Margaret atwood



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una notte - la sua di cuoio marrone rossiccio, la mia di un giallo sorbetto al

limone. Indossavo un vestito di lino color guscio d'uovo - frivolo accen-

narvi, non c'è dubbio, ma l'avevo comprato a Parigi e ci tenevo molto - e

sapevo che al nostro arrivo avrebbe avuto il didietro tutto spiegazzato.

Scarpe di lino con fiocchi di stoffa rigida aperte in punta. Il cappello color

guscio d'uovo assortito viaggiò sulle mie ginocchia come un delicato pacco

regalo.

Richard era un guidatore nervoso. Non gli piaceva essere interrotto - di-



ceva che gli rovinava la concentrazione - e così facemmo il tragitto più o

meno in silenzio. Il viaggio durò più di quattro ore, mentre ora ce ne vo-

gliono meno di due. Il cielo era chiaro, luminoso e insondabile come me-

tallo; il sole si riversava come lava. Il caldo si levava tremolando dall'a-

sfalto; le piccole città erano chiuse a difendersi dal sole, le tendine abbas-

sate. Ne ricordo i prati bruciacchiati e i portici dalle colonne bianche, e le

stazioni di servizio solitarie, le pompe come robot cilindrici con un braccio

solo, i cocuzzoli di vetro come bombette senza tese, e i cimiteri dove sem-

brava che non sarebbe stato più sepolto nessuno. Ogni tanto ci imbatteva-

mo in un lago da cui proveniva un odore di pesciolini morti e di elodee

calde.

Nel vederci avvicinare, Laura non agitò la mano. Rimase in attesa men-



tre Richard frenava, scendeva con difficoltà e faceva il giro della macchina

per aprire lo sportello dalla mia parte. Stavo piegando le gambe di lato, le

due ginocchia insieme come mi era stato insegnato, e stavo per afferrare la

mano che Richard mi offriva, quando all'improvviso Laura si animò. Corse

giù dai gradini, mi prese l'altro braccio e mi tirò fuori della macchina, i-

gnorando completamente Richard, poi mi abbracciò e mi si aggrappò quasi

stesse annegando. Niente lacrime, solo quell'abbraccio da spezzare la

schiena.


Il mio cappello color guscio d'uovo cadde sulla ghiaia e Laura ci mise i

piedi sopra. Ci fu un suono crepitante, mentre Richard tratteneva il respiro.

Non dissi nulla. In quel momento non m'importava più del cappello.

Ognuna con un braccio attorno alla vita dell'altra, io e Laura salimmo i

gradini che conducevano alla casa. Reenie apparve sulla porta della cucina

dall'altra parte dell'ingresso, ma capì che in quel momento era il caso di la-

sciarci sole. Credo che abbia dirottato la sua attenzione su Richard - distra-

endolo con un drink o qualcos'altro. Be', lui avrebbe voluto visitare l'im-

mobile e fare una passeggiata sul terreno circostante, ora che li aveva effet-

tivamente ereditati.

Andammo diritte in camera di Laura e ci sedemmo sul suo letto. Conti-

nuavamo a stringerci le mani - la sinistra nella destra, la destra nella sini-

stra. Laura non piangeva, come al telefono. No, era calma come un pezzo

di legno.

«Era nella torretta» esordì. «Si era chiuso dentro».

«Lo faceva sempre» dissi.

«Ma questa volta non ne è uscito. Reenie gli lasciava fuori i vassoi con i

pasti come al solito, ma lui non mangiava niente, e neppure beveva - per

quello che ne sapevamo. Così poi abbiamo dovuto buttare giù la porta».

«Tu e Reenie?»

«È venuto il ragazzo di Reenie - Ron Hincks - quello che sta per sposa-

re. L'ha buttata giù lui. E papà era steso per terra. Doveva essere là da al-

meno due giorni, ha detto il dottore. Aveva un aspetto orribile».

Non mi ero resa conto che Ron Hincks fosse il ragazzo di Reenie - anzi

il suo fidanzato. Da quanto tempo andava avanti, e come avevo fatto a non

accorgermene?

«Era morto, è questo che vuoi dire?»

«All'inizio non l'ho pensato, perché aveva gli occhi aperti. Ma era pro-

prio morto. Era... non so dirti com'era. Come se fosse in ascolto, di qualco-

sa che lo aveva spaventato. Era vigile».

«Si era sparato?» non so perché lo chiesi.

«No. No, era semplicemente morto. Nel certificato è stato scritto per

cause naturali - all'improvviso, per cause naturali, diceva così - e Reenie

ha detto alla signora Hillcoate che si è trattato veramente di cause naturali,

perché bere era certamente la seconda natura di papà, e a giudicare da tutte

le bottiglie vuote aveva ingurgitato abbastanza alcol da far crepare un ca-

vallo».

«Si è ubriacato a morte» dissi. Non era una domanda. «Quando è suc-



cesso?»

«Subito dopo l'annuncio della chiusura permanente delle fabbriche. È

questo che l'ha ucciso. Ne sono sicura!»

«Cosa?» chiesi. «Quale chiusura permanente? Quali fabbriche?»

«Tutte» disse Laura. «Tutte quelle che ci appartengono. Tutto ciò che ci

appartiene in città. Pensavo che lo sapessi».

«Non lo sapevo».

«Le nostre fabbriche sono state assorbite da quelle di Richard. Tutto è

stato trasferito a Toronto. Ora è diventato tutto Griffen-Chase Royal Con-

solidated». Niente più Figli, in altre parole. Richard aveva fatto piazza pu-

lita.

«Perciò questo significa niente lavoro» dissi. «Niente lavoro qui. È tutto



finito. Cancellato».

«Hanno detto che era una questione di costi. Dopo l'incendio della fab-

brica di bottoni... hanno detto che ci sarebbe voluto troppo per ricostruir-

la».


«Chi l'ha detto?»

«Non lo so» disse Laura. «Non è stato Richard?»

«Non era questo il patto» dissi. Povero papà - che si fidava delle strette

di mano e delle parole d'onore e delle cose date per scontate. Mi stava di-

ventando chiaro che non era più questo il modo in cui funzionavano le co-

se. E forse non lo era mai stato.

«Quale patto?» chiese Laura.

«Non importa».

Avevo sposato Richard per niente, dunque - non avevo salvato le fabbri-

che, e certamente non avevo salvato mio padre. Ma c'era ancora Laura;

non era in mezzo a una strada. Dovevo pensare a questo. «Non ha lasciato

nulla, nessuna lettera, nessun biglietto?»

«No».

«Hai cercato?»



«Ha cercato Reenie» disse Laura sottovoce; il che significava che lei non

se l'era sentita.

Naturalmente, pensai. Sarebbe stata Reenie a cercare. E se avesse davve-

ro trovato qualcosa del genere, l'avrebbe bruciato.

Stordimento

Ma mio padre non avrebbe lasciato biglietti. Sarebbe stato consapevole

delle implicazioni. Non avrebbe voluto un verdetto di suicidio, perché,

come risultò, aveva un'assicurazione sulla vita: aveva versato denaro per

anni, perciò nessuno avrebbe potuto accusarlo di avere combinato tutto al-

l'ultimo momento. Aveva bloccato il denaro - doveva andare dritto in un

conto vincolato, in modo che solo Laura potesse toccarlo, e solo dopo aver

compiuto ventun anni. A quel punto doveva aver perso ogni fiducia in Ri-

chard, e concluso che lasciarmi qualcosa sarebbe stato inutile. Io ero an-

cora minorenne, ed ero la moglie di Richard. Le leggi erano differenti allo-

ra. Ciò che era mio era suo, a tutti gli effetti.

Come ho già detto, ho le medaglie di mio padre. Per cosa le aveva avu-

te? Coraggio. Audacia sotto il fuoco nemico. Nobili gesti di abnegazione.

Credo che ci si aspettasse che io fossi alla loro altezza.

Tutta la città è venuta al funerale, disse Reenie. Be', quasi tutta, perché

in alcuni quartieri c'era parecchia amarezza; eppure gli era stato dimostrato

il dovuto rispetto, e a quel punto si era saputo che non era stato lui a chiu-

dere definitivamente le fabbriche a quel modo. Si era saputo che non vi

aveva avuto alcuna parte - non aveva potuto impedirlo, ecco tutto. Erano

stati i grossi interessi a ucciderlo.

Tutti in città erano dispiaciuti per Laura, disse Reenie. (Ma non per me,

era sottinteso. Dal loro punto di vista io ero finita insieme al bottino. Per

quello che valeva).

Ecco i piani di Richard: Laura sarebbe venuta a vivere con noi. Be', è na-

turale che l'avrebbe fatto: non poteva rimanere ad Avilion tutta sola, dal

momento che aveva solo quindici anni.

«Potrei stare con Reenie» disse Laura, ma Richard rispose che era fuori

questione. Reenie si sarebbe sposata; non avrebbe avuto il tempo di occu-

parsi di lei. Laura disse che non aveva bisogno che ci si occupasse di lei,

ma Richard si limitò a sorridere.

«Reenie potrebbe venire a Toronto» disse Laura, ma Richard disse che

Reenie non avrebbe voluto. (Era Richard che non voleva. Lui e Winifred

avevano già assunto quello che a parer loro era il personale adatto alla ge-

stione della sua casa - gente che sapeva il fatto suo, disse. Questo signifi-

cava che sapeva il fatto di Richard, nonché quello di Winifred).

Richard disse che ne aveva già discusso con Reenie, e aveva raggiunto

un accordo soddisfacente. Reenie e il suo novello sposo ci avrebbero fatto

da custodi, disse, e avrebbero sorvegliato i restauri - Avilion stava cadendo

a pezzi, perciò c'erano molti restauri da fare, a cominciare dal tetto - e così

sarebbero stati a disposizione per prepararci la casa ogni volta che ce ne

fosse stato bisogno, perché sarebbe servita da residenza estiva. Saremmo

venuti ad Avilion per andare in barca e così via, disse, con il tono dello zio

indulgente. In tal modo Laura e io non saremmo state private della casa a-

vita. Disse casa avita con un sorriso. Non ci avrebbe fatto piacere?

Laura non lo ringraziò. Gli fissò la fronte con la studiata espressione va-

cua che un tempo aveva usato con il signor Erskine, e capii che c'erano

guai in vista.

Io e lui saremmo tornati a Toronto in macchina, continuò Richard, una

volta che le cose fossero state sistemate. Prima aveva bisogno di incontrare

gli avvocati di mio padre, un'occasione alla quale non c'era bisogno che

fossimo presenti: sarebbe stato troppo straziante per noi, considerati i re-

centi avvenimenti, e voleva risparmiarci il più possibile. Uno di questi av-

vocati era un parente acquisito da parte di nostra madre, ci disse Reenie in

privato - il cugino di una cugina di secondo grado - perciò avrebbe tenuto

sicuramente gli occhi aperti.

Laura sarebbe rimasta ad Avilion fino a che lei e Reenie non avessero

impacchettato le sue cose; poi sarebbe venuta in città in treno, e qualcuno

sarebbe andato a prenderla alla stazione. Avrebbe vissuto con noi in casa

nostra - c'era una stanza da letto in più che le sarebbe andata a pennello,

una volta che fosse stata ridipinta. E avrebbe frequentato - finalmente - una

scuola come si deve. Il St. Cecilia era quella che lui aveva scelto, consul-

tandosi con Winifred, che di certe cose se ne intendeva. Laura avrebbe po-

tuto avere bisogno di lezioni private, ma era sicuro che col passare del

tempo tutto si sarebbe risolto. In questo modo sarebbe stata in grado di av-

valersi dei benefici, dei vantaggi...

«I vantaggi di cosa?» domandò Laura.

«Della tua posizione» rispose Richard.

«Non mi pare di avere nessuna posizione» ribatté Laura.

«Cosa intendi dire esattamente con questo?» chiese Richard, in tono

meno indulgente.

«È Iris che ha una posizione» disse Laura. «È lei la signora Griffen, io

sono solo un extra».

«Mi rendo conto che sei comprensibilmente turbata» disse Richard in

tono freddo, «considerate le spiacevoli circostanze, che sono state difficili

per tutti, ma non c'è bisogno di essere sgradevoli. Non è facile neanche per

me e per Iris. Sto solo cercando di fare del mio meglio per te».

«Pensa che sarò d'impaccio» mi disse Laura quella sera, in cucina, dove

eravamo andate a cercare rifugio da Richard. Ci disturbava guardarlo fare

le sue liste - cosa andava scartato, cosa riparato, cosa sostituito. Guardarlo

e stare zitte. Si comporta come se fosse lui il padrone, aveva detto Reenie

indignata. Ma lo è, avevo risposto.

«D'impaccio a cosa?» chiesi. «Sono sicura che non intendeva dire que-

sto».

«D'impaccio a lui» rispose. «D'impaccio a voi due».



«Tutto si sistemerà per il meglio» disse Reenie. Lo disse mec-

canicamente. La sua voce era esausta, priva di convinzione, e vidi che da

lei non ci si poteva aspettare più alcun aiuto. Quella sera in cucina sembra-

va vecchia, e piuttosto grassa, e anche confusa. Come sarebbe venuto fuori

ben presto, era già incinta di Myra. Si era permessa di perdere la testa.

Quando perdi la testa perdi anche tutto il resto, e poi chi s'è visto s'è visto,

diceva sempre, ma aveva contravvenuto alle proprie massime. Doveva a-

vere la mente altrove, per esempio doveva chiedersi se sarebbe riuscita a

farsi portare all'altare, e cosa sarebbe successo in caso contrario. Brutti

momenti, senza dubbio. Allora non c'erano barriere tra la sufficienza e il

disastro: se scivolavi cadevi, e se cadevi ti agitavi e ti dimenavi e andavi

sotto. Difficilmente avrebbe avuto un'altra occasione, perché se anche se

ne fosse andata per avere il bambino e poi lo avesse dato via, le voci sa-

rebbero girate e la gente in città non avrebbe mai dimenticato una cosa del

genere. Allora avrebbe potuto benissimo mettere i cartelli: ci sarebbe stata

la coda attorno all'edificio. Una volta che una donna era facile, si faceva in

modo che rimanesse tale. Perché comprare una mucca quando il latte è

gratis?, è quanto pensava probabilmente Reenie.

Perciò ci aveva date per perse, aveva rinunciato a noi. Per anni aveva

fatto quanto aveva potuto, e ora non aveva più alcun potere.

Tornata a Toronto, aspettai l'arrivo di Laura. L'ondata di caldo continua-

va. Tempo afoso, fronti madide, una doccia prima dei gin and tonic nella

veranda sul retro, affacciati sul giardino rinsecchito. L'aria come fuoco li-

quido; ogni cosa floscia o gialla. Nella stanza da letto c'era un ventilatore

che faceva il rumore di un vecchio con una gamba di legno che si arrampi-

cava su per le scale: un rantolo ansante, un gorgoglio, un rantolo. Nelle pe-

santi notti senza stelle fissavo il soffitto, mentre Richard continuava a fare

quello che faceva.

Era stordito da me, diceva. Stordito - come se fosse ubriaco. Voleva dire

che non si sarebbe mai sentito come si sentiva nei miei confronti, se fosse

stato sobrio e nelle sue piene facoltà?

Mi guardavo nello specchio, chiedendomi: Cosa c'è in me? Cosa c'è che

può stordire a tal punto? Lo specchio era a figura intera: cercavo di veder-

mi di spalle, ma naturalmente non era possibile. Non si riesce mai a veder-

si come ci vedono gli altri - come ci vede un uomo che ci guarda, da die-

tro, quando non lo sappiamo - perché in uno specchio la nostra testa è

sempre girata ad angolo retto sulla spalla. Una posa civettuola, invitante.

Si può tenere in mano un altro specchio per vederci di spalle, ma allora ciò

che scorgiamo è ciò che tanti pittori hanno amato dipingere - Donna che si

guarda allo specchio, considerata un'allegoria della vanità. Anche se è im-

probabile che si tratti di vanità, piuttosto del contrario: di una ricerca di di-

fetti. Cosa c'è in me? Può facilmente essere interpretato come Cosa c'è che

non va in me?

Richard diceva che le donne potevano essere divise in mele e pere, a se-

conda della forma del loro sedere. Io ero una pera, ma una pera acerba. Era

quello che gli piaceva in me - la mia immaturità, la mia durezza. Nel repar-

to sedere, credo che intendesse, ma forse in tutto.

Dopo le mie docce, la mia rimozione delle setole, le mie spazzolate e

pettinate, ora stavo attenta a togliere tutti i peli dal pavimento. Tiravo su i

piccoli ciuffi di peli dallo scarico della vasca da bagno o del lavandino, li

gettavo nel water e tiravo lo sciacquone, perché Richard aveva osservato

casualmente che le donne lasciavano sempre peli in giro. Come gli animali

durante la muta, era sottinteso.

Come lo sapeva? Come sapeva delle pere e delle mele, e dei peli caduti?

Chi erano quelle donne, le altre donne? A parte una superficiale curiosità,

non me ne importava.

Cercavo di evitare di pensare a mio padre e al modo in cui era morto, e a

cosa potesse avere avuto in mente prima che accadesse, e a come dovesse

essersi sentito, e a tutto ciò che Richard non aveva ritenuto conveniente

comunicarmi.

Winifred era sempre occupatissima. Nonostante il caldo sembrava fred-

da, avvolta in tessuti leggeri e impalpabili come la parodia di una madrina

delle fiabe. Richard continuava a ripetere quanto fosse meravigliosa e

quanta fatica e preoccupazioni mi stesse risparmiando, ma lei mi rendeva

sempre più nervosa. Entrava e usciva in continuazione da casa nostra; non

sapevo mai quando potesse spuntare, facendo capolino dalla porta con un

sorriso spavaldo. Il mio unico rifugio era il bagno, perché là potevo girare

la chiave senza sembrare eccessivamente sgarbata. Si stava occupando del

resto dell'arredamento, ordinando i mobili per la stanza di Laura. (Una to-

letta orlata di una stoffa increspata con un motivo floreale rosa, tende e co-

priletto in tinta. Uno specchio con una cornice a volute bianca con guarni-

zioni in oro. Era proprio quello che ci voleva per Laura, non ero d'accor-

do? Non lo ero, ma non aveva alcun senso dirlo).

Stava anche facendo progetti per il giardino; aveva già buttato giù parec-

chi schizzi - solo qualche piccola idea, diceva agitandomi i fogli sotto gli

occhi e poi tirandoli indietro, riponendoli con cura nella cartella già tra-

boccante delle altre sue piccole idee. Una fontana sarebbe stata deliziosa,

diceva - qualcosa di francese, ma avrebbe dovuto essere autentica. Non ero

d'accordo?

Volevo che Laura venisse. La data del suo arrivo era stata posticipata

ormai tre volte - non aveva ancora finito i bagagli, le era venuto un raf-

freddore, aveva perso il biglietto. Le parlavo al telefono bianco; la sua vo-

ce era controllata, distante.

I due servitori erano stati insediati, una cuoca-domestica brontolona e un

grosso tizio con la pappagorgia che si era fatto passare per giardiniere-

autista. Si chiamavano Murgatroyd e dicevano di essere marito e moglie,

ma sembravano fratello e sorella. Mi guardavano con diffidenza, e io li

contraccambiavo. Durante il giorno, quando Richard era in ufficio e Wini-

fred era onnipresente, cercavo di fuggire di casa il più possibile. Dicevo di

andare in centro - a fare spese, dicevo, che era una versione accettabile di

come avrei trascorso il mio tempo. Mi facevo lasciare dall'autista davanti

ai grandi magazzini Simpsons, dicendogli che al ritorno avrei preso un ta-

xi. Quindi entravo, compravo qualcosa in fretta: calze e guanti erano sem-

pre convincenti come prova del mio desiderio di fare acquisti. Poi attraver-

savo il negozio in tutta la sua lunghezza e uscivo dalla porta opposta.

Ripresi le mie vecchie abitudini - girovagare senza scopo, esaminare le

vetrine, i manifesti dei film. Andavo perfino al cinema da sola; non mi fa-

cevano più effetto gli uomini che ti palpavano, avevano perso la loro aura

di magia demoniaca, ora che sapevo ciò che avevano in mente. Non ero in-

teressata a quel genere di cose, sempre le stesse - lo stesso ossessivo strin-

gere e tastare. Tieni le mani a posto o grido funzionava abbastanza bene,

finché eri pronta a metterlo in pratica. Sembravano capire che lo ero. A

quei tempi la mia stella del cinema preferita era Joan Crawford. Occhi feri-

ti, bocca letale.

A volte andavo al Royal Ontario Museum. Guardavo le armature, gli a-

nimali impagliati, gli antichi strumenti musicali. Questo non mi era di

grande giovamento. Oppure andavo al Diana Sweets per una bibita o una

tazza di caffè: era una sala da tè signorile di fronte ai grandi magazzini,

molto frequentata dalle signore, dove avevo poche probabilità di essere in-

fastidita da molestatori occasionali. Oppure attraversavo il Queen's Park,

svelta e risoluta. Se l'avessi fatto troppo lentamente, sarebbe saltato sicu-

ramente su qualche uomo. Carta moschicida, così Reenie chiamava questa

o quella giovane donna. Deve raschiarseli via di dosso. Una volta un uomo

si esibì, proprio davanti a me, all'altezza degli occhi. (Avevo fatto l'errore

di sedermi su una panchina appartata, nei giardini dell'università). Non era

neanche un vagabondo, era vestito piuttosto bene. «Mi dispiace» gli dissi.

«Non sono proprio interessata». Sembrò deluso. Molto probabilmente a-

vrebbe voluto che io svenissi.

In teoria sarei potuta andare dove volevo, in pratica c'erano barriere invi-

sibili. Mi mantenevo sulle strade principali, nelle zone più ricche: perfino

entro quei confini in realtà non erano moltissimi i luoghi in cui mi sentissi

libera. Osservavo l'altra gente - non tanto gli uomini, quanto le donne. E-

rano sposate? Dove stavano andando? Avevano un lavoro? Guardandole

non potevo indovinare molto, se non il prezzo delle loro scarpe.

Mi sentivo come se fossi stata presa e scaricata in un paese straniero,

dove tutti parlavano una lingua diversa.

A volte c'erano coppie, a braccetto - che ridevano, felici, affettuose. Vit-

time di un enorme inganno, e al tempo stesso sue artefici, o almeno mi

sembrava. Le osservavo con rancore.

Poi un giorno - era giovedì - vidi Alex Thomas. Era dall'altra parte della

strada, aspettando che il semaforo scattasse. Era la Queen Street, a Yonge.

Era piuttosto malandato - indossava una camicia azzurra, da operaio, e un

cappello malconcio - ma era proprio lui. Sembrava illuminato, come se un

raggio di luce lo colpisse da qualche fonte invisibile, rendendolo spavento-

samente visibile. Certo tutti gli altri in strada lo stavano guardando - certo

tutti sapevano chi era! Da un momento all'altro lo avrebbero riconosciuto,

avrebbero gridato, si sarebbero lanciati al suo inseguimento.

Il mio primo impulso fu di avvertirlo. Ma poi capii che l'avvertimento

doveva valere per tutti e due, perché in qualsiasi guaio fosse coinvolto, vi

sarei stata immediatamente coinvolta anch'io.

Avrei potuto non rivolgergli la minima attenzione. Mi sarei potuta gira-

re. Sarebbe stato saggio. Ma una simile saggezza a quel tempo non era alla

mia portata.

Scesi dal marciapiede e feci per attraversare nella sua direzione. Il sema-

foro cambiò di nuovo: ero bloccata in mezzo alla strada. Le macchine suo-

narono i loro clacson; ci furono grida; il traffico ondeggiò. Non sapevo se

tornare indietro o andare avanti.

Allora lui si girò, e sulle prime non fui certa che potesse vedermi. Al-

lungai la mano, come una persona che sta affogando e implora di essere

salvata. In quel momento nel mio cuore avevo già tradito.


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