Margaret atwood



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tillante e bagnata come una vera pozza; forse il fiume stava salendo attra-

verso il pavimento, come ho visto succedere sul canale delle previsioni

meteorologiche. Ognuno dei quattro elementi può scatenarsi in qualsiasi

momento: il fuoco può prorompere dalla terra, la terra liquefarsi e preci-

pitare vicino alle tue orecchie, l'aria scagliarmi contro come una roccia,

scaraventando via il tetto da sopra la tua testa. Dunque, perché non un'i-

nondazione?

Ho avvertito un gorgoglio, che poteva o meno venire da dentro di me; ho

sentito il cuore bloccarmisi in petto in preda al panico. Sapevo che l'acqua

era uno scherzo, dell'occhio, dell'orecchio o della mente; comunque, me-

glio non scendere. Ho lasciato cadere il bucato sulla scala della cantina,

abbandonandolo. Forse avrei potuto tornare a raccoglierlo più tardi, forse

no. Qualcuno ci avrebbe pensato. Ci avrebbe pensato Myra, a labbra stret-

te. Ora l'avevo fatta bella, ora la donna mi sarebbe stata sicuramente im-

posta. Mi sono girata, c'è mancato poco che cadessi, mi sono aggrappata

alla ringhiera; poi mi sono trascinata di nuovo su, un gradino alla volta,

verso la sana, dolce luce del giorno della cucina.

Fuori della finestra era grigio, un uniforme grigio smorto, il cielo e an-

che la neve porosa, ormai vecchia. Ho attaccato il bricco elettrico; ben pre-

sto ha cominciato la sua cantilena di vapore. Quando giungi al punto di

sentire che sono i tuoi utensili a prendersi cura di te e non viceversa, vuol

dire che le cose si sono spinte piuttosto in là. Eppure, ero confortata.

Ho fatto una tazza di tè, l'ho bevuta, poi ho sciacquato la tazza. Sono an-

cora in grado di lavare i miei piatti, in ogni caso. Quindi ho riposto la tazza

sul ripiano insieme alle altre, quelle dipinte a mano della nonna Adelia, gi-

gli con gigli, viole con viole, ogni disegno abbinato con il proprio simile.

Almeno le mie credenze non hanno dato segni di squilibrio. Ma l'immagi-

ne dei capi di bucato buttati sui gradini della cantina mi disturbava. Tutti

quegli stracci, quei frammenti spiegazzati, come pelli bianche staccatesi

dal corpo. Ma non completamente bianche. La prova di qualcosa: pagine

bianche su cui il mio corpo scarabocchia, lasciando la sua testimonianza

criptica via via che si va lentamente ma inesorabilmente modificando.

Forse dovrei fare un tentativo di raccogliere quelle cose e di rimetterle

nella loro cesta, e nessuno si accorgerebbe di niente. Nessuno vuol dire

Myra.


A quanto pare, sono in preda a una bramosia di ordine.

Meglio tardi che mai, dice Reenie.

Oh, Reenie. Come vorrei che fossi qui. Ritorna a prenderti cura di me!

Ma non lo farà. Tocca a me prendermi cura di me stessa. Di me e di

Laura, come promisi solennemente di fare.

Meglio tardi che mai.

Dov'ero rimasta? Era inverno. No, con quello ho finito.

Era primavera. La primavera del 1936. Era l'anno in cui tutto cominciò

ad andare in pezzi. Continuò ad andare in pezzi, cioè, in una maniera più

grave di quanto non stesse già facendo.

È l'anno in cui re Edoardo abdicò; scelse l'amore piuttosto che l'ambi-

zione. No. Scelse l'ambizione della duchessa di Windsor piuttosto che la

propria. È questo l'avvenimento che la gente ricorda. E cominciò la Guerra

Civile in Spagna. Ma queste cose accaddero soltanto mesi dopo. Per cosa

fu noto marzo? Per qualcosa. Richard scuoteva rumorosamente il giornale

al tavolo della colazione, dicendo: Dunque l'ha fatto.

Eravamo solo noi due a colazione, quel giorno. Laura non la faceva con

noi, tranne il fine settimana, e anche allora lo evitava per quanto poteva,

fingendo di dormire. Nei giorni lavorativi faceva colazione da sola in cuci-

na, perché doveva andare a scuola. O meglio, non da sola: c'era sempre la

signora Murgatroyd. Poi il signor Murgatroyd l'accompagnava a scuola in

macchina e l'andava a riprendere, perché a Richard non piaceva l'idea che

andasse a piedi. Quello che in realtà non gli piaceva era l'idea che potesse

perdersi.

Pranzava a scuola, e vi prendeva lezioni di flauto il martedì e il giovedì,

perché uno strumento musicale era obbligatorio. Avevamo provato con il

piano, ma non se n'era fatto niente. Lo stesso con il violoncello. Laura era

restia a esercitarsi, ci fu detto, sebbene di sera ci venisse a volte offerto il

triste, stonato lamento del suo flauto. Le note false sembravano volute.

«Le parlerò» diceva Richard.

«Non possiamo lamentarci» ribattevo. «Sta solo facendo quanto le chie-

di».


Laura non era più apertamente sgarbata con Richard. Ma se lui entrava

in una stanza, lei ne usciva.

Torniamo al giornale del mattino. Dal momento che Richard lo teneva

sollevato tra noi due, potevo leggere i titoli di testa. Era di Hitler che stava

parlando Richard: era entrato in Renania. Aveva infranto le regole, aveva

fatto la cosa proibita. Bene, disse, si capiva lontano un miglio che sarebbe

successo, ma si sono fatti sorprendere tutti con i pantaloni calati. Si sta

prendendo gioco di loro. È un tipo intelligente. Vede il punto debole nel

recinto. Vede un'occasione e la coglie. Bisogna fargli tanto di cappello.

Convenni, ma non stavo ascoltando. Non ascoltare era l'unico modo che

avessi durante quei mesi per conservare il mio equilibrio. Dovevo cancel-

lare il rumore circostante: come un funambolo che attraversi le cascate del

Niagara, non potevo permettermi di guardare intorno, per paura di scivola-

re. Cos'altro puoi fare quando ciò a cui pensi in ogni istante di veglia è così

lontano dalla vita che dovresti vivere? Da ciò che è proprio qui sul tavolo,

che quella mattina era un vaso per boccioli con dentro un narciso bianco

carta preso dalla ciotola di bulbi di serra mandata da Winifred. È così pia-

cevole in questo periodo dell'anno, aveva detto. Così fragrante. Come un

alito di speranza.

Winifred mi considerava innocua. In altre parole, credeva che fossi una

stupida. Più tardi - dieci anni più tardi - avrebbe detto, al telefono, perché

non ci incontravamo più di persona: «Ti credevo una sciocca, ma in realtà

sei un demonio. Ci hai sempre odiati, perché tuo padre fece bancarotta e

incendiò la sua fabbrica, e ce ne hai fatto una colpa».

«Non è stato lui a incendiarla» ribattei. «È stato Richard. O quanto meno

ha organizzato la cosa».

«Questa è una sporca bugia. Tuo padre era completamente al verde, e se

non fosse stato per l'assicurazione su quell'edificio non avreste avuto più

un centesimo! Noi vi abbiamo tirato fuori dai pasticci, a te e alla tua scioc-

ca sorella! Se non fosse stato per noi, sareste finite in mezzo a una strada,

invece di starvene belle sedute sui vostri sederi come le marmocchie vizia-

te placcate argento che eravate. Avete sempre avuto tutto bello e fatto, non

avete mai dovuto sforzarvi, non avete mai mostrato un momento di grati-

tudine a Richard. Non avete alzato un dito per aiutarlo nei momenti diffi-

cili, neanche una volta, mai».

«Facevo quello che volevi tu. Tenevo la bocca chiusa. Sorridevo. Ero un

addobbo da vetrina. Ma Laura andò oltre. Avrebbe dovuto lasciare fuori

Laura».


«Era solo rancore, rancore, rancore! Ci dovevate tutto, e non potevate

sopportarlo. Dovevate vendicarvi di lui! Tra te e lei lo avete ucciso, come

se gli aveste puntato una pistola alla testa e premuto il grilletto».

«E chi ha ucciso Laura, allora?»

«Laura si è uccisa da sola, come sai benissimo».

«Potrei dire lo stesso di Richard».

«Questa è una calunnia. Comunque, Laura era matta come un cavallo.

Non so come tu abbia mai potuto credere una sola parola di quanto diceva,

su Richard o su qualsiasi altro argomento. Nessuno sano di mente l'avreb-

be fatto!»

Non riuscii a dire altro, perciò attaccai il telefono. Ma ero impotente di

fronte a lei, perché a quell'epoca aveva un ostaggio Aveva Aimee.

Nel 1936, tuttavia, era ancora abbastanza affabile, e io ero ancora la sua

protetta. Continuava a trascinarmi da un ricevimento all'altro - riunioni

dell'Associazione delle Giovani Volontarie, raduni politici, i comitati più

svariati - e a parcheggiarmi sulle sedie o negli angoli, mentre lei socializ-

zava come si doveva. Ora mi rendo conto che per lo più non era gradita,

ma semplicemente tollerata per via del suo denaro e della sua sconfinata

energia: la maggior parte delle donne in quei circoli erano contente di la-

sciare a Winifred la parte del leone in qualsiasi lavoro ci fosse in ballo.

Ogni tanto una di loro mi si accostava esitante e osservava che aveva

conosciuto mia nonna - o, se era più giovane, che le sarebbe piaciuto cono-

scerla, in quell'età dell'oro prima della Grande Guerra, quando la vera ele-

ganza era ancora possibile. Quella era una parola in codice: significava che

Winifred era un'arriviste - un'arricchita, chiassosa e volgare - e che io avrei

dovuto propugnare tutta un'altra serie di valori. Io sorridevo vagamente, e

dicevo che mia nonna era morta molto prima che nascessi. In altre parole,

non potevano aspettarsi da me nessun tipo di contrasto nei confronti di

Winifred.

E come sta il suo intraprendente marito? chiedevano. Quando possiamo

aspettarci il grande annuncio? Il grande annuncio riguardava la carriera

politica di Richard, non ancora formalmente iniziata, ma considerata im-

minente.

Oh, sorridevo, mi aspetto di essere la prima a esserne informata. Non lo

credevo affatto: mi aspettavo di essere l'ultima.

La nostra vita - di Richard e mia - si era adagiata in quello che pensavo

sarebbe stato il suo modello per sempre. O piuttosto c'erano due vite, una

di giorno e una di notte: erano distinte, nonché immutabili. Placidità e or-

dine e ogni cosa al suo posto, con una violenza decorosa e sanzionata che

aveva luogo in sottofondo, come una scarpa pesante e brutale che batte il

ritmo su un pavimento ricoperto da un tappeto. Ogni mattina facevo la

doccia per liberarmi della notte; per lavare via la roba che Richard si met-

teva sui capelli - qualche costosa brillantina profumata. Si trasmetteva a

tutta la mia pelle.

Lo seccava il fatto che fossi indifferente, anzi perfino disgustata dalle

sue attività notturne? Per niente. Preferiva la conquista alla collaborazione,

in ogni campo della vita.

A volte - sempre più spesso, col passare del tempo - c'erano lividi, viola,

poi blu, poi gialli. Era notevole con quanta facilità mi venissero, diceva

Richard sorridendo. Bastava un semplice tocco. Non aveva mai saputo che

una donna potesse ammaccarsi a quel modo. Dipendeva dal fatto che ero

così giovane e delicata.

Privilegiava le cosce, dove non si sarebbero visti. Qualcosa di evidente

avrebbe potuto ostacolare le sue ambizioni.

A volte mi sembrava che quei segni sul mio corpo fossero una specie di

codice, che fioriva, quindi spariva, come inchiostro simpatico tenuto da-

vanti a una candela. Ma se erano un codice, chi ne teneva la chiave?

Io ero sabbia, io ero neve - scritta, riscritta, spianata.

Il portacenere

Sono stata di nuovo dal dottore. Mi ci ha portata in macchina Myra: dato

il ghiaccio invisibile provocato da una gelata seguita al disgelo, le strade

erano troppo scivolose perché potessi camminare, ha detto.

Il dottore mi ha dato dei colpetti sulle costole e mi ha auscultato il cuore,

ha assunto un'espressione arcigna, l'ha cancellata, quindi - dopo essersi già

fatto un'idea - mi ha chiesto come mi sentissi. Credo che abbia fatto qual-

cosa ai capelli; sicuramente prima erano più radi in cima. Si è rassegnato a

incollarsi qualche ciuffo sulla testa? O peggio, a un trapianto? A-ha, ho

pensato. Nonostante il tuo jogging e le tue gambe pelose, l'età ha comin-

ciato a essere un punto dolente. Ben presto ti pentirai di tutta quell'ab-

bronzatura. Il tuo viso sembrerà un testicolo.

Ciò nondimeno è stato disgustosamente spiritoso. Almeno non dice:

Come stiamo oggi? Non mi si rivolge mai con il noi, come fanno alcuni di

loro: capisce bene l'importanza della prima persona singolare.

«Non riesco a dormire» gli ho detto. «Faccio troppi sogni».

«Ma se sogna, significa che dorme» ha osservato, volendo fare una bat-

tuta.


«Sa cosa intendo» ho detto brusca. «Non è la stessa cosa. I sogni mi

svegliano».

«Ha bevuto caffè?»

«No» ho mentito.

«Dev'essere la coscienza sporca». Stava scrivendo una ricetta, senza

dubbio per delle pillole di zucchero. Ha ridacchiato tra sé e sé: pensava di

essere stato piuttosto divertente. A partire da un certo punto i danni dell'e-

sperienza decadono; con l'avanzare dell'età assumiamo un'aria innocente,

almeno nella mente altrui. Ciò che vede il dottore quando mi guarda è una

vecchia lunatica, incapace e perciò senza colpa.

Mentre ero nel sancta sanctorum, Myra leggeva vecchie riviste nella sa-

la d'aspetto. Ha strappato un articolo sul come combattere la tensione, e un

altro sui benefici effetti del cavolo crudo. Erano per me, ha detto, soddi-

sfatta delle sue utili trouvailles. Mi fa in continuazione la diagnosi. La mia

salute corporea ha per lei quasi lo stesso interesse della mia salute spiritua-

le: in particolare ha l'esclusiva delle mie viscere.

Ho osservato che non avevo bisogno di combattere la tensione, perché

che tensione può esserci nel vuoto assoluto? Quanto al cavolo crudo, mi

gonfiava come una vacca morta, perciò avrei fatto a meno dei suoi benefici

effetti. Ho detto che non avevo alcuna voglia di passare la vita, o quanto ne

rimaneva, puzzando come un barile di crauti e strepitando come il clacson

di un camion.

I crudi riferimenti alle funzioni del corpo di solito mettono un freno a

Myra. Ha guidato per il resto del tragitto fino a casa in silenzio, con un

sorriso che le si irrigidiva sul viso come gesso a presa rapida.

A volte ho vergogna di me stessa.

Ma mettiamoci al lavoro, ormai ci ho fatto la mano. Fare la mano è la

parola giusta: a volte mi sembra che sia solo la mia mano a scrivere, non il

resto di me; che la mia mano abbia assunto una vita propria, e continuerà a

scrivere anche staccata dal resto di me, come un magico feticcio egizio

imbalsamato o come le zampe di coniglio essiccate che gli uomini usavano

appendere ai loro specchietti retrovisori come portafortuna. Nonostante

l'artrite delle mie dita, ultimamente questa mia mano ha dato prova di una

straordinaria vivacità, quasi gettasse al vento ogni ritegno. Di certo ha

scritto una quantità di cose che non le sarebbe mai stato permesso di scri-

vere se avesse dovuto obbedire al mio buon senso.

Giriamo le pagine, giriamo le pagine. Dov'ero rimasta? Aprile 1936.

In aprile ricevemmo una convocazione dalla direttrice del St. Cecilia, la

scuola frequentata da Laura. Riguardava la sua condotta, diceva. Non era

una faccenda di cui sarebbe stato bene discutere per telefono.

Richard era impegnato per affari. Propose Winifred per farmi da scorta,

ma dissi che ero sicura che non fosse nulla di grave; mi sarei occupata da

sola della questione, e lo avrei informato se si fosse trattato di qualcosa di

importante. Presi appuntamento con la direttrice, di cui ho dimenticato il

nome. Mi vestii in un modo che speravo l'avrebbe intimidita, o almeno le

avrebbe ricordato la posizione e l'influenza di Richard: mi pare che indos-

sassi un cappotto di cachemire con bordi di ghiottone - caldo per la stagio-

ne, ma di effetto - e un cappello con sopra un fagiano morto, o parte di es-

so. Le ali, la coda e la testa, che era provvista di piccoli occhi di vetro rossi

simili a spilli.

La direttrice era una donna che si andava ingrigendo, dalla forma di un

attaccapanni di legno - ossa fragili con sopra appesi tessuti dall'aria umida.

Era nel suo ufficio, barricata dietro una scrivania di quercia, le spalle che

le arrivavano alle orecchie per il terrore. Un anno prima sarei stata spaven-

tata da lei quanto lei lo era da me, o piuttosto da ciò che rappresentavo: un

grosso rotolo di denaro. Ora però avevo acquistato sicurezza. Avevo visto

Winifred in azione, avevo fatto pratica. Ora sapevo sollevare un so-

pracciglio per volta.

Sorrideva nervosamente, mostrando denti gialli e tondeggianti che ricor-

davano i chicchi di una pannocchia di granturco mangiata a metà. Mi chie-

si cosa avesse fatto Laura: doveva trattarsi di qualcosa di grave, se aveva

condotto quella donna al punto di affrontare l'assente Richard e il suo invi-

sibile potere. «Temo che non possiamo davvero continuare a tenere Laura»

disse. «Abbiamo fatto del nostro meglio, e ci rendiamo conto che ci sono

delle circostanze attenuanti, ma tutto considerato dobbiamo pensare alle al-

tre nostre alunne, e temo che Laura eserciti semplicemente un'influenza

perturbatrice».

Ormai avevo imparato l'importanza di lasciar spiegare gli altri. «Mi di-

spiace, ma non so di cosa stia parlando» dissi, muovendo appena le labbra.

«Quali circostanze attenuanti? Quale influenza perturbatrice?» Tenevo le

mani immobili in grembo, la testa alta e leggermente inclinata, l'angola-

zione migliore per il cappello con il fagiano. Speravo che si sarebbe sentita

osservata da quattro occhi, non solo da due. Sebbene avessi il beneficio

della ricchezza, lei aveva quello dell'età e della posizione. Faceva caldo

nell'ufficio. Avevo appeso il cappotto alla spalliera della sedia, ma anche

così sudavo come uno stivatore.

«Mette in discussione Dio» disse, «nell'ora di Dottrina Religiosa, che

devo dire è l'unico argomento in cui sembra dimostrare un minimo di inte-

resse. Si è spinta tanto lontano da scrivere un saggio intitolato "Dio men-

te?" È stato motivo di profondo turbamento per l'intera classe».

«E a quale risposta è giunta?» chiesi. «Su Dio?» Ero sorpresa, anche se

non io davo a vedere: credevo che Laura avesse allentato sulla questione di

Dio, ma a quanto pare non era così.

«Affermativa». Abbassò lo sguardo sulla scrivania, dove il saggio di

Laura era aperto davanti a lei. «Cita - è proprio qui - il Primo libro dei Re,

capitolo ventidue, il passaggio in cui Dio inganna re Acab. 'Ecco, dunque,

il Signore ha messo uno spirito menzognero sulla bocca di tutti questi tuoi

profeti'. Laura continua col dire che se Dio lo fece una volta, chi ci assicu-

ra che non lo abbia fatto ancora, e come distinguere le false profezie dalle

vere?»


«Be', è una conclusione logica, in ogni caso» dissi. «Laura conosce la

Bibbia».


«Mi permetta di dire» fece la direttrice, esasperata, «che il Diavolo può

citare la Bibbia a suo vantaggio. Prosegue osservando che sebbene Dio

menta, non imbroglia - manda sempre anche un vero profeta, ma la gente

non lo ascolta. Secondo lei Dio è come un'emittente radiofonica e noi sia-

mo radio difettose, un paragone che trovo a dir poco irriverente».

«Laura non intende essere irriverente» dissi. «Non su Dio, in ogni caso».

La direttrice lo ignorò. «Non sono tanto le discussioni capziose che fa,

quanto innanzitutto il fatto che ritenga opportuno sollevare il problema».

«A Laura piace avere risposte» dissi. «Le piace avere risposte su que-

stioni importanti. Sarà senz'altro d'accordo nel dire che Dio sia una que-

stione importante. Non vedo perché questo dovrebbe essere considerato un

elemento di disturbo».

«Le altre studentesse lo trovano tale. Credono che lei - be', si metta in

mostra. Che sfidi l'autorità costituita».

«Come faceva Cristo» dissi, «o come al tempo alcuni pensavano che fa-

cesse».


Non fece l'ovvia osservazione che certe cose potevano andare benissimo

per Cristo ma non si addicevano a una ragazza di sedici anni. «Lei non ca-

pisce bene» disse. Si torceva letteralmente le mani, un'operazione che stu-

diai con interesse, non avendola mai vista prima. «Le altre pensano che lei

- pensano che sia divertente. O almeno lo pensano alcune di loro. Altre an-

cora pensano che sia una bolscevica. Il resto la considera semplicemente

strana. In ogni caso, attira il tipo di attenzione sbagliato».

Cominciai a capire il suo punto di vista. «Non credo che Laura intenda

essere divertente» dissi.

«Be', non si direbbe proprio!» Ci guardammo un momento in silenzio al

di sopra della scrivania. «Ha quasi un seguito, sa?» disse la direttrice con

un pizzico di invidia. Aspettò che incassassi, quindi proseguì. «È poi, c'è la

questione delle assenze. Capisco che ci siano problemi di salute, ma...»

«Quali problemi di salute?» domandai. «Non c'è nulla che non vada nel-

la salute di Laura».

«Be', ho supposto, considerati tutti gli appuntamenti dal dottore...»

«Quali appuntamenti dal dottore?»

«Lei non li ha autorizzati?» Mi esibì un fascio di lettere. Riconobbi la

carta da lettere, che era la mia. Le scorsi: non le avevo scritte, ma recavano

la mia firma.

«Capisco» dissi, prendendo il mio cappotto con i bordi di ghiottone e la

mia borsetta. «Dovrò parlare a Laura. Grazie per il tempo che mi ha con-

cesso». Le strinsi la punta delle dita. Ormai non c'era neanche bisogno di

dire che Laura avrebbe dovuto essere espulsa dalla scuola.

«Abbiamo fatto del nostro meglio» disse la povera donna. Stava prati-

camente piangendo. Un'altra Miss Violence. Bassa forza prezzolata, bene

intenzionata ma incapace. Non poteva competere con Laura.

Quella sera, quando Richard chiese come fosse andato il mio colloquio,

gli dissi dell'effetto perturbatore esercitato da Laura sulle sue compagne di

classe. Invece di arrabbiarsi sembrò divertito, quasi ammirato. Disse che

Laura aveva una spina dorsale. Disse che una certa quantità di ribellione

dimostrava spirito di iniziativa. Anche lui non aveva amato la scuola e a-

veva reso la vita difficile agli insegnanti, disse. Non pensavo che fosse

quello il motivo che aveva spinto Laura, ma non ne feci parola.

Non gli accennai ai falsi permessi per il dottore: questo avrebbe solleva-

to un polverone. Dare del filo da torcere agli insegnanti era una cosa, ma-

rinare la scuola tutt'altra. Puzzava di delinquenza.

«Non avresti dovuto contraffare la mia calligrafia» dissi a Laura in pri-

vato.

«Non potevo contraffare quella di Richard. È troppo differente dalle no-



stre. La tua era molto più facile».

«La calligrafia è una cosa personale. È come rubare».

Per un attimo sembrò mortificata. «Mi dispiace. Era solo un prestito.


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