Margaret atwood



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Mi preoccupai molto per lei, come ci si aspettava che facessi e com'era o-

nestamente il caso. Ma Richard diceva che era stanco di quelle sciocchezze

isteriche, e quanto al lavoro, non voleva più sentirne parlare. Laura era

troppo giovane per andare a vivere per conto proprio; si sarebbe impegola-

ta in qualcosa di spiacevole, perché il mondo era pieno di gente che si fa-

ceva un dovere di dare la caccia alle ragazzine sciocche come lei. Se non le

piaceva la sua scuola, poteva essere mandata in un'altra, lontana, in un'altra

città, e se fosse scappata anche da lì lui l'avrebbe messa in un istituto per

ragazze ribelli insieme a tutti gli altri depravati come lei, e se neanche

quello avesse funzionato ci sarebbe sempre stata una clinica. Una clinica

privata, con sbarre alle finestre: se era il capo cosparso di cenere che vole-

va, quello avrebbe certamente fatto al caso suo. Lei era una minorenne, lui

era una persona influente, e stesse pur certa che avrebbe fatto esattamente

come aveva detto. Come sapeva - come sapevano tutti - era un uomo di pa-

rola.


Quando era arrabbiato gli occhi tendevano a sporgergli in fuori, e ora gli

stavano appunto sporgendo, ma disse tutto questo in un tono calmo, credi-

bile, e Laura gli credette e ne fu intimidita. Cercai di intervenire - quelle

minacce erano troppo dure, lui non capiva Laura e il suo modo di prendere

le cose alla lettera - ma mi disse di tenermene fuori. Quello di cui c'era bi-

sogno era una mano ferma. Laura era stata coccolata abbastanza. Era venu-

to il momento che si desse una regolata.

Col passare delle settimane fu stabilita una tregua impacciata. In casa

cercai di sistemare le cose in modo che loro due non si scontrassero mai.

Navi che si sfiorano nella notte, era quello in cui speravo.

Winifred si era intromessa, naturalmente. Doveva aver detto a Richard

di prendere posizione, perché Laura era il tipo di ragazza che avrebbe mor-

so la mano che la sfamava a meno che non le fosse stata messa una muse-

ruola.


Richard consultava Winifred su tutto, perché era lei che si mostrava so-

lidale nei suoi confronti, che lo sosteneva, lo incoraggiava in generale. Era

lei che lo appoggiava socialmente, che favoriva i suoi interessi in quelle

che considerava le giuste direzioni. Quando avrebbe cercato di entrare in

Parlamento? Non ancora, sussurrava Winifred in qualunque orecchio su

cui si piegasse - i tempi non erano ancora maturi -, ma presto. Avevano

deciso entrambi che Richard era l'uomo del futuro, e che la donna che gli

stava dietro - non ne aveva una ogni uomo di successo? - doveva essere

lei.

Certamente non ero io. Le nostre rispettive posizioni ormai erano chiare,



le sue e le mie; in verità a lei erano sempre state chiare, ma ora lo stavano

diventando anche a me. Lei era necessaria a Richard, mentre io potevo

sempre essere sostituita. Il mio lavoro era aprire le gambe e chiudere la

bocca.


Può suonare brutale, e lo era. Ma non era troppo fuori del comune.

Winifred doveva tenermi occupata durante le ore del giorno: non voleva

che impazzissi per la noia, non voleva che perdessi le staffe. Si lambiccava

a prepararmi compiti insignificanti, quindi a riordinare il mio tempo e il

mio spazio in modo che fossi libera di svolgerli. Questi compiti non erano

mai troppo impegnativi, perché non faceva segreto della sua opinione se-

condo cui ero piuttosto stupida. Da parte mia non facevo nulla per scorag-

giare tale opinione.

Veniamo dunque al ballo di beneficenza per il Brefotrofio Downtown

Foundlings, di cui Winifred fu l'ideatrice. Mi mise nella lista degli orga-

nizzatori, non solo per tenermi affaccendata, ma perché la cosa avrebbe

giovato all'immagine di Richard. «Organizzatrice» - era solo un gioco, lei

non mi riteneva capace neppure di organizzare i lacci delle mie scarpe,

perciò che lavoretto da niente avrebbe potuto assegnarmi? Scrivere gli in-

dirizzi sulle buste, decise. Aveva ragione, ero in grado di farlo. Fui perfino

brava. Non dovevo pensare troppo, e potevo far vagare la mente altrove.

(«Grazie a Dio ha almeno un talento» la sentii dire alle Billie e alle Char-

lie, durante il bridge. «Oh, dimenticavo - due!» Scoppi di risa).

Il Brefotrofio Downtown Foundlings, che soccorreva i bambini dei quar-

tieri poveri, era il fiore all'occhiello di Winifred, o almeno lo era il ballo di

beneficenza. Era un ballo in costume - com'erano per lo più queste feste,

perché a quel tempo alla gente piacevano i travestimenti. Piacevano quasi

quanto le uniformi. Servivano tutti e due allo stesso scopo: per evitare di

essere chi si era, si poteva fingere di essere qualcun altro. Si poteva diven-

tare più grandi e potenti, o più affascinanti e misteriosi, semplicemente in-

dossando abiti esotici. Be', in fondo c'era qualcosa di vero.

Winifred era affiancata da un comitato per il ballo, ma era risaputo che

prendeva tutte le grosse decisioni da sola. Lei teneva i cerchi, gli altri ci

saltavano attraverso. Fu lei a scegliere il tema per il 1936 - «Xanadu». Di

recente il rivale Beaux Arts Bali era stato incentrato su «Tamerlano a Sa-

marcanda», e aveva riportato un grande successo. I temi orientali non po-

tevano mancare, e sicuramente a scuola tutti avevano imparato a memoria

Kubla Khan, perciò perfino gli avvocati - perfino i dottori - perfino i ban-

chieri avrebbero saputo cos'era Xanadu. Anche per le loro mogli sarebbe

stato scontato saperlo.

A Xanadu Kubla Khan ordinò di costruire

Un grandioso tempio del piacere:

Dove Alph, il fiume sacro, scorreva

Per caverne smisurate all'uomo

Giù fino a un mare senza sole.

Winifred fece battere a macchina l'intera poesia, la fece ciclostilare e di-

stribuire al nostro comitato - per far circolare le idee, diceva. Inoltre, qual-

siasi suggerimento da parte nostra sarebbe stato più che gradito, sebbene

sapessimo che aveva tutto già perfettamente disegnato nella sua testa. La

poesia sarebbe apparsa anche sull'invito inciso a lettere dorate, con una

scritta araba in caratteri dorati e cerulei tutt'intorno. Qualcuno avrebbe ca-

pito quella scritta? No, ma era decisamente incantevole.

A questi ricevimenti si partecipava solo su invito. Venivi invitato e poi

pagavi salato, tuttavia si trattava di una cerchia molto ristretta. I nomi sulla

lista divenivano materia di ansiosa aspettativa, ma solo per chi aveva dubbi

sul proprio rango. Aspettare un invito e non riceverlo era un assaggio del

Purgatorio. Credo che molte lacrime venissero versate per delusioni del

genere, ma in segreto - in quel mondo, non potevi mai far vedere che te ne

importava.

La bellezza di Xanadu era (disse Winifred, dopo aver letto la poesia con

la sua voce da bevitrice di whisky - in maniera eccellente, devo dargliene

atto) - la sua bellezza era che con un tema simile ci si poteva svelare o na-

scondere a proprio piacimento. Le corpulente potevano avvolgersi in ricchi

broccati, le snelle potevano intervenire come schiave o danzatrici persiane,

e mettersi generosamente in mostra. Gonne trasparenti, braccialetti, catene

tintinnanti alle caviglie - le opportunità erano praticamente infinite, e certo

agli uomini sarebbe piaciuto vestirsi da pascià e fingere di avere un harem.

Anche se dubitava di poter convincere qualcuno a recitare la parte dell'eu-

nuco, aggiunse tra risolini di apprezzamento.

Laura era troppo giovane per quel ballo. Winifred stava progettando per

lei un ingresso in società, un rito di passaggio che non aveva ancora avuto

luogo, ma fino ad allora non era considerata idonea. Tuttavia, mostrò note-

vole interesse per i preparativi. Ero molto sollevata nel vederla di nuovo

interessata a qualcosa. Di certo non lo era alla sua attività scolastica: i suoi

voti erano pessimi.

Mi correggo: non era ai preparativi che si interessava, ma alla poesia. Io

la conoscevo già dai tempi di Miss Violence, ad Avilion, ma all'epoca Lau-

ra non se n'era curata granché. Ora non faceva che leggerla.

Cos'era un demonio-amante, voleva sapere? Perché il mare era senza so-

le, perché l'oceano era senza vita? Perché l'assolato tempio del piacere a-

veva grotte di ghiaccio? Cos'era il monte Abora, e perché la fanciulla abis-

sina lo cantava? Perché le voci ancestrali profetizzavano la guerra?

Non avevo risposta a nessuna di queste domande. Ora le conosco tutte.

Non le risposte di Samuel Taylor Coleridge - non sono sicura che ne aves-

se, dal momento che a quel tempo era dedito alla droga - ma le mie. Ecco-

le, per quello che valgono.

Il fiume sacro è vivo. Scorre verso l'oceano senza vita, perché è là che

vanno a finire tutte le cose che sono vive. L'amante è un demone-amante

perché non c'è. L'assolato tempio del piacere ha grotte di ghiaccio perché è

ciò che hanno tutti i templi del piacere - dopo un po' si fanno molto freddi,

quindi si sciolgono, e allora come ti ritrovi? Tutto bagnato. Il monte Abora

era la casa della vergine abissina, e lei lo cantava perché non poteva tor-

narvi. Le voci ancestrali profetizzavano la guerra perché le voci ancestrali

non tacciono mai, e odiano sbagliarsi, e la guerra è una cosa certa, prima o

poi.


Correggetemi se sbaglio.

La neve cadeva, dapprima soffice, poi in palline dure che pungevano la

pelle come aghi. Il sole tramontava di pomeriggio, il cielo passava da san-

gue sbiadito a latte scremato. Il fumo si riversava dai camini, dalle caldaie

alimentate a carbone. I cavalli del carro del pane lasciavano in strada muc-

chi di fumanti focacce marroni che poi il gelo solidificava. I bambini se le

tiravano l'un l'altro. Gli orologi continuavano a suonare la mezzanotte, o-

gni mezzanotte di un intenso blu scuro tempestato di stelle glaciali, la luna

color giallo avorio. Guardavo fuori della finestra della camera da letto, giù

sul marciapiede, attraverso i rami del castagno. Poi spegnevo la luce.

Il ballo dedicato a Xanadu ebbe luogo il secondo sabato di gennaio. Il

mio costume era arrivato quella mattina, in una scatola traboccante di carta

velina. La cosa chic era affittare il costume da Malabar, perché farsene fare

uno apposta avrebbe significato dimostrare uno zelo eccessivo. Ora erano

quasi le sei e me lo stavo provando. Laura era nella mia stanza: faceva

spesso i compiti là, o fingeva di farli. «Cosa dovresti essere?» chiese.

«La fanciulla abissina» risposi. Non ero ancora sicura di cosa avrei usato

come salterio. Forse un banjo con l'aggiunta di qualche nastro. Poi mi ri-

cordai che l'unico banjo di cui avessi notizia era appartenuto ai miei zii

morti ed era rimasto ad Avilion, in soffitta. Avrei dovuto rinunciare al sal-

terio.

Non mi aspettavo che Laura mi dicesse che ero graziosa, o perfino bella.



Non lo faceva mai: per lei graziosa e bella non erano categorie di pensiero.

Questa volta commentò: «Non sei molto abissina. Le abissine non dovreb-

bero essere bionde».

«Non posso fare niente per il colore dei miei capelli» dissi. «È colpa di

Winifred. Avrebbe dovuto scegliere i vichinghi o qualcosa del genere».

«Perché hanno tutti paura di lui?» domandò Laura.

«Paura di chi?» ribattei. (Non avevo considerato la paura in quella poe-

sia, solo il piacere. Il tempio del piacere. Il tempio del piacere era dove in

realtà io vivevo allora - dov'era il mio vero essere, sconosciuto a quanti mi

circondavano. Cinto da mura e torri tutt'intorno, in modo che nessun altro

potesse entrarvi).

«Ascolta» disse. Recitò a occhi chiusi:

Potessi rivivere dentro di me

La sua musica e il canto,

Ne trarrei un piacere tanto intenso,

Che con musica forte e prolungata

Costruirei quel tempio in aria,

Quel tempio soleggiato! Quelle grotte di ghiaccio!

E ognuno che fosse in ascolto li vedrebbe là,

E griderebbe Attenti! Attenti!

I suoi occhi fiammeggianti, i suoi capelli fluttuanti!

Traccia tre volte un circolo attorno a lui

E chiudi gli occhi con sacro terrore,

Perché egli si è nutrito di mielata

E ha bevuto il latte del Paradiso.

«Vedi, hanno paura di lui» disse, «ma perché? Perché Attenti?»

«Sul serio, Laura, non ne ho idea» risposi. «È solo una poesia. Non si

può capire sempre il significato delle poesie. Forse pensano che sia paz-

zo».

«È perché è troppo felice» disse Laura. «Ha bevuto il latte del Paradiso.



La gente si spaventa, quando sei troppo felice a quel modo. Non è per que-

sto?»


«Laura, non mi assillare» feci. «Io non so tutto, non sono una professo-

ressa».


Era seduta sul pavimento, nel suo kilt della scuola. Si succhiava una

nocca, guardandomi, delusa. Ultimamente la deludevo spesso. «Ho visto

Alex Thomas l'altro giorno» disse.

Mi girai svelta, mi aggiustai il velo allo specchio. Faceva un ben misero

effetto, il raso verde: una vamp di Hollywood in un film ambientato nel

deserto. Mi consolai al pensiero che tutti gli altri sarebbero stati altrettanto

finti. «Alex Thomas? Davvero?» domandai. Avrei dovuto mostrarmi più

sorpresa.

«Be', non sei contenta?»

«Contenta di cosa?»

«Contenta che sia vivo» rispose. «Contenta che non l'abbiano preso».

«Certo che sono contenta» dissi. «Ma non dire niente a nessuno. Non

vorrai che si mettano di nuovo a dargli la caccia».

«Non c'è bisogno che tu me lo dica. Non sono una bambina. Per questo

non l'ho salutato».

«Lui ti ha visto?» chiesi.

«No. Stava solo camminando per la strada. Aveva il colletto del cappot-

to sollevato e la sciarpa sul mento, ma l'ho riconosciuto. Teneva le mani in

tasca».

All'accenno alle mani, alle tasche, fui attraversata da un dolore acuto.



«Che strada era?»

«La nostra» disse. «Era sull'altro lato, e guardava le case. Credo che ci

stesse cercando. Deve sapere che viviamo da queste parti».

«Laura» feci, «hai ancora una cotta per Alex Thomas? Perché se ce l'hai,

dovresti provare a fartela passare».

«Non ho una cotta per lui» disse con disprezzo. «Non ce l'ho mai avuta.

Cotta è una parola orribile. Fa veramente schifo». Da quando frequentava

la scuola era diventata meno devota, e il suo linguaggio era diventato mol-

to più sboccato. Schifo andava per la maggiore.

«Comunque voglia chiamarla, dovresti rinunciarci. È impossibile» dissi

in tono gentile. «Ti renderà soltanto infelice».

Laura si mise le braccia intorno alle ginocchia. «Infelice» ripeté. «Cosa

puoi saperne tu dell'infelicità?»

VIII


L'assassino cieco: Storie carnivore

Si è spostato di nuovo, per fortuna. Lei odiava quel posto fuori mano,

accanto alla stazione di smistamento. Non le piaceva andare là, e in ogni

caso era talmente lontano, e poi così freddo: ogni volta che ci arrivava le

battevano i denti. Odiava quella camera stretta e triste, la puzza stantia del-

le sigarette perché non si poteva aprire la finestra bloccata, la piccola doc-

cia sporca nell'angolo, quella donna che incontrava sulle scale - una donna

che faceva pensare alla contadinella oppressa di qualche vecchio romanzo

ammuffito, ogni volta si aspettava di vederla con un fascio di legna sulla

schiena. L'astiosa occhiata insolente che lanciava, quasi immaginasse esat-

tamente cosa sarebbe successo dietro quella porta una volta che si fosse

chiusa. Un'occhiata invidiosa, ma anche malevola.

Che liberazione.

Ora la neve si è sciolta, sebbene ne rimanga qualche chiazza grigia nelle

zone all'ombra. Il sole è caldo, c'è odore di terra bagnata e di radici che si

muovono e dei resti fradici dei giornali gettati via lo scorso inverno, con-

fusi e illeggibili. Nei quartieri più belli della città sono spuntati i narcisi, e

in qualche giardino sul davanti, dove non c'è ombra, si vedono i tulipani,

rossi e arancioni. Una nota di speranza, come dicono le rubriche di giardi-

naggio; sebbene perfino adesso, in aprile avanzato, l'altro giorno abbia ne-

vicato - grossi fiocchi bianchi bagnati, una tempesta di neve anomala.

Lei ha nascosto i capelli sotto un fazzoletto, ha indossato un cappotto

blu marino, la cosa più vicina al sobrio che avesse. Lui ha detto che sareb-

be stata la cosa migliore. Da queste parti, nei cantucci, negli angoli, tracce

di gatto maschio e vomito, fetore di polli messi in gabbia. Sulla strada gli

escrementi dei cavalli dei poliziotti, che tengono gli occhi aperti, non per i

ladri ma per i sovversivi - covi di rossi venuti dall'estero, che sussurrano

tra loro come topi nella paglia, sei per letto senza dubbio, dividendosi le

donne, tramando i loro contorti, intricati complotti. Si dice che Emma Gol-

dman, esiliata dagli Stati Uniti, viva nelle vicinanze.

Sangue sul marciapiede, un uomo con un secchio e una spazzola. Lei

cammina infastidita attorno alla pozzanghera rosa. È una zona di macellai

kasher; anche di sarti, di pellicciai all'ingrosso. E di aziende che sfruttano i

dipendenti, senza dubbio. File di donne immigrate ingobbite sulle macchi-

ne, mentre i loro polmoni si riempiono di laniccio.

I vestiti che porti ce li hai grazie a quelli di qualcun altro, le aveva detto

una volta. Sì, aveva ribattuto lei con disinvoltura, ma a me stanno meglio.

Quindi aveva aggiunto con una certa rabbia: Cosa vuoi che faccia? Cosa

vuoi che faccia io? Credi sul serio che abbia qualche potere?

Si ferma a un fruttivendolo, compra tre mele. Non mele molto buone,

con la buccia moscia e avvizzita, ma sente di avere bisogno di un'offerta di

pace di qualche tipo. La donna le prende una delle mele, indica una mac-

chia marrone dov'è guasta, la sostituisce con una migliore. Tutto questo

senza parlare. Cenni eloquenti e sorrisi dai denti radi.

Uomini in lunghi cappotti neri, larghi cappelli neri, piccole donne dagli

occhi penetranti. Scialli, gonne lunghe. Verbi scorretti. Non vi guardano

direttamente, ma non si perdono granché. Lei è appariscente, una gigantes-

sa. Le sue gambe troppo scoperte.

Ecco il negozio di bottoni, proprio dove aveva detto. Si ferma un mo-

mento a guardare la vetrina. Bottoni stravaganti, nastri di raso, passamano,

guarnizioni, lustrini - materie prime per gli aggettivi da sogno della moda

copiata. Le dita di qualcuno, proprio da queste parti, devono avere cucito il

bordo di ermellino sulla sua mantellina da sera di chiffon bianco. Il contra-

sto tra il velo fragile e la folta pelliccia animale, ecco cosa attrae gli uomi-

ni. La carne delicata, poi il boschetto.

La sua nuova stanza è sopra un fornaio. Gira l'angolo, sale le scale, av-

volta in una nuvola di odore che le piace. Però è denso, soffocante - lievito

che fermenta, che le va diritto alla testa come elio caldo. Non lo ha visto da

troppo tempo. Perché è stata lontana?

Lui è là, apre la porta.

Ti ho portato qualche mela, gli dice.

Dopo un po' gli oggetti di questo mondo prendono di nuovo forma attor-

no a lei. Ecco la sua macchina da scrivere, precaria sul piccolo portacatino.

La valigia blu è lì accanto, con sopra il catino rimosso. Una camicia spie-

gazzata a terra. Perché gli indumenti in disordine significano sempre desi-

derio? Con le loro forme contorte, impetuose. Le fiamme nei dipinti sono

così - come stoffa arancione gettata, scagliata via.

Sono stesi a letto, un'enorme struttura di mogano intagliato che riempie

quasi la stanza. Un tempo mobilia nuziale, fatta venire da lontano, destina-

ta a durare una vita. Una vita, che parola stupida sembra adesso; la durata,

che cosa inutile. Taglia una mela con il temperino di lui, gli mette in bocca

gli spicchi.

Se non sapessi come stanno le cose, penserei che stai cercando di se-

durmi.


No - ti sto soltanto tenendo in vita. Ti sto ingrassando per mangiarti più

tardi.


È un'idea perversa, signorina.

Sì. È tua. Non dirmi che hai dimenticato le donne morte con i capelli az-

zurri e gli occhi come fosse piene di serpenti. Ti avrebbero mangiato a co-

lazione.


Solo se ne avessero avuto il permesso. Allunga di nuovo il braccio verso

di lei. Che fine hai fatto? Sono settimane.

Già. Aspetta. Ho qualcosa da dirti.

È urgente? chiede lui.

Sì. Non proprio. No.

Il sole tramonta, le ombre delle tende si muovono attraverso il letto.

Fuori in strada voci, lingue sconosciute. Lo ricorderò sempre, dice lei tra

sé e sé. Poi: Perché penso alla memoria? Non è ancora dopo, è adesso.

Non è ancora finito.

Ho pensato alla storia, dice lei. Ho immaginato il seguito.

Oh? Ti è venuta qualche idea tutta tua?

Ho sempre avuto idee tutte mie.

Okay. Sentiamole, fa lui, sorridendo.

Va bene, dice lei. Eravamo rimasti a quando la ragazza e l'uomo cieco

venivano portati al cospetto del Servitore della Gioia, il capo degli invasori

barbari chiamati il Popolo della Desolazione, perché sospettati di essere

messaggeri divini. Correggimi se sbaglio.

Davvero fai attenzione a questa roba? chiede lui con aria stupita. Te la

ricordi davvero?

Certo. Ricordo ogni parola che hai detto. Arrivano all'accampamento dei

barbari, e l'assassino cieco dice al Servitore della Gioia che ha un messag-

gio per lui da parte dell'Invincibile, ma deve consegnarglielo in privato, al-

la presenza della sola ragazza. Questo perché non vuole perderla di vista.

Ma non ci vede. È cieco, ricordi?

Sai cosa intendo. E il Servitore della Gioia dice che va bene.

Non direbbe solo Va bene. Farebbe un discorso.

Queste parti non le so fare. I tre entrano in una tenda isolata dalle altre, e

l'assassino dichiara di avere un piano per conquistare Sakiel-Norn. Li i-

struirà su come introdursi in città senza assedi o vittime, tra i loro, voglio

dire. Dovranno mandare un paio di uomini, darà loro la parola d'ordine per

la porta - lui conosce le parole d'ordine, ricordi? - e una volta entrati questi

uomini dovranno raggiungere il canale e tendere una corda sotto il passag-

gio ad arco. Dovranno fissarne l'estremità a qualcosa - una colonna di pie-

tra o roba del genere - e poi di notte un gruppo di soldati potrà introdursi

nella città seguendo la corda, aggrappandosi a essa una mano dietro l'altra,

sott'acqua, poi sopraffare le guardie, aprire tutte e otto le porte e poi bingo.

Bingo? fa lui, ridendo. Non è una parola molto zycroniana.

Be', voilà, allora. Dopodiché, potranno uccidere tutti a oltranza, se è


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