Laura. Sentivo la loro mancanza, e cercavo di evitare di pensarci.
A limarmi le unghie, a tenere a bagno i piedi. A strapparmi i peli, o a ra-
derli: era necessario essere lisce, prive di setole. Una topografia simile ad
argilla bagnata, una superficie su cui le mani potessero scivolare.
Si diceva che le lune di miele offrissero alla nuova coppia il tempo per
conoscersi meglio, eppure man mano che i giorni passavano mi sembrava
di conoscere sempre meno Richard. Si stava tenendo in disparte, o era una
dissimulazione? Una ritirata strategica? Tuttavia io stavo prendendo forma
- la forma intesa per me da lui. Ogni volta che guardavo uno specchio, una
piccola parte di me era stata riempita di colore.
Dopo Londra andammo a Parigi, in traghetto attraverso la Manica e in
treno. Lo schema dei giorni a Parigi era quasi lo stesso di quelli a Londra,
anche se le colazioni erano differenti: un panino duro, marmellata di frago-
le, caffè con latte caldo. I pasti erano squisiti; Richard ne era entusiasta,
specialmente dei vini. Continuava a dire che non eravamo a Toronto, cosa
che mi appariva lampante.
Vidi la Tour Eiffel ma non ci salii, perché non amo le altezze. Visitai il
Pantheon e la tomba di Napoleone. Non visitai Notre Dame, perché Ri-
chard non vedeva di buon occhio le chiese, o almeno non quelle cattoliche,
che considerava snervanti. In particolare pensava che l'incenso istupidisse
il cervello.
L'albergo francese aveva un bidè, di cui Richard mi spiegò l'uso con
l'ombra di un sorrisetto ammiccante, dopo avermi sorpreso a lavarmici i
piedi. Pensai: Capiscono qualcosa che agli altri non è chiaro, i francesi.
Capiscono l'ansia del corpo. Quanto meno ne ammettono l'esistenza.
Alloggiavamo al Lutetia, che durante la guerra sarebbe diventato il quar-
tier generale nazista, ma come avremmo potuto saperlo? La mattina pren-
devo il caffè al bar dell'albergo, perché avevo paura di andare da qualsiasi
altra parte. Avevo l'impressione che se avessi perso di vista l'albergo non
sarei stata più capace di ritornarci. Ormai sapevo che tutto il francese che
mi aveva insegnato il signor Erskine era quasi inutile: Le coeur a ses rai-
sons que la raison ne connaît point non mi avrebbe procurato altro latte
caldo.
Un vecchio cameriere con la faccia da tricheco si occupava di me; aveva
l'abilità di versare il caffè e il latte caldo da due bricchi, tenendoli alti in a-
ria, e lo trovavo affascinante, come un mago per bambini. Un giorno mi
disse - sapeva un po' d'inglese - «Perché è triste?»
«Non sono triste» risposi, e mi misi a piangere. La simpatia degli estra-
nei può essere disastrosa.
«Non dovrebbe essere triste» disse, guardandomi con i suoi malinconici,
ruvidi occhi da tricheco. «C'entra sicuramente l'amore. Ma lei è così gio-
vane e graziosa, avrà tempo per essere triste in seguito». I francesi se ne
intendono di tristezza, ne conoscono tutti i tipi. È per questo che hanno i
bidè. «È scellerato, l'amore» disse, dandomi un colpetto sulla spalla. «Ma
se non c'è, è peggio».
L'effetto fu leggermente rovinato l'indomani, quando mi fece delle pro-
poste, o almeno credo che si trattasse di questo: il mio francese non era
abbastanza buono per poterlo dire con certezza. Dopotutto non era tanto
vecchio - sui quarantacinque, forse. Avrei dovuto accettare. Sulla tristezza
si sbagliava, però: molto meglio essere tristi mentre si è giovani. Una bella
ragazza triste ispira l'impulso di consolarla, a differenza di una vecchia be-
fana triste. Ma lasciamo stare.
Poi andammo a Roma. Roma mi sembrò familiare - almeno avevo un
contesto in cui inquadrarla, fornitomi tanto tempo prima dal signor Erskine
e dalle sue lezioni di latino. Vidi il Foro, o quanto ne rimaneva, e la via
Appia, e il Colosseo, che sembrava un formaggio rosicchiato dai topi. Sva-
riati ponti, svariati angeli logori, seri e pensosi. Vidi il Tevere che scorreva
giallo come l'itterizia. Vidi San Pietro, anche se solo da fuori. Era molto
grande. Suppongo che avrei dovuto vedere le truppe fasciste di Mussolini
nelle loro uniformi nere che andavano in giro a marciare e a maltrattare la
gente - lo facevano già? -, ma non fu così. È quel genere di cose che al
momento tendono a essere invisibili, a meno che non vi capiti di esserne la
vittima. Altrimenti le si vedono soltanto in seguito, nei cinegiornali, oppu-
re nei film realizzati molti anni dopo.
Di pomeriggio ordinavo una tazza di tè - stavo imparando a ordinare le
cose, riuscivo a capire quale tono usare con i camerieri, come tenerli a di-
stanza di sicurezza. Bevendo il tè scrivevo cartoline. Le mie cartoline era-
no dirette a Laura e a Reenie, e parecchie a mio padre. C'erano sopra le fo-
tografie degli edifici che ero stata condotta a visitare - raffiguravano, in
piccoli dettagli color seppia, cosa avrei dovuto vedere. I messaggi che
scrivevo loro erano frivoli. A Reenie: Il tempo è splendido. Me la sto go-
dendo. A Laura: Oggi ho visto il Colosseo, dove i cristiani venivano dati in
pasto ai leoni. L'avresti trovato interessante. A mio padre: Spero che tu
stia bene. Richard ti manda i suoi saluti. (Quest'ultima cosa non era vera,
ma stavo imparando quali bugie ci si aspettava che dicessi, nella mia quali-
tà di moglie).
Verso la fine del periodo destinato alla nostra luna di miele passammo
una settimana a Berlino. Richard doveva sbrigarvi degli affari che avevano
come oggetto manici di pale. Una delle sue fabbriche produceva manici di
pale, e i tedeschi erano a corto di legno. C'erano molte opere di scavo da
fare, e ancora di più se ne progettavano, e Richard poteva fornire i manici
a un prezzo che batteva la concorrenza.
Come diceva Reenie: Tutto fa brodo. Diceva anche: Gli affari sono affa-
ri, e poi ci sono le faccende poco pulite. Ma io non sapevo niente di affari.
Il mio compito era sorridere.
Devo ammettere che a Berlino mi divertii. Da nessuna parte ero stata co-
sì bionda. Gli uomini erano straordinariamente educati, anche se non si
guardavano dietro quando passavano per le porte girevoli. I baciamano co-
privano molti peccati. Fu a Berlino che imparai a profumarmi i polsi.
Memorizzavo le città attraverso i loro alberghi, gli alberghi attraverso i
loro bagni. Vestirsi, spogliarsi, stare stesa nell'acqua. Ma basta con questi
appunti di viaggio.
Tornammo a Toronto passando da New York, a metà agosto, in un'onda-
ta di caldo. Dopo l'Europa e New York, Toronto sembrava sgraziata e an-
gusta. Fuori della Union Station aleggiava un miscuglio di esalazioni bi-
tuminose proveniente da un'area in cui stavano riparando delle buche. Una
macchina a noleggio venne a prenderci e ci condusse oltre i tram, con la
loro polvere e il loro sferragliare, poi davanti ai pesanti edifici delle banche
e ai grandi magazzini, poi su per il terreno in pendio che conduceva a Ro-
sedale e all'ombra dei castagni e degli aceri.
Ci fermammo davanti alla casa che Richard aveva comprato per noi per
telegramma. L'aveva acquistata per quattro soldi, disse, dopo che il prece-
dente proprietario era riuscito a fare bancarotta. A Richard piaceva dire di
avere acquistato le cose per quattro soldi, il che era strano, perché amava
gloriarsi di tutto il suo denaro.
All'esterno la casa era scura, ricoperta di festoni di edera, con le sue fi-
nestre alte e strette tutte rivolte all'interno. La chiave era sotto lo zerbino,
l'ingresso odorava di prodotti chimici. Durante la nostra assenza Winifred
aveva fatto cambiare la carta da parati, e i lavori non erano ancora finiti:
c'erano ancora gli abiti dei pittori nelle stanze sul davanti, dove avevano
strappato via i vecchi parati vittoriani. I nuovi colori erano perlacei, smorti
- i colori dell'indifferenza lussuosa, del freddo distacco. Cirri tinti da un
fioco tramonto, che si libravano ben al di sopra della volgare vivacità di
uccelli, fiori e simili. Questo era lo scenario che mi veniva proposto, l'aria
rarefatta in cui avrei dovuto fluttuare.
Reenie avrebbe disdegnato quegli interni - il loro vuoto risplendente, il
loro pallore. L'intera casa sembra un bagno. Ma al tempo stesso ne sareb-
be stata spaventata, come me. Richiamai alla memoria la nonna Adelia: lei
avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe riconosciuto lo sforzo dei nuovi ricchi
di fare effetto; sarebbe stata educata ma sprezzante. Oh, è senz'altro mo-
derna, avrebbe forse detto. Se la sarebbe sbrigata in fretta con Winifred,
pensai, ma ciò non mi procurò alcun conforto: adesso ero anch'io nella tri-
bù di Winifred. O lo ero in parte.
E Laura? Laura vi avrebbe introdotto di nascosto i suoi pastelli, i suoi
tubetti di colore. Vi avrebbe fatto cadere qualcosa, ne avrebbe rotto qual-
cosa, deturpato almeno un angolino. Avrebbe lasciato il segno.
Nell'ingresso, appoggiato al telefono, c'era un biglietto di Winifred.
«Ciao, ragazzi! Benvenuti a casa! Ho fatto finire per prima la camera da
letto! Spero che vi piacerà - è così chic! Freddie».
«Non sapevo che se ne stesse occupando Winifred» dissi.
«Desideravamo che fosse una sorpresa» ribatté Richard. «Non volevamo
che ti impantanassi nei dettagli». Non per la prima volta, mi sentii come un
bambino escluso dai genitori. Genitori geniali, crudeli, sempre in combut-
ta, determinati sulla giustezza delle loro scelte, in tutto. Ero già sicura che i
miei regali di compleanno da parte di Richard sarebbero stati sempre qual-
cosa che non desideravo.
Andai di sopra a rinfrescarmi, su suggerimento di Richard. Evi-
dentemente ne avevo bisogno. Di sicuro mi sentivo appiccicosa e afflo-
sciata. («Una rosa senza rugiada» fu il suo commento). Il mio cappello era
un disastro; lo feci volare sul mobile da bagno con il lavandino incassato.
Mi spruzzai il viso d'acqua, e lo tamponai con uno degli asciugamani bian-
chi con il monogramma preparati da Winifred. La camera da letto dava sul
giardino sul retro, dove non era stato fatto nulla. Mi tolsi le scarpe con un
calcio, mi lasciai cadere sullo sconfinato letto color crema. Aveva un bal-
dacchino con della mussola drappeggiata tutt'intorno, come in un safari.
Era qui, dunque, che avrei dovuto sorridere e sopportarlo - il letto su cui
non avevo avuto voce in capitolo, ma dove ora dovevo giacere. E questo
era il soffitto che avrei fissato d'ora in avanti, attraverso la nebbia di mus-
sola, mentre le faccende terrene andavano avanti al di sotto della mia gola.
Il telefono accanto al letto era bianco. Squillò. Risposi. Era Laura, in la-
crime. «Dove sei stata?» singhiozzò. «Perché non sei tornata?»
«Che vuoi dire?» dissi. «È adesso che dovevamo tornare! Calmati, non ti
sento».
«Non rispondevi mai!» piagnucolò.
«Ma di cosa diavolo stai parlando?»
«Papà è morto! È morto, morto - abbiamo mandato cinque telegrammi!
Li ha mandati Reenie!»
«Solo un istante. Calma. Quando è successo?»
«Una settimana dopo la tua partenza. Abbiamo provato a telefonare, ab-
biamo chiamato tutti gli alberghi. Dicevano che ti avrebbero riferito, pro-
mettevano! Non te l'hanno detto?»
«Sarò là domani» dissi. «Non lo sapevo. Nessuno mi ha detto niente.
Non ho avuto nessun telegramma. Non li ho mai avuti».
Non riuscivo a capire. Cos'era successo, cos'era andato storto, perché
mio padre era morto, perché non ero stata avvertita? Mi ritrovai sul pavi-
mento, sul tappeto grigio avorio, accovacciata sul telefono, raggomitolata
attorno a esso come se fosse qualcosa di prezioso e di fragile. Pensai alle
mie cartoline dall'Europa, che arrivavano ad Avilion con i loro messaggi
allegri, banali. Probabilmente erano ancora sul tavolo dell'ingresso. Spero
che tu stia bene.
«Ma era sui giornali!» esclamò Laura.
«Non dov'ero io» dissi. «Non in quei giornali». Non aggiunsi che co-
munque non mi ero mai data la pena di leggerli. Ero troppo istupidita.
Era Richard che aveva ritirato i telegrammi, sulla nave e in tutti i nostri
alberghi. Potevo vedere le sue dita meticolose che aprivano le buste, leg-
gevano, piegavano i telegrammi in quattro, li riponevano. Non potevo ac-
cusarlo di aver mentito - non mi aveva mai detto niente, di quei telegram-
mi -, ma questo equivaleva a mentire. Non è vero?
Doveva aver detto al personale degli alberghi di non passare nessuna
chiamata. Non a me, e non mentre ero presente. Mi aveva tenuto all'oscu-
ro, deliberatamente.
Pensai che avrei potuto sentirmi male, ma non fu così. Dopo un po' scesi
di sotto. Esci dai gangheri e perderai la battaglia, diceva Reenie. Richard
era seduto nella veranda sul retro con un gin and tonic. Davvero premuro-
so da parte di Winifred procurare una scorta di gin, aveva già detto, due
volte. Un altro gin era già servito, in attesa che arrivassi, sul basso tavolo
di ferro battuto bianco con il piano di vetro. Lo presi. Il ghiaccio tintinnò
contro il cristallo. È così che doveva suonare la mia voce.
«Mio Dio» disse Richard, guardandomi. «Pensavo che ti stessi rinfre-
scando. Cosa è successo ai tuoi occhi?» Dovevano essere rossi.
«Mio padre è morto» dissi. «Hanno mandato cinque telegrammi. Non
me l'hai detto».
«Mea culpa» fece Richard. «So che avrei dovuto, ma volevo risparmiarti
le preoccupazioni, cara. Non c'era niente da fare, non c'era modo di tornare
in tempo per il funerale e non volevo rovinarti tutto. Credo di essere stato
anche egoista - ti volevo tutta per me, anche solo per poco. Ora siediti e ri-
prenditi, bevi il tuo drink, e perdonami. Affronteremo la questione domani
mattina».
Il caldo dava le vertigini; dove il sole batteva il prato era di un verde ac-
cecante. Le ombre sotto gli alberi erano dense come catrame. La voce di
Richard mi giungeva in scoppi intermittenti, come in codice Morse: senti-
vo solo certe parole.
Preoccupazioni. Tempo. Rovinarti. Egoista. Perdonami.
Cosa avrei potuto ribattere?
Il cappello color guscio d'uovo
Natale è arrivato e passato. Ho cercato di non farci caso. Myra, però, non
ci avrebbe mai rinunciato. Mi ha regalato un piccolo pudding alle prugne
che ha cotto con le sue mani, fatto di melassa e stucco e decorato con ci-
liegine candite tagliate a metà, di un rosso vivo, come i copricapezzoli su
una spogliarellista vecchio stile, e un gatto di legno piatto dipinto con au-
reola e ali da angelo. Ha detto che quei gatti avevano fatto furore alla Gin-
gerbread House, e lei li trovava molto carini, e gliene era rimasto uno, c'era
soltanto una crepa sottile che si vedeva a malapena, e sarebbe stato sicura-
mente bene sulla parete sopra i fornelli.
Una bella sistemazione, le ho detto. Sopra, un angelo, e per di più un an-
gelo carnivoro - è ora che si dica la verità sull'argomento! Sotto, il forno,
come in tutti i racconti più attendibili. E tra i due, noi altri, gettati sulla
Terra di Mezzo, al livello delle padelle. La povera Myra era sconcertata,
com'è sempre dai discorsi teologici. Il suo Dio le piace semplice - semplice
e crudo, come un ravanello.
L'inverno che stavamo aspettando è arrivato alla vigilia di Capodanno -
un gelo acuto, seguito il giorno dopo da un'enorme nevicata. Fuori della fi-
nestra i fiocchi turbinavano fitti fitti, come se Dio facesse piovere scaglie
di sapone nel finale di uno spettacolo per bambini. Mi sono sintonizzata
sul canale delle previsioni meteorologiche per avere il quadro completo -
strade chiuse, macchine sepolte, linee elettriche fuori uso, il commercio
bloccato, operai in abiti voluminosi che camminano goffamente come gi-
ganteschi bambini infagottati per giocare all'aperto. Nel corso di tutta l'e-
sposizione di quella che è stata eufemisticamente chiamata la «contingen-
za», il giovane conduttore ha conservato il suo ottimismo disinvolto, come
fanno abitualmente in tutti i disastri immaginabili. Hanno la spensierata
noncuranza dei trovatori o degli zingari dei luna-park, o dei venditori di
assicurazioni, o dei guru del mercato azionario - che fanno previsioni gon-
fiate pienamente coscienti che nulla di quanto ci dicono potrà davvero rea-
lizzarsi.
Myra ha chiamato per chiedermi se stavo bene. Ha detto che Walter sa-
rebbe passato appena avesse smesso di nevicare, per tirarmi fuori.
«Non essere sciocca, Myra» ho detto. «Sono perfettamente in grado di
tirarmi fuori da sola». (Una bugia - non avevo alcuna intenzione di alzare
un dito. Ero ben provvista di burro di arachidi, avrei potuto aspettare con
calma che passasse. Ma avevo voglia di compagnia, e le mie minacce di
mettermi in azione di solito affrettavano l'arrivo di Walter).
«Non toccare la pala!» ha esclamato Myra. «Ogni anno centinaia di an-
ziani - di gente della tua età - muoiono di attacchi di cuore per aver spalato
la neve! E caso mai andasse via la luce, guarda dove metti le candele!»
«Non sono decrepita» ho replicato bruscamente. «Se manderò a fuoco la
casa, lo farò di proposito».
Walter è comparso, Walter ha spalato la neve. Aveva portato un sacchet-
to di «buchi di ciambelle»; li abbiamo mangiati al tavolo della cucinario
con prudenza, lui all'ingrosso, ma in maniera contemplativa. E un uomo
per il quale masticare costituisce una forma di pensiero.
Ciò che mi è tornato alla memoria allora è stata l'insegna sulla vetrina
del chiosco dei Downyflake Doughnut, al Parco dei Divertimenti di Sun-
nyside, nel - cos'era - nell'estate del 1935:
Fratello, la vita è dura da affrontare,
Ma a qualsiasi traguardo sia diretto,
È alla ciambella che devi puntare,
E non al buco, sia largo oppure stretto.
Un paradosso, il buco della ciambella. Uno spazio vuoto, un tempo, ma
ora hanno imparato a vendere anche quello. Una quantità negativa; il nulla
reso mangiabile. Mi sono chiesta se fosse possibile usarlo - metaforica-
mente, s'intende - per dimostrare l'esistenza di Dio. Dare un nome a una
sfera di nulla la trasforma in un'entità?
Il giorno seguente mi sono avventurata fuori, tra le dune fredde, splendi-
de. Una pazzia, ma volevo partecipare - la neve è così attraente, finché non
diventa porosa e sporca di fuliggine. Il prato davanti casa era una valanga
scintillante, con un tunnel alpino scavato nel mezzo. Mi sono fatta strada
fino al marciapiede, e fin lì tutto bene, ma qualche casa più a nord i vicini
non erano stati solerti come Walter nello spalare la neve, e sono rimasta in-
trappolata in un cumulo, mi sono dibattuta, sono scivolata e infine caduta.
Nulla di rotto o di storto - o almeno mi pareva -, ma non potevo alzarmi.
Giacevo là nella neve, dimenando braccia e gambe come una tartaruga ro-
vesciata. I bambini lo fanno, ma apposta - agitano le braccia come gli uc-
celli, giocano agli angeli. Per loro è uno spasso.
Stavo cominciando a preoccuparmi dell'ipotermia, quando due estranei
mi hanno sollevata e portata di peso fino alla mia porta. Ho raggiunto zop-
picando la stanza sul davanti e mi sono lasciata cadere sul divano, con an-
cora indosso calosce e cappotto. Fiutando l'odore delle disgrazie lontano
un miglio, com'è sua abitudine, Myra è arrivata con una mezza dozzina di
turgidi pasticcini avanzati da qualche solenne riunione di famiglia. Mi ha
preparato una borsa dell'acqua calda e un po' di tè, quindi è stato chiamato
il dottore, e tutti e due hanno fatto un sacco di storie, dando la stura a un
torrente di consigli utili e di sinceri, arroganti versi di disapprovazione, no-
tevolmente soddisfatti di sé.
Ora sono costretta all'immobilità. E sono anche arrabbiata con me stessa.
O meglio, non con me stessa - con questo brutto tiro che mi ha combinato
il mio corpo. Dopo che ci si è imposto da egomaniaco qual è, facendo un
gran chiasso attorno ai propri bisogni, imponendoci i suoi sordidi e perico-
losi desideri, lo scherzo finale del corpo è semplicemente assentarsi. Pro-
prio quando ne hai più bisogno, proprio quando ti serve un braccio o una
gamba, all'improvviso il corpo ha altre cose da fare. Vacilla, si piega sotto
di te; si scioglie come se fosse fatto di neve, senza lasciare quasi niente.
Due pezzetti di carbone, un vecchio cappello, un sorriso fatto di sassi. Le
ossa bastoni secchi, facili a rompersi.
È un affronto, tutto ciò. Ginocchia deboli, nocche artritiche, vene varico-
se, acciacchi: oltraggi - non sono nostri, non li abbiamo mai voluti o re-
clamati. Dentro la nostra testa portiamo i nostri io perfetti - i nostri io nel-
l'età migliore, nonché nella loro luce migliore: mai colti in atteggiamenti
goffi, con una gamba fuori della macchina e una ancora dentro, o mentre ci
stuzzichiamo i denti, o mentre ci grattiamo il naso o il sedere. Se nudi, ci
vediamo graziosamente adagiati attraverso un velo di nebbia, ed è qui che
intervengono le stelle del cinema: assumono quelle pose per noi. Sono i
nostri io più giovani che si stanno allontanando da noi, risplendono, diven-
tano mitici.
Da bambina, Laura chiedeva: In Paradiso, che età avrò?
Laura era in piedi sui gradini d'ingresso di Avilion, tra le due urne di
pietra dove non erano stati piantati fiori, ad aspettarci. Nonostante la sua
altezza, sembrava molto giovane, molto fragile e sola. Aveva anche un'aria
campagnola, dimessa. Indossava un vestito da casa blu chiaro con su
stampato un motivo di farfalle color malva sbiadito - che era stato mio tre
estati prima - e niente scarpe. (Era una nuova mortificazione della carne, o
semplice eccentricità, o le aveva soltanto dimenticate?) Aveva i capelli
raccolti in un'unica treccia che le ricadeva su una spalla, come la ninfa di
pietra sulla riva del nostro laghetto di ninfee.
Dio sa da quanto tempo era là. Non avevamo potuto annunciare con e-
sattezza l'ora del nostro arrivo, perché avremmo fatto il viaggio in macchi-
na, cosa che in quel periodo dell'anno era possibile: le strade non erano al-
lagate o immerse nel fango fino all'altezza degli assali, e alcune erano per-
fino lastricate, ormai.
Parlo al plurale, perché Richard venne con me. Disse che non gli saltava
neanche in mente di mandarmi ad affrontare una situazione così difficile
da sola, non in un momento come quello. Fu più che premuroso.
Guidò lui stesso, la sua coupé blu - uno dei suoi nuovi giocattoli. Nel
portabagagli di dietro c'erano le nostre due valigie, quelle piccole, solo per
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