A lorenzo Artico



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Un timpano rotto?


Sera del 4 aprile, il corteo è finito. Il ministro dell’Interno Napolitano dice sensatamente che non è successo nulla di drammatico a Torino. Lui i vetri del Palazzo di Giustizia li aveva messi in conto nel momento in cui aveva acconsentito a fargli passare sotto cinquemila persone, senza mettergli davanti nemmeno un poliziotto.

Passata la buriana, il tempo di tirare un sospiro di sollievo tutti quanti e il meccanismo dell’emergenza riesplode: “Chi ha detto che non è successo niente di drammatico?”, tuona Costa, La Stampa, De Maria dell’Ascom. Un Castellani frastornato (a cui non sembrava vero che non ci fossero stati scontri gravi, feriti, arresti, ecc. con grave danno dell’immagine di Torino alla vigilia di un appuntamento turistico e religioso come l’ostensione della Sindone) è costretto a seguire a ruota: i commercianti non hanno potuto vendere per il terzo sabato consecutivo, i muri sono stati imbrattati, i negozi devastati, e addirittura una signora ha perso un timpano, un pazzo ha lanciato una bomba carta tra la folla a Porta Palazzo. Detto così sembra un macello. Intanto le vetrine rotte si riducono a due insegne di un negozio di Marvin [10] (non certo colpito a caso). E il timpano rotto della signora svanisce. È vero che una signora si è spaventata, giustamente, per il botto, ma del timpano rotto (il ferito più grave della giornata) non si hanno più notizie. Ma intanto la drammatizzazione è ripresa. Revelli in Rai fatica a riportare il tutto al piano di realtà, a cercare di ripartire dalla morte violenta in carcere di un uomo. Tutto inutile. Ci sono le scritte, le vetrine, e un timpano rotto!



Il giorno dopo: il dialogo sepolto sotto la devastazione


Difficile dialogare quando il reato che si rispolvera è quello di devastazione, circa dieci anni di carcere. I telegiornali fanno sapere che la Digos è al lavoro, tutti sono stati fotografati, presto saranno individuati i colpevoli di aver rotto vetri, scritto sui muri, rotto le insegne di Marvin, il vetro del distributore della Shell, buttato una bomba carta a Porta Palazzo.

Davvero per aver tirato quattro sassi uno rischia dieci anni di prigione? Rompere i vetri è violenza? La violenza non è un atto che ferisce un essere vivente (non diciamo neanche umano)?

Certo che la magistratura sta facendo di tutto per distendere il clima!

Il giorno dopo: il potere dei commercianti


Un altro dato interessante è il potere assunto dalla categoria dei commercianti, dato non nuovo e tutto interno alla ridefinizione del quadro sociale complessivo che colloca i commercianti (e soprattutto le loro associazioni di categoria) come rappresentanti dell’intero ceto medio. A Torino, con l’inizio degli anni ’80, il ceto egemone all’interno delle classi medie - come una volta si definivano - è stato rappresentato dal quadro-Fiat, l’attore della marcia dei 40.000, e l’associazione di riferimento è stata l’Associazione-Quadri. Emarginato socialmente il “quadro” (oggetto a sua volta di ristrutturazione alla fine degli anni Ottanta), è emersa invece la categoria dei commercianti, che si è espressa prima con i movimenti anti-fiscali e poi nell’affermazione della forza egemone dell’Ascom, l’Associazione Commercianti guidata da De Maria.

Le associazioni dei commercianti hanno qui assunto un ruolo centrale nella vicenda squatter. Apolitici per definizione, non si sono lasciati rappresentare dal Polo, ma hanno mantenuto una rappresentanza di categoria autonoma, riuscendo a imporre al sindaco la “punizione” dell’assessore Alberione.

I commercianti sono stati “vittime” della vicenda squatter, coinvolti loro malgrado a partire dalla rottura delle venti vetrine durante gli incidenti del 6 marzo (che il Comune si è impegnato a ripagare immediatamente, rivalendosi poi nel processo), penalizzati dai tre cortei che il sabato pomeriggio hanno percorso Porta Palazzo (il più grosso mercato all’aperto torinese), e inventano il mito dei danni alle vetrine del corteo del 4 aprile (come abbiamo visto l’unico colpito, e lievemente, è stato Marvin).

De Maria traduce simbolicamente la reazione rabbiosa della sua base associativa al corteo nazionale del 4 dichiarando: “Non abbasseremo più le saracinesche. Le porte rimarranno aperte, con i commercianti davanti a difendere la proprietà, il lavoro, la libertà. Chi sfila con i passamontagna e i bastoni sappia che d’ora in poi non è detto che i commercianti non reagiscano, piazzandosi coi bastoni davanti ai loro esercizi”. L’immagine è quella del negoziante coreano che nella Los Angeles in fiamme del 1992 difende il suo negozio dal saccheggio con la maglietta di Malcolm X addosso e la mitraglietta in mano, in versione subalpina s’intende. È ovvio che è solo una minaccia, simbolica certo, ma vuole ottenere due effetti: un gesto simbolico che si concretizza nella sospensione della delega ad Alberione fino alle scuse, e il divieto per i prossimi cortei al passaggio in centro e a Porta Palazzo. Commercianti pragmatici, come sempre.

Quello che colpisce è il potere della categoria, ma questa è solo una controprova; la sua autonomia di rappresentanza; la politicità di questa rappresentanza, capace di trattare alla pari con i partiti; la delega a questa categoria a rappresentare il torinese medio; i valori di fondo “proprietà, lavoro, libertà”.


Le forze dell’ordine


Innanzitutto i Ros, è loro l’operazione di sgombero delle tre case occupate il 6 marzo, l’arresto dei tre anarchici, le pisciate sui materassi, il danneggiamento rancoroso delle case occupate (ve li ricordate al Leoncavallo con la distruzione di computer, biblioteca, ecc.?).

Poi gli arresti, tre subito, sette al corteo, due per una rissa davanti al Prinz Eugen (squat torinese), tre per il pestaggio del fotografo: totale quindici, e non è ancora finita.

La scorta al magistrato Laudi il giorno dopo il suicidio di Massari, per inscenare il clima da anni di piombo.

Ma soprattutto il dibattito in città sulla questione dell’intervento delle forze dell’ordine quando si compie un reato (scritte sui muri, lancio di pietre, corteo non autorizzato, pestaggio dei giornalisti). Questore Faranda e Prefetto Moscatelli spesso sotto accusa.

Il prefetto dopo il primo corteo notturno e le scritte in via Po dichiara con realismo: “Certo sarebbe stato meglio se non fosse successo niente. Ma da qui a considerarla una cosa gravissima ne passa. I muri delle metropoli di tutto il mondo sono lì a testimoniare che quanto accaduto a Torino la scorsa notte è all’ordine del giorno in tante altre città. Certi fenomeni sociali vanno metabolizzati cercando di evitare il peggio… Se tutte le violenze si esaurissero in una scritta sui muri del centro saremmo molto sollevati”. Dichiarazioni che provocano la richiesta di rimuovere Prefetto e Questore.

Il copione si ripete altre tre volte uguale.

1) Durante la vista del capo della polizia Masone a Torino fa polemica la sua dichiarazione “Torino non vive nell’emergenza”. Comitati spontanei, Borghezio e Costa (leader della Lega Nord e del Polo a Torino) gli danno del bugiardo, anche se Masone dichiara che i centri sociali “sono al centro della nostra attenzione… Abbiamo studiato cose da fare, le attueremo”.

2) Al funerale di Massari, dopo il pestaggio del giornalista Genco, la polizia è accusata di non essere intervenuta, e le autorità chiederanno scusa dicendo di aver sottovalutato la situazione.

3) Prima e dopo il corteo nazionale, quando è lo stesso Ministro dell’Interno Napolitano a dover intervenire su “La Stampa” per spiegare perché non vieta il corteo (dopo che Castellani ha dichiarato: “La manifestazione è nazionale: quel che è meglio fare lo valuti il Consiglio dei Ministri”). Scrive Napolitano: “Divieti non motivati da convocazioni arbitrarie di cortei o di comizi o da pericoli accertati di grave turbativa dell’ordine pubblico possono ottenere effetti opposti a quello desiderato di tutelare l’ordine pubblico e la tranquillità dei cittadini. L’essenziale è che si adottino tutte le decisioni indispensabili per evitare inammissibili degenerazioni nell’esercizio del diritto costituzionale di manifestazione”.

Lo scontro tra due diverse filosofie dell’ordine pubblico è evidente. L’accusa alla linea Napolitano, Faranda, Masone, Moscatelli è di lassismo in nome del male minore. Non che questa politica non porti arresti e denunce, come abbiamo visto, ma si chiede il gesto di forza.

E dire che anche Gallino il 7 marzo aveva detto: “La difficoltà sta nel decidere esattamente cosa fare. Chiudere tutti i centri sociali? Pretendere che la polizia carichi con durezza al minimo cenno di vandalismo da parte di gruppi di autonomi, piccoli o grandi che siano? Processare per direttissima tutti quelli colti sul fatto? Imporre il coprifuoco ai soggetti già fermati e identificati più di una volta? Il rischio è che qualunque cosa si faccia per imporre con la forza la legge e l’ordine si riveli un rimedio peggiore del male. Nel senso che invece di duecento giovani che spaccano una ventina di vetrine potrebbero sbucarne qualche settimana dopo il doppio che moltiplicano i danni”.

E su questo dibattito aleggia ancora la vicenda Leoncavallo-Formentini del ‘94, la lunga battaglia per la chiusura del Leoncavallo, che sempre più si dimostra essere stata laboratorio nazionale per la gestione dei centri sociali.




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