Margaret atwood



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lievo, con gonna affusolata e peplo, ornata di inserti di velluto ne-

ro e giaietto. Stagliata contro uno scenario di narcisi bianchi, per-

golati a graticcio bianchi e candele accese in candelabri di argento

ornati da grappoli di falsa uva nera Muscardine decorata con na-

stri argentati a spirale, la signora Prior ha ricevuto gli ospiti in un

grazioso abito da sera in tulle di Chanel, con gonna drappeggiata

e corsetto ornato di semplici perline. Era presente anche la sorella

della signorina Chase, nonché sua damigella, la signorina Laura

Chase, in velluto di cotone verde foglia con inserti in satin color

anguria.


Tra la distinta folla ricordiamo il Vicegovernatore e sua moglie,

la signora Herbert A. Bruce, il Col. R.Y. Eaton e signora accom-

pagnati dalla figlia signorina Margaret Eaton, l'On. W.D. Ross e

signora con le figlie signorina Susan e signorina Isobel Ross, la

signora A.L. Ellsworth e le sue due figlie, la signora Beverley

Balmer e la signorina Elaine Ellsworth, la signorina Jocelyn e la

signorina Daphne Boone, e infine il signor Grant Pepler e signora.

L'assassino cieco: La campana di bronzo

È mezzanotte. Nella città di Sakiel-Norn un'unica campana di bronzo

suona per annunciare il momento in cui il Dio Infranto, incarnazione not-

turna del Dio dei Tre Soli, raggiunge il punto più basso della sua discesa

nelle tenebre e dopo un feroce combattimento è fatto a pezzi dal Signore

dell'Oltretomba e dalla sua banda di morti guerrieri che dimorano laggiù.

Sarà rimesso insieme dalla Dea, riportato in vita e curato fino a ritrovare

rinnovati salute e vigore, e all'alba risorgerà come al solito, rigenerato,

pieno di luce.

Sebbene il Dio Infranto sia una figura popolare, nessuno nella città crede

più sul serio a questa storia che si racconta su di lui. Eppure, in ogni fami-

glia le donne modellano un suo ritratto d'argilla, che gli uomini distruggo-

no nella notte più scura dell'anno, e il giorno seguente le donne ne model-

lano uno nuovo. Per i bambini ci sono piccoli dei di pane dolce da mangia-

re; i bambini con le loro piccole bocche avide rappresentano il futuro, che

come il tempo stesso divorerà tutti coloro che ora sono vivi.

Il Re siede solo nella torre più alta del suo sontuoso palazzo, da dove os-

serva le stelle e interpreta gli auspici e i presagi per la settimana che segui-

rà. Ha messo da parte la sua maschera di platino intessuto, dal momento

che non è presente nessuno a cui debba nascondere le sue emozioni: può

sorridere e aggrottare le ciglia a volontà, proprio come un Ygnirod qualsia-

si. È un tale sollievo.

Proprio ora sta sorridendo, un sorriso pensoso: sta riflettendo sul suo ul-

timo intrigo amoroso con la moglie pienotta di un funzionario di basso

rango. È stupida come un thulk, ma ha la bocca morbida e piena come un

cuscino di velluto impregnato d'acqua, e affusolate dita guizzanti come pe-

sci, e stretti occhi maliziosi, e un'esperienza coltivata con cura. Tuttavia,

sta diventando troppo esigente, nonché indiscreta. Lo sta tormentando per-

ché componga una poesia sulla sua nuca, o su qualche altra parte del suo

corpo, com'è consueto tra i più frivoli degli amanti di corte, ma i suoi ta-

lenti non vanno in quella direzione. Perché le donne amano tanto andare a

caccia di trofei, perché vogliono dei ricordi? O forse lei desidera che si

renda ridicolo, per dimostrargli il suo potere?

È un peccato, ma dovrà liberarsi di lei. Rovinerà suo marito fi-

nanziariamente - gli farà l'onore di pranzare a casa sua, con tutti i suoi cor-

tigiani più fidati, finché le risorse di quel povero sciocco non saranno esau-

rite. A quel punto la donna verrà venduta come schiava per pagare il debi-

to. Potrebbe farle perfino bene - rassodarle i muscoli. È un indubbio piace-

re immaginarla senza il suo velo, il viso nudo esposto allo sguardo di ogni

passante, mentre porta il poggiapiedi della sua nuova padrona o il wibular

domestico dal becco blu con un'espressione perennemente accigliata. Po-

trebbe sempre farla assassinare, ma gli sembra una punizione un po' seve-

ra: tutto ciò di cui è colpevole è l'ardente desiderio di cattiva poesia. Dopo-

tutto, non è un tiranno.

Davanti a lui giace un oorm sventrato. Sbircia oziosamente tra le piume.

Non dà grande importanza alle stelle - non crede più a tutte quelle scioc-

chezze -, ma dovrà comunque passare qualche tempo a osservarle con gli

occhi socchiusi ed escogitare qualche annuncio solenne. Il moltiplicarsi

della ricchezza e un raccolto abbondante dovrebbero funzionare nel breve

termine, e poi la gente si dimentica sempre delle profezie, a meno che non

si rivelino vere.

Si chiede se abbia qualche fondamento l'informazione che ha ricevuto da

una fonte privata degna di fede - il suo barbiere -, secondo cui si starebbe

tramando un ennesimo complotto ai suoi danni. Dovrà di nuovo ordinare

arresti, ripristinare la tortura e le esecuzioni? Senza dubbio. L'indulgenza

presunta è nociva all'ordine pubblico quanto quella reale. È auspicabile

non allentare mai la presa, quando si regna. Se dovranno cadere delle teste,

la sua non sarà tra quelle. Sarà costretto ad agire, per proteggersi; eppure

sente una strana inerzia. Governare un regno è una continua tensione: basta

che allenti la guardia anche solo per un momento e gli saranno addosso,

chiunque essi siano.

Lontano, a nord, gli sembra di scorgere un tremolio, come qualcosa che

arda, ma scompare subito. Lampi, forse. Si passa la mano sugli occhi.

Mi dispiace per lui. Penso che stia solo facendo del suo meglio.

Io penso che abbiamo bisogno di un altro drink. Che ne dici?

Scommetto che stai per farlo fuori. Hai quello scintillio negli occhi.

A essere giusti se lo meriterebbe. Da parte mia lo reputo un bastardo.

Ma i re devono esserlo, non è vero? La sopravvivenza del più forte, eccete-

ra eccetera. I deboli al muro.

Non lo credi davvero.

Ce n'è ancora? Strizza la bottiglia, vuoi? Perché ho veramente una gran

voglia di bere.

Vedrò. Si alza, tirandosi dietro il lenzuolo. La bottiglia è sulla scrivania.

Non c'è bisogno che ti copri, dice lui. Mi piace lo spettacolo.

Si gira a guardarlo al di sopra della spalla. Dice: Aggiunge mistero. Pas-

sami il tuo bicchiere. Vorrei che la smettessi di comprare questo torcibu-

della.


È tutto quello che posso permettermi. Comunque non ho gusto. È perché

sono orfano. Mi hanno rovinato i presbiteriani, all'orfanotrofio. È per que-

sto che sono così cupo e triste.

Non giocare la vecchia sporca carta dell'orfanotrofio. Il mio cuore non

sanguina.

Invece lo fa, dice lui. A parte le gambe e lo splendido culo, ecco cosa

ammiro di più in te - il tuo cuore sanguinante.

Non è il mio cuore a sanguinare, è la mia mente. Sono sanguinaria. O

così mi è stato detto.

Lui ride. Alla salute della tua indole sanguinaria, allora. Cin cin.

Lei beve, fa una smorfia.

Non fa in tempo a entrare, che già esce, dice lui allegro. A proposito, a-

vrei una faccenda urgente da sbrigare. Si alza, va alla finestra, solleva leg-

germente il telaio scorrevole.

Non puoi farlo!

È un vialetto laterale. Non colpirò nessuno.

Almeno rimani dietro la tenda! E io?

E tu cosa? Hai già visto un uomo nudo prima d'ora. Non chiudi sempre

gli occhi.

Non voglio dire questo, voglio dire che io non posso fare pipì fuori della

finestra. Scoppierò.

La vestaglia del mio amico, dice lui. La vedi? Quell'affare scozzese sul-

l'attaccapanni. Controlla soltanto che il corridoio sia vuoto. La padrona di

casa è una vecchia puttana ficcanaso, ma finché indossi la vestaglia scoz-

zese non ti vedrà. Ti mimetizzerai - questa topaia è scozzese fino al midol-

lo.


E allora, dice lui. Dov'ero rimasto?

È mezzanotte, dice lei. Un'unica campana di bronzo suona.

Ah, sì. È mezzanotte. Un'unica campana di bronzo suona. Mentre il rin-

tocco si smorza, l'assassino cieco gira la chiave nella porta. Il suo cuore

batte forte, come sempre in simili momenti: momenti di notevole pericolo

per se stesso. Se viene catturato, la morte che gli verrà destinata sarà lunga

e dolorosa.

Non prova alcun sentimento riguardo alla morte che sta per dare, né gli

importa di conoscerne i motivi. Chi deve essere assassinato e perché è af-

fare di ricchi e potenti, ed egli li odia in eguale misura. Sono coloro che gli

hanno tolto la vista e sono penetrati a forza nel suo corpo a decine, quando

era troppo giovane per poter reagire in qualche modo, e accoglierebbe con

gioia l'occasione di massacrare ognuno di loro - loro e chiunque sia coin-

volto nelle loro attività, come questa fanciulla. Per lui non significa nulla

che sia poco più di una prigioniera vestita a festa e ingioiellata. Per lui non

significa nulla che la stessa gente che lo ha reso cieco abbia reso lei muta.

Farà il suo lavoro, prenderà il suo compenso e la cosa finirà lì.

In ogni caso, se pure non la uccide questa notte, verrà uccisa l'indomani,

e lui sarà più rapido e certo non altrettanto maldestro. Le sta facendo un

favore. Troppi sono stati i sacrifici commessi senza alcuna perizia. Nessu-

no di questi Re ci sa fare con il coltello.

Spera che non faccia troppo chiasso. Gli è stato detto che non può grida-

re: il suono più alto che riesce a emettere, con la sua bocca senza lingua,

ferita, è un forte miagolio soffocato, come.un gatto in un sacco. È un bene.

Ciò nonostante, prenderà alcune precauzioni. Trascina il cadavere della

sentinella dentro la stanza, in modo che nessuno possa inciamparci nel cor-

ridoio. Poi si infila dentro anche lui, senza fare rumore, a piedi nudi, e ri-

chiude la porta a chiave.

V

La pelliccia



Questa mattina il canale delle previsioni meteorologiche ha annunciato

l'arrivo di una tromba d'aria, e verso la metà del pomeriggio il cielo ha as-

sunto una funesta sfumatura di verde e i rami degli alberi hanno preso ad

agitarsi come se un enorme animale infuriato stesse cercando di aprirsi a

forza un varco attraverso di essi. La bufera ci è passata proprio sopra la te-

sta: guizzanti lingue serpentine di luce bianca, pile di vassoi di latta che

piombavano a terra. Contate fino a mille e uno, ci diceva Reenie. Se ci riu-

scite, alla fine sarà a chilometri di distanza. Diceva di non usare mai il te-

lefono durante un temporale, o il fulmine ti sarebbe entrato diritto nell'o-

recchio e saresti diventato sordo. Diceva anche di non fare mai il bagno,

perché il fulmine sarebbe potuto scorrere fuori del rubinetto come acqua.

Diceva che se ti si drizzavano i capelli sulla nuca dovevi fare un salto, per-

ché era l'unica cosa in grado di salvarti.

Al crepuscolo la tempesta era andata, ma era ancora tutto fradicio come

in una fogna. Mi rigiravo nello scompiglio del mio letto, avvertendo i fati-

cosi battiti del mio cuore contro le molle del materasso, cercando di trova-

re una posizione comoda. Finalmente ho rinunciato al sonno, ho infilato un

lungo maglione sulla camicia da notte e ho superato con successo le scale.

Poi mi sono messa il mio impermeabile di plastica con il cappuccio, ho in-

filato i piedi negli stivali di gomma e sono uscita. Il legno bagnato dei gra-

dini della veranda era insidioso. La vernice è venuta via, forse stanno mar-

cendo.


Nella debole luce tutto era monocromo. L'aria era umida e immobile. I

crisantemi sul prato davanti casa brillavano di gocce scintillanti; un batta-

glione di lumache stava sicuramente divorando le poche foglie di lupino

rimaste. Si dice che alle lumache piaccia la birra; io continuo a pensare che

dovrei lasciargliene un po' fuori. Meglio a loro che a me: non è mai stata la

mia specie di alcol preferita. Volevo uno stordimento più rapido.

Sono avanzata lentamente, mentre i miei passi risuonavano sul marcia-

piede. C'era la luna piena, circondata da un pallido alone; sotto i lampioni

la mia ombra rimpicciolita mi scivolava davanti come un folletto. Sentivo

di stare facendo una cosa azzardata: una donna anziana, sola, che cammina

di notte. Agli occhi di un estraneo sarei apparsa inerme. E davvero ero un

po' spaventata, o almeno abbastanza in ansia perché il cuore mi battesse

più forte. Come Myra continua a ripetermi con tanto garbo, le vecchie si-

gnore sono i bersagli preferiti dei rapinatori. Si dice che vengano qui da

Toronto, questi rapinatori, come fanno tutti i cattivi. Probabilmente arriva-

no in pullman, con i loro strumenti da rapina camuffati da ombrelli, o da

mazze da golf. Non ci sono distanze che non possano coprire, dice Myra in

tono sinistro.

Ho superato tre isolati in direzione della strada principale che attraversa

la città, poi mi sono fermata a guardare dall'altra parte dell'asfalto bagnato,

satinato, verso la stazione di servizio di Walter. Walter era seduto nel faro

del suo casotto di vetro, nel bel mezzo della pozza di asfalto liscio, deserta

e nera come l'inchiostro. Piegato in avanti con il suo berretto rosso sem-

brava un fantino attempato su un cavallo invisibile o il capitano del proprio

destino, intento a pilotare una bizzarra astronave attraverso lo spazio. In

realtà stava guardando lo Sports Network sul suo televisore in miniatura,

come sono venuta a sapere da Myra. Non sono andata a parlargli: si sareb-

be allarmato nel vedermi spuntare dall'oscurità con gli stivali di gomma e

la camicia da notte, come un'eccentrica vagabonda ottuagenaria. Eppure,

era confortante sapere che c'era almeno un altro essere umano sveglio a

quell'ora di notte.

Sulla via del ritorno ho sentito dei passi alle mie spalle. Ci siamo, mi so-

no detta, ecco il rapinatore. Ma era soltanto una giovane donna con un im-

permeabile nero, che portava una borsa o una valigetta. Mi ha superato ad

andatura veloce, con la testa sporta in avanti.

Sabrina, ho pensato. Alla fine è tornata. Mi sono sentita pienamente per-

donata, in quell'istante - e benedetta, piena di grazia, come se il tempo si

fosse riavvolto all'indietro e il mio vecchio bastone di legno secco fosse

sbocciato melodrammaticamente in un fiore. Ma alla seconda occhiata -

anzi, alla terza - ho visto che non era affatto Sabrina; solo un'estranea. Chi

sono io comunque, per meritare un risultato così miracoloso? Come posso

aspettarmelo?

Eppure me lo aspetto. Contro ogni logica.

Ma ora basta. Riprendo il fardello del mio racconto, come dicevano una

volta i poeti. Torniamo ad Avilion.

Mia madre era morta. Le cose non sarebbero più state le stesse. Mi fu

detto di stringere i denti. Chi fu a dirmelo? Di sicuro Reenie, forse mio pa-

dre. È strano, non si parla mai di labbra, in certi momenti. Eppure sono

quelle che verrebbe voglia di mordersi, per rimpiazzare un tipo di dolore

con un altro.

All'inizio Laura trascorreva molto tempo dentro la pelliccia di mia ma-

dre. Era di pelle di foca, in una tasca c'era ancora il suo fazzoletto. Laura ci

si infilava dentro e cercava di abbottonarla, finché non le venne in mente

di abbottonarla prima e strisciarci dentro poi. Credo che debba aver prega-

to lì dentro, o fatto giochi di prestigio: per far tornare magicamente indie-

tro la mamma. Di qualunque cosa si trattasse, non funzionò. Poi la pellic-

cia venne data in beneficienza.

Presto Laura cominciò a chiedere dove fosse andato il bimbo, quello che

non sembrava affatto un gattino. In Paradiso non la soddisfaceva più - do-

po che era stato nel catino, voleva sapere lei. Reenie le diceva che l'aveva

portato via il dottore. Ma perché non c'è stato un funerale? Perché è nato

troppo piccolo, diceva Reenie. Come ha potuto una cosa così piccola ucci-

dere la mamma? Reenie diceva: Non ci pensare. Diceva: Lo capirai quan-

do sarai più grande. Diceva: Ciò che non si sa non può far male. Una

massima dubbia: a volte ciò che non si sa può fare molto male.

Di notte Laura scivolava nella mia stanza e mi scuoteva per svegliarmi,

poi si infilava nel mio letto. Non riusciva a dormire: era per via di Dio. Fi-

no al funerale, lei e Dio erano stati in buoni rapporti. Dio ti ama, diceva la

maestra della scuola domenicale della chiesa metodista, dove ci aveva

mandato nostra madre, e dove Reenie continuava a mandarci per principio,

e Laura ci aveva creduto. Ma ora non ne era più così sicura.

Cominciò a preoccuparsi dell'esatta ubicazione di Dio. Era colpa della

maestra della scuola domenicale: Dio è ovunque, aveva detto, e Laura vo-

leva sapere: Dio era nel sole, Dio era nella luna, Dio era nella cucina, nel

bagno, era sotto il letto? («Vorrei torcere il collo a quella donna» diceva

Reenie). Laura non voleva che Dio le spuntasse davanti quando meno se lo

aspettava, cosa non difficile da credere considerato il suo recente compor-

tamento. Apri la bocca e chiudi gli occhi, e ti darò una sorpresa coi fioc-

chi, diceva Reenie, tenendo un biscotto dietro la schiena, ma Laura non

voleva più saperne. Voleva tenere gli occhi aperti. Non che non si fidasse

di Reenie, ma aveva paura delle sorprese.

Probabilmente Dio era nello stanzino delle scope. Sembrava il posto più

verosimile. Se ne stava nascosto là come uno zio eccentrico e magari peri-

coloso, ma lei non poteva essere certa che ci stesse, perché aveva paura di

aprire la porta. «Dio è nel tuo cuore» diceva la maestra della scuola dome-

nicale, e questo era ancora peggio. Se fosse stato nello stanzino delle scope

si sarebbe potuto sempre fare qualcosa, come chiudere la porta a chiave.

Dio non dormiva mai, si diceva nell'inno - Nessun sonno spensierato

chiuderà i Suoi occhi. No, di notte vagava per la casa spiando le persone -

controllando se fossero state abbastanza buone, o mandando flagelli per

ucciderle, o indulgendo in qualche altro capriccio. Prima o poi sarebbe sta-

to obbligato a fare qualcosa di spiacevole, com'era accaduto spesso nella

Bibbia. «Ascolta, è lui» diceva Laura. Il passo leggero, il passo pesante.

«Non è Dio. È soltanto papà. È nella torretta».

«Cosa sta facendo?»

«Fuma». Non volevo dire beve. Mi sembrava sleale.

I sentimenti più teneri nei confronti di Laura li provavo quando dormiva

- la bocca socchiusa, le ciglia ancora bagnate -, ma il suo era un sonno agi-

tato; brontolava e scalciava, e a volte russava, impedendo anche a me di

dormire. Scivolavo fuori del letto e attraversavo il pavimento in punta di

piedi, quindi mi tiravo su per guardare fuori della finestra della nostra

stanza. Quando c'era la luna i giardini fioriti erano di un grigio argenteo,

come se ne fossero stati succhiati tutti i colori. Potevo vedere la ninfa di

pietra, di scorcio; la luna si rifletteva nel suo laghetto delle ninfee, e lei im-

mergeva le dita dei piedi nella luce fredda. Rabbrividendo tornavo a letto,

e giacevo guardando le ombre tremule delle tende e ascoltando i mormorii

e i crepitii della casa che si assestava. Chiedendomi cosa avessi fatto che

non andava.

I bambini credono che tutto il male del mondo sia in qualche modo col-

pa loro, e in questo io non facevo eccezione; ma credono anche nei lieto

fine, nonostante tutto lasci prevedere il contrario, e io non facevo eccezio-

ne neanche in questo. Volevo soltanto che il lieto fine si sbrigasse a venire,

perché - soprattutto di notte, quando Laura dormiva e io non ero costretta a

tirarle su il morale - mi sentivo terribilmente triste.

La mattina aiutavo Laura a vestirsi - era stato mio compito anche quando

la mamma era viva - e mi assicuravo che si lavasse i denti e la faccia. Al-

l'ora di pranzo a volte Reenie ci lasciava fare un picnic. Ci dava pane bian-

co imburrato e spalmato di gelatina di uva traslucida come cellophane, e

carote crude, e mele a pezzetti. Ci dava manzo conservato, tirato fuori da

una scatoletta a forma di tempio azteco. Ci dava uova sode. Mettevamo

queste cose sui piatti, le portavamo fuori e le mangiavamo qua e là - accan-

to allo stagno, nella serra. Se pioveva, le mangiavamo dentro.

«Ricordate gli armeni che muoiono di fame» diceva Laura con le mani

giunte e gli occhi chiusi, chinandosi sulle croste del suo panino con la ge-

latina. Sapevo che lo diceva perché lo faceva la mamma, e nel sentirlo mi

veniva voglia di piangere. «Non ci sono armeni che fanno la fame, è solo

un'invenzione» le dissi una volta, ma non ci volle credere.

Venivamo lasciate spesso da sole a quel tempo. Imparammo a conoscere

ogni centimetro di Avilion: le sue crepe, i suoi sotterranei, le sue gallerie.

Sbirciavamo nel nascondiglio sotto la scala di servizio, che conteneva un

miscuglio di soprascarpe smesse e di manopole spaiate e un ombrello dalle

stecche rotte. Esploravamo le varie ramificazioni della cantina - la cantina

del carbone per il carbone; la cantina degli ortaggi per i cavoli e le zucche

disposti sopra un'asse, e le barbabietole e le carote che mettevano barbe

nella loro cassetta di sabbia, e le patate con i loro ciechi tentacoli albini,

simili alle zampe dei gamberi; la cantina fredda per le mele nei loro barili e

per gli scaffali delle conserve di frutta - polverose marmellate e gelatine

che scintillavano come gemme grezze, e salse indiane a base di spezie e

frutta, e sottaceti e fragole e pomodori pelati e salsa di mele, tutto in vasetti

sigillati Crown. C'era anche una cantina dei vini, ma veniva tenuta chiusa;

soltanto mio padre aveva la chiave.

Trovammo l'umida grotta dal pavimento di terra sotto la veranda, rag-

giunta strisciando tra le malvarose, dove provavano a crescere soltanto

denti di leone sottili e lunghi come zampe di ragno e la lisimachia, con il

suo odore di menta schiacciata mescolato a orina di gatto e (una volta) al

tanfo aspro e nauseante di un serpente giarrettiera messo in allarme. Tro-

vammo la soffitta, con scatole di vecchi libri e trapunte riposte e tre bauli

vuoti, e un armonium rotto, e il manichino senza testa della nonna Adelia,

un tronco scolorito e ammuffito.

Trattenendo il respiro, avanzavamo furtive attraverso i nostri labirinti

d'ombra. Traevamo conforto da questo - dal nostro segreto, dalla nostra

conoscenza di passaggi nascosti, dalla nostra convinzione di non poter es-

sere viste.

Senti il ticchettare dell'orologio, dissi. Era un pendolo - un antico pezzo

di porcellana bianca e dorata; era stato del nonno; stava sul caminetto nella


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