Margaret atwood



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Fu un tradimento o un atto di coraggio? Forse entrambe le cose. Nessuna

delle due comporta la premeditazione: cose del genere avvengono su due

piedi, in un batter d'occhio. Questo soltanto perché le abbiamo già provate,

più e più volte, nel silenzio e nell'oscurità; in un tale silenzio, in una tale

oscurità, che ne siamo perfino inconsapevoli. Ciechi ma senza commettere

passi falsi, andiamo avanti come se entrassimo in una danza che ci è torna-

ta alla memoria.

Sunnyside

Tre giorni dopo, doveva arrivare Laura. Mi ero fatta accompagnare alla

Union Station per essere lì all'arrivo del treno, ma lei non c'era. Non era

neanche ad Avilion: telefonai a Reenie per controllare, provocando un'e-

splosione; aveva sempre saputo che sarebbe successo qualcosa del genere,

considerato com'era Laura. L'aveva accompagnata al treno, aveva spedito

il baule e tutto il resto, come ordinato, aveva preso ogni precauzione. A-

vrebbe dovuto accompagnarla per tutto il viaggio, e adesso ecco! Qualche

trafficante di schiave l'aveva fatta sparire.

Il baule di Laura comparve in orario, ma di lei sembrava che si fosse

persa ogni traccia. Richard fu più turbato di quanto mi sarei aspettata. A-

veva paura che fosse stata rapita da qualche misterioso gruppo - gente che

ce l'aveva con lui. Potevano essere i rossi, oppure un rivale in affari privo

di scrupoli: certi squilibrati esistevano. Criminali, insinuò, in combutta con

ogni specie di gente - gente che non si sarebbe fermata davanti a nulla pur

di esercitare pressioni su di lui, a causa dei suoi contatti politici in continuo

aumento. Ora avremmo dovuto aspettarci di ricevere un messaggio ricatta-

torio.

Erano molti gli elementi che lo insospettivano, quell'agosto; disse che



dovevamo stare bene in guardia. C'era stata una grossa marcia a Ottawa, in

luglio - migliaia, decine di migliaia di uomini che sostenevano di essere

disoccupati e domandavano lavoro e paghe eque, istigati dai sovversivi a

rovesciare il governo.

«Scommetto che c'è coinvolto quel giovane come-si-chiama» disse Ri-

chard, osservandomi attentamente.

«Quel giovane chi?» domandai, guardando fuori della finestra.

«Fai attenzione, cara. L'amico di Laura. Quello scuro. Il giovane crimi-

nale che ha distrutto la fabbrica di tuo padre dandole fuoco».

«Non è andata distrutta» dissi. «Hanno spento il fuoco in tempo. E co-

munque, non è mai stato provato».

«Se l'è svignata» replicò Richard. «È scappato come un coniglio. Per me

è una prova sufficiente».

I partecipanti alla marcia erano stati raggirati con un astuto stratagemma

suggerito dietro le quinte - almeno a sentir lui - dallo stesso Richard, che al

tempo aveva amici altolocati. I leader della marcia erano stati attirati a Ot-

tawa per «colloqui ufficiali», e l'intera faccenda era stata tenuta sotto con-

trollo al Regina. I colloqui non avevano portato a nulla, secondo copione,

ma poi erano scoppiati disordini: i sovversivi avevano agitato le acque, la

folla aveva perso il controllo, c'erano stati morti e feriti. Dietro a tutto que-

sto c'erano i comunisti, perché loro avevano le mani in pasta in ogni losco

affare, e chi poteva dire che l'agguato a Laura non fosse uno di quegli affa-

ri?

Pensai che Richard si stesse agitando eccessivamente. Anch'io ero turba-



ta, ma credevo che Laura avesse semplicemente fatto un giro più lungo del

previsto - distratta da qualcosa. Sarebbe stato più tipico da parte sua. Era

scesa alla stazione sbagliata, aveva dimenticato il nostro numero di telefo-

no, aveva perso la strada.

Winifred disse che avremmo dovuto controllare gli ospedali: Laura po-

teva essersi ammalata o avere avuto un incidente. Ma non era in ospedale.

Dopo due giorni di preoccupazioni informammo la polizia, e poco dopo,

nonostante le precauzioni di Richard, la storia finì sui giornali. I cronisti

assediarono il marciapiede fuori casa nostra. Scattavano foto, magari solo

alle porte e alle finestre; telefonavano; ci supplicavano di rilasciare intervi-

ste. Quello che volevano era uno scandalo. «Nota studentessa dell'alta so-

cietà trovata in un nido d'amore». «La Union Station luogo di macabri re-

sti». Volevano che si dicesse che Laura era fuggita con un uomo sposato, o

era stata sequestrata dagli anarchici, o era stata trovata morta in una valigia

a quadri nel deposito bagagli. Sesso o morte, o tutte e due le cose insieme -

è questo che avevano in mente.

Richard disse che dovevamo essere gentili ma abbottonati. Disse che

non aveva senso inimicarsi eccessivamente i giornali, perché i cronisti era-

no piccoli parassiti vendicativi che avrebbero serbato rancore per anni e ci

avrebbero ripagato più tardi, quando meno ce lo fossimo aspettato. Disse

che se ne sarebbe occupato lui.

Per prima cosa mise in giro la voce che ero sull'orlo del crollo, e chiese

che la mia privacy e la mia salute delicata fossero rispettate. Questo fece

un po' demordere i cronisti; naturalmente supposero che fossi incinta, cosa

che a quei tempi veniva ancora considerata, e che inoltre si pensava con-

fondesse il cervello delle donne. Poi fece sapere che per qualsiasi informa-

zione ci sarebbe stata una ricompensa, pur non dicendo di quanto. L'ottavo

giorno ci fu una chiamata anonima: Laura non era morta, ma lavorava in

una bancarella di cialde al Parco dei Divertimenti di Sunnyside. Chi chia-

mava sosteneva di averla riconosciuta dalla descrizione fornitane dai gior-

nali.

Fu deciso che Richard e io saremmo andati insieme a recuperarla in



macchina. Winifred disse che molto probabilmente Laura era in uno stato

di choc a scoppio ritardato, considerata la morte disdicevole di mio padre e

la sua scoperta del cadavere. Chiunque sarebbe stato turbato dopo una si-

mile prova, e Laura era una ragazza dal temperamento nervoso. La cosa

più probabile era che si rendesse a malapena conto di quanto faceva o di-

ceva. Una volta che l'avessimo riavuta tra noi, avremmo dovuto sommini-

strarle un forte sedativo e portarla da un dottore.

Ma la cosa più importante, disse Winifred, era che non trapelasse una

sola parola su tutto ciò. Una quindicenne che scappava di casa a quel modo

avrebbe gettato una cattiva luce sulla famiglia. Magari la gente avrebbe

pensato che fosse stata maltrattata, e questo poteva diventare un serio im-

pedimento. Per Richard e per il suo avvenire politico, intendeva dire.

A quel tempo Sunnyside era dove la gente andava d'estate. Non gente

come Richard e Winifred - c'era troppo chiasso per loro, troppo tanfo di

sudore. Giostre, hot-dog, root beer, tiri al bersaglio, concorsi di bellezza,

bagni pubblici: in poche parole, divertimenti volgari. A Richard e Winifred

non sarebbe piaciuto trovarsi così a tiro delle ascelle altrui, o di chi conta-

va il proprio denaro in centesimi. Ma non so perché faccio tanto la morali-

sta, dato che non sarebbe piaciuto neanche a me.

Non c'è più, Sunnyside - spazzato via da un'autostrada d'asfalto a dodici

corsie a un certo punto degli anni Cinquanta. Smantellato tanto tempo fa,

come molte altre cose. Ma quell'agosto funzionava ancora a pieno regime.

Ci andammo con il coupé di Richard, ma dovemmo lasciare la macchina a

una certa distanza, per via del traffico e della calca di gente che faceva a

gomitate sui marciapiedi e sulle strade polverose.

Era una giornata orribile, torrida e caliginosa; più arroventata dei cardini

dell'Ade, come direbbe ora Walter. Sopra la riva del lago aleggiava una fo-

schia invisibile ma quasi palpabile, fatta di profumo stantio e di olio ab-

bronzante spalmato sulle spalle nude, mescolato al vapore dei wurstel che

cuocevano e all'odore bruciato dello zucchero filato. Camminare nella folla

era come affondare in uno stufato - ci si trasformava in un ingrediente, si

prendeva un certo sapore. Perfino la fronte di Richard era bagnata, sotto la

tesa del panama.

Dall'alto veniva un forte stridore di metallo contro metallo, e un rim-

bombo minaccioso, e un coro di grida femminili: le montagne russe. Non

ci ero mai stata e nel vederle rimasi a bocca aperta, finché Richard non dis-

se: «Chiudi la bocca, cara, o ci entreranno le mosche». Più tardi sentii una

strana storia - da chi? Da Winifred, non c'è dubbio; era il genere di cose

che buttava lì per dimostrare di sapere cosa accadeva veramente nella vita,

nella vita dei miserabili, dietro le quinte. La storia diceva che le ragazze

che si erano messe nei guai - era il termine di Winifred, come se avessero

combinato il guaio tutte da sole -, che queste ragazze inguaiate andavano

sulle montagne russe a Sunnyside, sperando in tal modo di provocare un

aborto. Winifred rideva: Naturalmente non funzionava, diceva, e se avesse

funzionato cosa avrebbero fatto? Con tutto quel sangue, voglio dire? L'a-

vrebbero fatto volare in aria? Figuratevi un po'!

Quello che immaginai quando lo raccontò furono le stelle filanti rosse

che si lanciavano dai transatlantici al momento della partenza e scendeva-

no come una cascata sugli spettatori di sotto; o una serie di linee, linee ros-

se lunghe e spesse, che si srotolavano dalle montagne russe e dalle ragazze

lì sopra come vernice gettata da un secchio. Come lunghi scarabocchi di

fumo vermiglio. Come se scrivessero in cielo.

Ora penso: Ma in quest'ultimo caso, cosa avrebbero scritto? Diari, ro-

manzi, autobiografie? O semplici graffiti: Mary ama John. Ma John non

ama Mary, o non abbastanza. Non abbastanza da evitarle di svuotarsi così,

scarabocchiando sopra tutti quanti in lettere rosse, tanto rosse.

Una vecchia storia.

Ma in quell'agosto del 1935 non avevo ancora sentito parlare di aborto.

Se la parola fosse stata detta in mia presenza, cosa che non poteva accade-

re, non avrei avuto idea del suo significato. Neanche Reenie l'aveva mai

nominata: oscuri accenni a macellai da tavolo di cucina erano il massimo a

cui si fosse spinta, e Laura e io - nascoste sulla scala di servizio a origliare

- avevamo pensato che parlasse di cannibalismo, cosa che avevamo trovato

avvincente.

Le montagne russe sfrecciavano tra le grida, il tiro al bersaglio faceva un

rumore come di popcorn. Altra gente rideva. Mi accorsi di avere fame, ma

non me la sentii di suggerire uno spuntino; non sarebbe stato appropriato

in quel momento, e poi il cibo era inaccettabile. Richard era di umore nero;

mi teneva per il gomito, guidandomi attraverso la folla. Aveva l'altra mano

in tasca: quel posto, disse, brulicava sicuramente di ladri lesti di mano.

Ci facemmo strada verso la bancarella delle cialde. Laura non si vedeva,

ma Richard non voleva parlare subito con lei, aveva un'idea migliore. Gli

piaceva risolvere le cose con chi comandava, sempre, se era possibile. Per-

ciò chiese di parlare a quattr'occhi con il proprietario della bancarella, un

uomo robusto dalla carnagione scura che puzzava di burro rancido. L'uo-

mo capì subito perché Richard era lì. Uscì fuori dalla bancarella, gettando

un'occhiata furtiva al di sopra della spalla.

Era consapevole che stava dando ricetto a una fuggiasca minorenne?

chiese Richard. Dio ce ne guardi! esclamò l'uomo, inorridito. Laura lo a-

veva raggirato - aveva detto di avere diciannove anni. Però lavorava sodo,

lavorava come un mulo, teneva il locale pulito e dava una mano con le

cialde quando il daffare era davvero tanto. Dove dormiva? Su questo punto

fu vago. Qualcuno lì intorno le aveva dato un letto, ma non lui. Non c'era

niente di losco, dovevamo credergli, almeno per quanto ne sapeva. Era una

brava ragazza e lui era un uomo felicemente sposato, a differenza di qual-

cuno là in giro. Gli era dispiaciuto per lei - aveva pensato che forse si era

cacciata in qualche guaio. Aveva un debole per le belle ragazzine così. In

effetti era stato lui a chiamare, e non solo per la ricompensa; aveva imma-

ginato che lei avrebbe fatto meglio a tornare dalla sua famiglia, giusto?

A questo punto guardò Richard in attesa. Ci fu un passaggio di denaro,

anche se - mi parve di capire - non tanto quanto l'uomo si era aspettato. Poi

fu mandata a chiamare Laura. Non protestò. Ci diede un'occhiata e decise

di non farlo. «Grazie di tutto, comunque» disse all'uomo delle cialde. Gli

strinse la mano. Non si rese conto che aveva speculato su di lei.

Richard e io la tenemmo ognuno per un gomito; la conducemmo alla

macchina attraverso Sunnyside. Mi sentivo una traditrice. Richard la fece

sedere tra noi due. Le misi un braccio attorno alle spalle per calmarla. Ero

arrabbiata con lei, ma sapevo che dovevo essere confortante. Odorava di

vaniglia, di sciroppo dolce forte e di capelli non lavati.

Dopo avere riportato Laura a casa, Richard mandò a chiamare la signora

Murgatroyd e le fece portare un bicchiere di tè freddo. Ma Laura non lo

bevve, si sedette esattamente al centro del divano, le ginocchia unite, rigi-

da, il viso impietrito, gli occhi come ardesia.

Aveva idea di quanta ansia e scompiglio avesse provocato? chiese Ri-

chard. No. Gliene importava? Nessuna risposta. Lui certamente sperava

che non avrebbe più riprovato a fare nulla di simile. Nessuna risposta. Per-

ché ora lui era in loco parentis, per così dire, e aveva una responsabilità

nei suoi confronti, e aveva tutte le intenzioni di assolverla, per quanto po-

tesse costargli. E siccome nulla è a senso unico, si aspettava che lei si ren-

desse conto di avere a sua volta una responsabilità nei suoi confronti - nei

nostri confronti, precisò -, che consisteva nel comportarsi bene e nel fare

quanto le veniva richiesto, nei limiti del possibile. Lo capiva?

«Sì» rispose Laura. «Capisco cosa vuoi dire».

«Lo spero proprio» disse Richard. «Lo spero proprio, ragazzina».

Il ragazzina mi innervosì. Era un rimprovero, come se ci fosse qualcosa

che non andava nell'essere una ragazzina. Se era così, era un rimprovero

che comprendeva anche me. «Cosa mangiavi?» chiesi, per cambiare di-

scorso.


«Mele caramellate» rispose Laura. «Ciambelle comprate al chiosco dei

Downyflake Doughnut, il secondo giorno le ho pagate di meno. La gente lì

era davvero carina. Hot dog».

«Oh, cara» dissi, con un piccolo sorriso di disapprovazione a Richard.

«È quello che mangia l'altra gente» disse Laura, «nella vita reale», e io

cominciai a capire vagamente cosa dovesse averla attratta a Sunnyside. Era

l'altra gente - la gente che era sempre stata e avrebbe continuato a essere

altra, per quanto riguardava Laura. Desiderava servirla, quest'altra gente.

Desiderava, in un certo senso, unirsi a lei. Ma non ci era mai riuscita. Era-

vamo tornati alla mensa dei poveri di Port Ticonderoga.

«Laura, perché l'hai fatto?» chiesi appena fummo sole. (Come hai potuto

farlo? avrebbe avuto una risposta semplice: era scesa dal treno a London e

aveva cambiato il suo biglietto con quello per un treno successivo. Almeno

non era andata in qualche altra città: allora magari non l'avremmo più tro-

vata).

«Richard ha ucciso papà» disse. «Non posso vivere in casa sua. È sba-



gliato».

«Non è molto corretto» ribattei. «Papà è morto per una sfortunata com-

binazione di circostanze». Mi vergognavo di me stessa nel dirlo: mi sem-

brava di sentire Richard.

«Può anche non essere corretto, ma è vero. Sotto sotto, è vero» disse. «A

ogni modo, volevo un lavoro».

«Ma perché?»

«Per dimostrare che ce l'avremmo... che ce l'avrei fatta. Che io, che noi

non dovevamo...» Distolse lo sguardo da me, si rosicchiò un'unghia.

«Dovevamo cosa?»

«Lo sai» disse. «Tutto questo». Fece un gesto della mano in direzione

della toletta con le sue gale, delle tende a fiori in tinta. «Per prima cosa so-

no andata dalle suore. Al Convento di Nostra Signora Stella del Mare».

Oh Dio, pensai, non di nuovo le suore. Pensavo che avessimo chiuso con

le suore. «E cosa hanno detto?» domandai in maniera gentile, distaccata.

«Non è servito a niente» disse Laura. «Sono state molto carine con me,

ma hanno detto di no. Non solo perché non ero cattolica. Hanno detto che

non avevo una vera vocazione, stavo soltanto sottraendomi ai miei doveri.

Hanno detto che se volevo servire Dio, avrei dovuto farlo nella vita alla

quale mi aveva chiamato». Una pausa. «Ma quale vita?» disse. «Io non ho

nessuna vita!»

Poi si mise a piangere, e io l'abbracciai, il gesto antico di quando era

piccola. Ma smettila di strillare. Se avessi avuto una zolletta di zucchero di

canna gliel'avrei data, ma ormai eravamo ben oltre la fase dello zucchero

di canna. Lo zucchero non sarebbe servito a niente.

«Come faremo ad andarcene da qui?» piagnucolava. «Prima che sia

troppo tardi?» Almeno aveva il buonsenso di essere spaventata; aveva più

buonsenso di me. Ma io pensavo che fosse solo un melodramma da adole-

scente. «Troppo tardi per cosa?» le chiesi gentilmente. Un profondo respi-

ro era tutto quello che ci voleva; un profondo respiro, un po' di calma, fare

mente locale. Non era il caso di farsi prendere dal panico.

Pensavo che avrei potuto collaborare con Richard, con Winifred. Pensa-

vo che avrei potuto vivere come un topo nel castello delle tigri, strisciando

non vista dentro i muri; standomene tranquilla, tenendomi fuori dei guai.

No: mi attribuisco un merito che non ho. Non vedevo il pericolo. Non sa-

pevo neanche che erano delle tigri. Peggio: non sapevo che sarei potuta di-

ventare io stessa una tigre. Non sapevo che anche Laura lo sarebbe potuta

diventare, nelle circostanze adeguate. Chiunque poteva, se è per questo.

«Cerca di vedere il lato positivo» dissi a Laura nel mio tono più tranquil-

lizzante. Le diedi qualche colpetto sulla schiena. «Ti porto una tazza di lat-

te caldo, e poi potrai farti una bella dormita. Ti sentirai meglio domani».

Ma lei continuava a piangere, e non voleva essere confortata.

Xanadu

La scorsa notte ho sognato che indossavo il costume che avevo al ballo a



tema dedicato a Xanadu. Io dovevo essere una fanciulla abissina - la fan-

ciulla con il salterio. Era di raso verde, quel costume: un piccolo bolero

con un bordo di lustrini dorati, che lasciava ampiamente scoperti seni e vi-

ta; culottes di raso verde, pantaloni trasparenti. Un'infinità di false monete

d'oro indossate come collane e avvolte attorno alla fronte. Un piccolo tur-

bante vivace con una spilla a mezzaluna. Un velo sul viso. Un'idea dell'O-

riente quale può averla un costumista da circo di cattivo gusto.

Pensavo di essere molto chic indossandolo, finché mi resi conto, abbas-

sando lo sguardo sulla mia pancia cadente, sulle mie nocche ingrossate ve-

nate di blu, sulle mie braccia raggrinzite, di non avere l'età che avevo allo-

ra, ma la mia età di adesso.

Non ero al ballo, però. Ero tutta sola, o così mi sembrò sulle prime, nella

serra in rovina di Avilion. Vasi vuoti erano sparsi qua e là; altri, non vuoti,

erano pieni di terra secca e piante morte. Una delle sfingi di pietra giaceva

al suolo, rovesciata su un lato, sfregiata con un pennarello - nomi, iniziali,

disegni sconci. C'era un buco nel tetto di vetro. Il posto puzzava di gatto.

La casa dietro di me era buia, deserta, tutto ciò che conteneva era spari-

to. Mi avevano lasciata lì con quel ridicolo vestito stravagante. Era notte,

con una sottile falce di luna. Alla sua luce potevo vedere che in realtà c'era

un'unica pianta ancora viva: una sorta di cespuglio scintillante con un fiore

bianco. Laura, dissi. Dall'ombra giunse una risata d'uomo.

Non è granché come incubo, direte. Aspettate a provarlo. Mi sono sve-

gliata - sconsolata.

Perché la mente combina certi scherzi? Ci si accanisce contro, ci lacera,

affonda i suoi artigli dentro di noi. Se hai abbastanza fame, dicono, comin-

ci a mangiarti il cuore. Forse è la stessa cosa.

Sciocchezze. Si tratta solo di sostanze chimiche. Devo prendere dei

provvedimenti, riguardo a questi sogni. Ci sarà pure qualche pillola.

Oggi ancora neve. Mi basta guardare fuori della finestra per sentirmi do-

lere le dita. Scrivo al tavolo della cucina, lentamente, come se cesellassi

qualcosa. La penna è pesante, difficile da premere, come un chiodo che

gratta sul cemento.

Autunno 1935. Il caldo si ritirava, il freddo avanzava. Gelo sulle foglie

cadute, poi sulle foglie che non erano cadute. Poi sulle finestre. Allora cer-

ti dettagli mi davano gioia. Mi piaceva inspirare l'aria. Lo spazio all'interno

dei miei polmoni era tutto mio.

Nel frattempo, le cose andavano avanti.

Quella a cui ora Winifred si riferiva come alla «scappatella» di Laura

veniva tenuta il più possibile nascosta. Richard disse a Laura che se ne a-

vesse parlato a chiunque altro, soprattutto a scuola, lo sarebbe venuto sicu-

ramente a sapere e lo avrebbe considerato un affronto personale, alla stre-

gua di un tentativo di sabotaggio. Aveva sistemato le cose con la stampa:

ur alibi era stato fornito dai Newton-Dobbse, una coppia di suoi amici che

occupavano una posizione di rilievo - lui era qualcuno in una compagnia

ferroviaria - e che erano disposti a giurare che Laura era stata tutto il tem-

po in loro compagnia nella loro casa di Muskoka. Era stato un piano per le

vacanze fatto all'ultimo momento, e Laura pensava che i Newton-Dobbse

ci avessero telefonato e i Newton-Dobbse pensavano che lo avesse fatto

lei, ed era stato soltanto un malinteso, e non si erano resi conto che Laura

era data per scomparsa, perché quando erano in vacanza non facevano mai

attenzione ai giornali.

Proprio una bella storia. Ma la gente ci credette, o dovette fingere di cre-

derci. Suppongo che i Newton-Dobbse abbiano diffuso la vera storia tra i

loro amici più intimi - è strettamente confidenziale e tenetevelo per voi -,

che è quello che Winifred avrebbe fatto al posto loro, dal momento che i

pettegolezzi erano una merce come un'altra. Ma almeno non arrivò mai sui

giornali.

Laura fu infagottata in un kilt pruriginoso e in una cravatta scozzese e

spedita al St. Cecilia. Non faceva segreto del fatto che lo detestava. Diceva

che non aveva bisogno di andarci; diceva che come si era trovata un lavoro

avrebbe potuto trovarsene un altro. Diceva queste cose a me, quando Ri-

chard era presente. Non voleva parlare direttamente a lui.

Si rosicchiava le unghie, non mangiava abbastanza, era troppo magra.


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