossi

- No, per me no - aggiunsi con la solita voce roca

- Allora facci un rosso e una Sambuca!

- Bene, adesso iniziamo a ragionare. Anzi, se per caso hai anche una sigaretta non mi offendo, visto che le mie non le trovo più...

Roy allora lanciò quello che restava del topo dalla finestra, sfilò una Marlboro e me la ficcò in bocca.

Era tipo un last shot, uno di quei bicchieri che dovrebbero restarti per sempre impresi nella memoria, spiaccicati nella miriade di ricordi di stronzate tipo prima comunione, ma che a me non facevano altro effetto se non quello di lacerarmi il fegato. Mi accomodai da solo su un tavolino. Off.

On. Roy: Il Duce nostro Esempio e Virtù

Il barista anonimo: Mussolini figlio di Nostro Signore

Santiddio, dove cazzo sono finito a Salò? A Predappio? Pensai con le poche cellule cerebrali che ripresero a circumnavigare il mio cranio in quell’istante. Sapevo che erano dei fascistoni, ma non credevo che quei due tipi arrivassero a tal punto. Non tanto per il concetto si sopravalutazione di Benito, ma più che altro per la svalutazione di Gesù Cristo, un tizio molto popolare e rispettato all’epoca.

- Succhiatemi il cazzo, fascisti di merda. - dissi senza pensare alle immediate conseguenze

I due si girarono. Il barista mi guardò come per dirmi ti conviene star zitto se non vuoi fare una brutta fine, ma non lo fece. Roy rise istericamente. Off.


On. In qualche maniera riuscii a sfuggire dalla guerra politica e mi inviai a piedi per recuperare la Prinz. Barcollando lungo la provinciale vidi le luci accese di un pub. Con il falso pretesto di comprare le sigarette entrai per bermi l’ultimo drink. A quell’ora tarda non potevo aspettarmi altro che trovare qualche recidivo bevitore o qualche compagnia in festa per qualche occasione stupida. Invece quella sera mi sbagliai. Dentro c’era la stessa puzza di fumo che avevo io addosso, ed oltre alle due non giovani bariste c’era un celeberrimo idiota. Giovane, magro, belloccio, con le spalle rachitiche ma attraenti, la parlata da intellettuale, occhiali da 10000000 milioni di sesterzi, cappellino da ebreo e sicuramente un pugno di erba in tasca. Uno sfigato. Era il cuginetto di Eddie. Non mi ricordavo come si chiamasse e non lo ricordo tuttora, sapevo solo che suo cugino era un certo Eddie.

- Ciao, Jim... da quanto tempo che non ci si vede... - Mi sussurrò lo sfigato voltandosi garbatamente.

- Ciao cuginetto di Eddie. Hai proprio un bel cappello

- Ti piace?

- Sinceramente avrei preferito trovare un bella figa con quel cappello. - Avrei voluto dirgli che mi faceva proprio cagare, ma sentivo nell’aria che mi avrebbe pagato da bere.

- Come stai?

- Tutto ok, ok, sono in forma smagliante

Una persona normale mi avrebbe sicuramente chiesto come mai ero in quelle condizioni pietose, ma lui evidentemente era troppo idiota o troppo garbato per accorgersene.

- Bevi qualcosa? - Mi chiese con gli occhietti dolci il dolce cuginetto di Eddie.

- Ma, non so, forse. Va beh, dai, mi bevo una Sambuca

- Allora, Mary, per favore, ci puoi… preparare un birretta ed una Sambuca? - Disse lo sfigato fissando la spina della birra o qualcos’altro da quelle parti.

No, santiddio. Pensai in quel momento. Che razza di ordinazione era quella. La frase formulata dal deficiente era una domanda, non un ordine, budello stronzo. Mary quindi potrebbe gentilmente rispondergli: “no, mi dispiace, ho le mie cose e non ho voglia di fare un bel niente” Siamo in un bar cazzo! Mary è una barista, pagata, e non ci da un cazzo da bere. Ma perché minchia dovrebbe stare là allora, o perché minchia un deficiente di cliente deve prevedere nella sua richiesta un fottuto “no, vai a bere a casa tua, finocchio ebreo rachitico, te, il tuo amico marcio e tutta la tua famiglia di merde trifolate”

Mentre ragionavo su queste fandonie, con serietà estrema, arrivarono i nostri drink. Evidentemente Mary gli aveva risposto di sì.

- Io studio, sono al quinto anno di distrofie aziendali peripatetiche e all’ultimo esame ho preso solo 27 perché il prof di equitazione molesta transessuale è così tosto che nessuno riesce a stargli dietro. Però comunque cioè nessuno gli da corda, neanche il giorno dell’esame. Ah, ah, ah

- Ah, ah, ah - Risposi ridendo con evidente sforzo.

- Ma te cosa fai? - mi disse inclinando la sua testa molliccia appesa alle spalle spinose.

- Vado ogni mattina alla facoltà di lettere. A pulire i cessi.

- Ah, Ah, Ah

Che cazzo ha da ridere sto deficiente. Ero talmente fuori da non riuscire più a far battute passabili.

Nel frattempo anche Mary e l’altra babusca di barista ridevano contente. Non so se per pietà o per droga. Forse più semplicemente ridevano perché noi eravamo clienti, portavamo soldi e meritavamo le loro false attenzioni. Io ridevo in puro stile presa per il culo, ma lo sfigato non se ne accorgeva e tutto ciò mi faceva ancora più ridere.

Finito il drink ce ne andammo verso casa, a piedi. Quando ero a due passi da casa infatti preferivo lasciare l’auto dov’era, evitando di rischiare inutilmente, dato che di notte era pieno di sbirri. Mi sa che quella sera invece mi dimenticai improvvisamente di essere motorizzato, forse a causa di una carenza improvvisa di fosforo.

- Dai, Jim, andiamo fini giù alla Terrazza! Lì c’è sempre un sacco di bella gente!

- Come? - Ormai non capivo proprio più un cazzo.

- Alla Terrazza, dallo Chef! Sì, sì, dallo Chef, che è proprio un bell’uomo!

Non recepii bene la sua ultima frase, mi resi conto solo del fatto che il cugino di Eddie era anche un frocio.

- Lo Chef? Guarda che...- Mi venne un colpo di singhiozzo. Stavo esagerando. Abbassai la testa e chiusi gli occhi trattenendo il vomito. - Lo Chef non gestisce più il locale da una vita. Adesso c’è un certo Brown che mi sta sui coglioni… ed io sto sui coglioni a lui

- Ma è l’unico locale aperto a quest’ora…

Collegai mentalmente locale con alcool e nel giro di un decimo di secondo eravamo già seduti sulle sedie in legno massiccio dell’enoteca degli sborni di Brown. Brown, il pelato.


- Vedi cugino di Eddie, questo locale è un merda. Lo Chef era un barista, non questo pelato anoressico. L’unica cosa positiva è che adesso non si rischia più di trovare dei capelli sui piatti...

Nel frattempo arrivò Brown a prendere le ordinazioni.


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