Margaret atwood



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Non pensavo che te la saresti presa».

«Suppongo che sia inutile chiedere perché l'hai fatto?»

«Non ho mai chiesto di essere mandata in quella scuola» disse Laura.

«Non mi piacevano più di quanto io piacessi loro. Non mi prendevano sul

serio. Non sono persone serie. Se fossi dovuta stare tutto il tempo là, mi

sarei ammalata davvero».

«Cosa hai fatto» dissi, «quando non eri a scuola? Dove sei andata?» Ero

preoccupata che potesse incontrare qualcuno - incontrare un uomo. Stava

entrando nell'età giusta.

«Oh, qua e là» rispose. «Andavo in centro, o mi sedevo nei parchi, cose

così. Oppure andavo semplicemente in giro. Ti ho visto, un paio di volte,

ma tu non mi hai notata. Credo che stessi facendo spese». Sentii un afflus-

so di sangue al cuore, poi un'oppressione: panico, come una mano che mi

serrasse. Devo essere impallidita.

«Che c'è?» fece Laura. «Non ti senti bene?»

Quel maggio andammo in Inghilterra a bordo del Berengeria, poi tor-

nammo a New York partecipando al viaggio inaugurale della Queen Mary.

La Queen era il transatlantico più grande e più lussuoso che fosse mai stato

costruito, o almeno questo è quanto riportavano tutti gli opuscoli. Era un

avvenimento che avrebbe fatto epoca, disse Richard.

Winifred venne con noi. Anche Laura. Un viaggio del genere le avrebbe

fatto benissimo, disse Richard: ultimamente era sciupata ed esaurita, se ne

stava in ozio dal momento del suo improvviso allontanamento dalla scuo-

la. Il viaggio sarebbe stato una lezione per lei, di quelle davvero utili per

una ragazza del suo tipo. Comunque, non potevamo lasciarla a casa.

Il pubblico non ne aveva mai abbastanza della Queen Mary. Era descrit-

ta e fotografata fino alla nausea, e arredata per esserne all'altezza, con il-

luminazione al neon, laminati plastici, colonne scanalate e decorazioni in

legno d'acero - costose impiallacciature dappertutto. Ma sguazzava come

un maiale, e il ponte di seconda classe dominava quello di prima, perciò

non si poteva andare in giro senza essere bersagliati dalle imprecazioni de-

gli idioti spiantati che ti squadravano dall'alto.

Il primo giorno ebbi mal di mare, ma poi mi ripresi. Si danzava molto.

Ormai sapevo ballare; abbastanza bene, ma non troppo. (Non fare mai

niente troppo bene, diceva Winifred, sembrerà che ti ci stai impegnando).

Ballavo con uomini diversi da Richard - uomini che lui conosceva tramite i

suoi affari, uomini a cui mi presentava. Prenditi cura di Iris per me, diceva

a questi uomini, sorridendo, dandogli dei colpetti sul braccio. A volte bal-

lava con altre donne, le mogli degli uomini che conosceva. A volte usciva

a fumare una sigaretta o a fare un giro sul ponte, o almeno era quello che

diceva. Io invece pensavo che fosse di malumore, o rimuginasse su qual-

cosa. Ogni volta ne perdevo le tracce per un'ora. Poi tornava, sedeva al no-

stro tavolo, mi guardava ballare abbastanza bene, e io mi chiedevo quanto

tempo fosse stato via.

Era scontento, decisi, perché il viaggio non dava i risultati che aveva

sperato. Non riusciva a procurarsi le prenotazioni desiderate per cenare al

Verandah Grill, non faceva conoscenza con la gente che voleva conoscere.

Era un pezzo grosso nel suo terreno abituale, ma sulla Queen Mary era

davvero molto piccolo. Anche Winifred era un pezzo piccolo: il suo brio

andava sprecato. Più di una volta vidi donne a cui si era accostata timida-

mente fare finta di non vederla. Allora sgattaiolava di nuovo in quella che

chiamava «la nostra cricca», sperando che nessuno si fosse accorto di nul-

la.


Laura non ballava. Non era capace, non le interessava affatto; e comun-

que era troppo giovane. Dopo cena si chiudeva nella sua cabina; diceva di

leggere. Il terzo giorno di viaggio, a colazione, aveva gli occhi gonfi e ros-

si.


A metà mattina andai a cercarla. La trovai su una sdraio con una coperta

scozzese tirata fino al collo, intenta a guardare distrattamente alcune per-

sone che giocavano al gioco degli anelli. Mi sedetti accanto a lei. Una gio-

vane donna robusta ci camminò accanto con sette cani, ognuno al proprio

guinzaglio; indossava dei pantaloncini nonostante il tempo freddo, e aveva

le gambe marroni per l'abbronzatura.

«Potrei trovare un lavoro del genere» disse Laura.

«Un lavoro di che genere?»

«Portare a passeggio i cani» disse. «I cani degli altri. Mi piacciono i ca-

ni».


«Non ti piacerebbero i padroni».

«Non porterei a passeggio i padroni». Aveva gli occhiali da sole, ma

tremava.

«C'è qualcosa che non va?» domandai.

«No».

«Sembra che hai freddo. Credo che ti stia venendo qualcosa».



«Non ho niente. Non ti agitare».

«È naturale che sia preoccupata».

«Non devi. Ho sedici anni. Saprò bene se sono malata».

«Ho promesso a nostro padre che mi sarei presa cura di te» dissi fred-

damente. «E anche a nostra madre».

«È stato sciocco da parte tua».

«Non c'è dubbio. Ma ero giovane, non sapevo ancora come andava il

mondo. Ecco cosa vuol dire essere giovani».

Laura si tolse gli occhiali da sole, ma non mi guardò. «Non ho colpa del-

le promesse altrui» disse. «Papà mi ha rifilato a te. Non ha mai saputo che

farsene di me - di noi. Ma adesso è morto, sono morti tutti e due, perciò

non c'è problema. Ti assolvo dall'impegno. Sei libera».

«Laura, cosa c'è?»

«Niente» rispose. «Ma ogni volta che voglio semplicemente pensare -

raccapezzarmi -, tu decidi che sono malata e cominci a tormentarmi. Mi fa

diventare matta».

«Non è molto giusto» dissi. «Ho provato e riprovato, ti ho sempre dato il

beneficio del dubbio, ti ho sempre dato il massimo...»

«Lasciamo stare» disse. «Guarda che gioco sciocco!»

Ascrissi tutto al vecchio dolore - al lutto, e a tutto quello che ci era suc-

cesso. O magari poteva avere ancora il chiodo fisso di Alex Thomas? A-

vrei dovuto chiederle di più, avrei dovuto insistere, ma dubito che anche in

quel caso mi avrebbe detto cosa la angustiasse davvero.

La cosa che ricordo più chiaramente di quel viaggio, a parte Laura, è il

saccheggio che ebbe luogo su tutta la nave il giorno che entrammo in por-

to. Tutto ciò con sopra il nome o il monogramma della Queen Mary andò a

finire in una borsa o in una valigia - carta da lettere, argenteria, asciuga-

mani, portasapone, tutto - qualunque cosa non fosse incatenata al suolo.

Alcuni svitarono perfino le manopole dei rubinetti, e gli specchi più picco-

li, e i pomelli delle porte. I passeggeri di prima classe erano peggiori degli

altri; ma si sa, i ricchi sono sempre stati cleptomani.

Qual era la ragione di tutta quella devastazione? I souvenir. Quella gente

aveva bisogno di qualcosa con cui ricordare se stessa. Strana cosa, la cac-

cia al souvenir: l'adesso diventa il poi mentre è ancora adesso. Non credi

davvero di essere dove sei, e così rubi la prova, o qualcosa che scambi per

tale.


Io stessa me ne andai con un portacenere.

L'uomo con la testa in fiamme

La scorsa notte ho preso una delle pillole che mi ha prescritto il dottore.

Mi ha fatto dormire, sì, ma poi ho sognato, e quel sogno non era molto mi-

gliore di quelli che facevo senza il beneficio della medicina.

Ero sul pontile di Avilion, con il ghiaccio rotto e verdastro del fiume che

tintinnava tutt'intorno come tante campanelle, ma non indossavo un cap-

potto invernale - solo un vestito di cotone stampato con sopra disegnate

delle farfalle. E un cappello fatto di fiori di plastica a colori sgargianti -

rosso pomodoro, un orribile lillà -, illuminato dall'interno da minuscole

lampadine.

Dov'è il mio? diceva Laura, con la sua voce di quando aveva cinque an-

ni. Ma quando ho abbassato lo sguardo su di lei, non eravamo più bambi-

ne. Laura era cresciuta, come me; i suoi occhi erano piccoli chicchi di uva

passa. Questo mi ha riempito di orrore, e mi sono svegliata.

Erano le tre di notte. Ho aspettato che il mio cuore smettesse di protesta-

re, poi mi sono fatta strada tastoni al piano di sotto e mi sono preparata un

latte caldo. Avrei dovuto saperlo che non c'era da fare assegnamento sulle

pillole. Non si può comprare l'oblio così a buon mercato.

Ma continuiamo.

Una volta sceso dalla Queen Mary, il nostro gruppo di famiglia passò tre

giorni a New York. Richard doveva concludere degli affari; noi altre pote-

vamo fare le turiste, disse.

Laura non voleva andare a vedere i Rockettes, o in cima alla Statua della

Libertà o all'Empire State Building. Non voleva neanche fare spese. Vole-

va soltanto andare in giro per le strade e guardarsi intorno, diceva, ma era

una cosa troppo pericolosa perché potesse farla da sola, secondo Richard,

perciò io andavo con lei. Non era una compagnia vivace - un sollievo dopo

Winifred, che era decisa a essere vivace quanto era umanamente possibile.

Poi passammo parecchie settimane a Toronto, mentre Richard si metteva

in pari con i suoi affari. Quindi ci trasferimmo ad Avilion. Saremmo andati

in barca, disse Richard. Il suo tono sottintendeva che quella era l'unica co-

sa per cui fosse buono quel posto; e anche che era felice di sacrificare il

suo tempo per assecondare i nostri capricci. O, per dirla in modo più gar-

bato, per farci piacere - fare piacere a me, ma fare piacere anche a Laura.

Mi sembrava che fosse giunto a considerare Laura come un puzzle che

adesso era suo compito ricomporre. Lo coglievo mentre la guardava nelle

occasioni più svariate, quasi nello stesso modo in cui guardava le pagine

della borsa - alla ricerca dell'impugnatura, dell'accesso, della maniglia, del

cuneo, dell'entrata. Secondo la sua visione della vita, c'era una impugnatu-

ra e un accesso del genere per ogni cosa. O quello, o un prezzo. Voleva

dominare Laura, voleva il suo collo sotto il piede. Così, dopo ognuno dei

suoi tentativi veniva lasciato con una gamba in aria, come un cacciatore di

orsi in posa in una fotografia da cui l'orso ucciso sia scomparso.

Come ci riusciva Laura? Non opponendoglisi, non più: a quel tempo evi-

tava di scontrarsi frontalmente con lui. Ci riusciva ritraendosi, e girandosi,

e facendogli perdere l'equilibrio. Lui si scagliava sempre nella sua direzio-

ne, e afferrava sempre, sempre nient'altro che aria.

Quello che lui voleva era la sua approvazione, perfino la sua ammirazio-

ne. O semplicemente la sua gratitudine. Qualcosa del genere. Con qualche

altra ragazza avrebbe tentato la carta dei regali - una collana di perle, un

maglione di cachemire - cose che si presumeva una ragazza di sedici anni

desiderasse. Ma sapeva bene che non era il caso di rifilare niente del gene-

re a Laura.

Era come cavare sangue da una rapa, pensavo. Non riuscirà mai a capir-

la. E poi Laura non ha un prezzo, perché lui non ha nulla che lei possa vo-

lere. In un qualsiasi scontro di volontà, con chiunque in assoluto, io

scommettevo ancora su di lei. A suo modo era testarda come un mulo.

Pensai che avrebbe colto al volo l'occasione di trascorrere qualche tempo

ad Avilion - era stata così restia a lasciarlo -, ma quando si accennò al pro-

getto sembrò indifferente. Non voleva attribuire alcun merito a Richard, o

questa fu la mia interpretazione. «Almeno vedremo Reenie» fu tutto quello

che disse.

«Mi duole dire che Reenie non è più al nostro servizio» intervenne Ri-

chard. «Le è stato chiesto di andarsene».

Quando era successo? Qualche tempo prima. Un mese, parecchi mesi?

Richard fu vago. Era per via del marito di Reenie, disse, che beveva trop-

po. Perciò i restauri della casa non venivano effettuati in quella che qua-

lunque persona ragionevole avrebbe considerato una maniera tempestiva e

soddisfacente, e Richard non vedeva alcun senso nel pagare una bella

somma di denaro per la pigrizia, e per ciò che poteva essere definito sol-

tanto insubordinazione.

«Non voleva che fosse qui insieme a noi» disse Laura. «Sapeva che a-

vrebbe preso partito».

Stavamo gironzolando per il piano terra di Avilion. La casa sembrava

rimpicciolita, teli impolverati coprivano i mobili, o meglio quanto ne ri-

maneva - alcuni dei pezzi più ingombranti e scuri erano stati eliminati, su

ordine di Richard, suppongo. Potevo immaginare Winifred mentre diceva

che non si dovrebbe pretendere da nessuno di vivere con una credenza or-

nata di grappoli di legno così pesanti e inverosimili. I libri rilegati in pelle

erano ancora nella biblioteca, ma avevo la sensazione che forse non ci sa-

rebbero rimasti ancora a lungo. I ritratti dei primi ministri con il nonno

Benjamin erano stati eliminati: qualcuno - Richard, senza dubbio - doveva

avere finalmente notato i loro visi color pastello.

Una volta Avilion aveva avuto un'aria di stabilità che equivaleva a in-

transigenza - un macigno grosso e tozzo scagliato giù in mezzo al flusso

del tempo, che rifiutava di essere spostato per chicchessia -, ma ora era

malridotto, afflitto, come se fosse sul punto di crollare su se stesso. Non

aveva più il coraggio delle sue pretese.

Era talmente demoralizzante, diceva Winifred, come tutto era polveroso,

e in cucina c'erano topi, aveva visto gli escrementi, e anche pesciolini d'ar-

gento. Ma i Murgatroyd sarebbero arrivati quel giorno stesso, più tardi,

con il treno, insieme a una coppia di nuovi servitori che erano stati aggiun-

ti al nostro seguito, perciò ben presto sarebbe stato tutto in perfetto ordine

come su una barca, tranne naturalmente (disse con una risata) la barca stes-

sa, intendendo l'Ondina. In quel momento Richard era nella rimessa a e-

saminarla. Avrebbe dovuto essere raschiata e riverniciata sotto la supervi-

sione di Reenie e Ron Hincks, ma questa era un'altra delle cose che non

erano state fatte. Winifred non riusciva a capire che intenzioni avesse Ri-

chard con quella vecchia bagnarola - se aveva davvero tanta voglia di na-

vigare avrebbe dovuto affondare quel rottame e comprare una barca nuova.

«Pensa che ha un valore sentimentale, suppongo» dissi. «Per noi, voglio

dire. Per Laura e per me».

«E ce l'ha?» chiese Winifred, con quel suo sorriso divertito.

«No» rispose Laura. «Perché dovrebbe? Papà non ci portava mai in bar-

ca. Ci portava solo Callie Fitzsimmons». Eravamo in sala da pranzo; al-

meno il tavolo lungo c'era ancora. Mi chiesi quale decisione avrebbe preso

Richard, o piuttosto Winifred, su Tristano e Isotta e sulla loro vitrea storia

d'amore fuori moda.

«Callie Fitzsimmons è venuta al funerale» disse Laura. Eravamo sole;

Winifred era andata di sopra per quello che chiamava il riposino di bellez-

za. In quelle occasioni si metteva sugli occhi dei tamponi di ovatta imbe-

vuti di amamelide e si copriva il viso con un preparato di costoso fango

verde.


«Ah, sì? Non me l'avevi detto».

«Mi sono dimenticata. Reenie era furiosa con lei».

«Per essere venuta al funerale?»

«Per non essere venuta prima. È stata piuttosto sgarbata. Ha detto: "Ar-

rivi alla frutta"».

«Ma se odiava Callie! Ha sempre odiato quando veniva ospite qui! La

considerava una sgualdrina!»

«Io credo che non fosse abbastanza sgualdrina per andare bene a Reenie.

Era troppo pigra, non ha fatto bene il suo lavoro».

«Il lavoro di sgualdrina?»

«Be', Reenie pensava che sarebbe dovuta andare fino in fondo. O che

almeno avrebbe dovuto esserci, quando papà si trovava in simili difficoltà.

Per non farlo pensare a certe cose».

«Reenie ha detto tutto questo?»

«Non esattamente, ma si poteva capire cosa intendesse».

«Che ha fatto Callie?»

«Ha finto di non capire. Poi ha fatto quello che fanno tutti ai funerali. Ha

pianto e ha detto bugie».

«Quali bugie?» ho chiesto.

«Ha detto che anche se loro due non la vedevano allo stesso modo dal

punto di vista politico, papà era una brava, una bravissima persona. Reenie

ha detto punto di vista politico col cavolo, ma alle sue spalle».

«Credo che provasse a esserlo» dissi. «Bravo, intendo».

«Be', non ha provato con abbastanza impegno» ribatté Laura. «Non ti ri-

cordi cosa diceva? Che noi gli eravamo rimaste sulle spalle, come se fos-

simo un peso».

«Ha provato con quanto impegno ha potuto» dissi.

«Ricordi quella volta che si travestì da Babbo Natale? Fu prima che la

mamma morisse. Avevo appena compiuto cinque anni».

«Sì» risposi. «È quello che intendevo. Ci provava».

«Ho odiato quel Natale» disse Laura. «Ho sempre odiato quel genere di

sorprese».

Ci avevano detto di aspettare nel guardaroba. Le doppie porte che dava-

no nell'ingresso avevano tendine leggere all'interno, perciò non potevamo

vedere nel salone quadrato, che aveva un caminetto, alla vecchia maniera;

è là che era stato sistemato l'albero di Natale. Eravamo appollaiate sul di-

vano del guardaroba, con dietro lo specchio rettangolare. Dal lungo attac-

capanni pendevano cappotti - i cappotti di papà, i cappotti della mamma, e

anche i cappelli, più sopra - quelli di lei con grandi piume, quelli di lui con

piume più piccole. C'era odore di soprascarpe di gomma; e di resina di pi-

no fresca e cedro dalle ghirlande intrecciate intorno alle ringhiere della

scala principale, e di cera sulle assi di legno del pavimento tiepide, perché

era accesa la caldaia: i radiatori sibilavano e producevano un rumore me-

tallico. Da sotto il davanzale della finestra veniva una corrente fredda, e

l'odore inesorabile, gradevole della neve.

C'era una sola luce sul soffitto della stanza; aveva una sfumatura di un

giallo serico. Vedevo noi due riflesse nei vetri delle porte: i nostri vestiti di

velluto blu reale con i colletti di pizzo, i nostri visi bianchi, i nostri capelli

opachi divisi nel mezzo, le nostre mani pallide incrociate in grembo. Le

nostre calze bianche, le nostre Mary Janes nere. Ci era stato insegnato a

sedere accavallando i piedi - mai le ginocchia - ed era così che eravamo

sedute. Lo specchio si alzava dietro di noi come una bolla di vetro che ci

spuntasse da sopra le teste. Sentivo i nostri respiri entrare e uscire: i respiri

dell'attesa. Sembrava che fosse qualcun altro a respirare - qualcuno grande

ma invisibile, nascosto, infagottato nei cappotti.

A un tratto le doppie porte si spalancarono. C'era un uomo vestito di ros-

so, un gigante rosso che torreggiava sopra di noi. Dietro di lui c'era l'oscu-

rità della notte, e uno sfavillio di fiamme. Aveva la faccia coperta di fumo

bianco. La sua testa bruciava. Avanzò barcollando: aveva le braccia spa-

lancate. Dalla bocca gli uscì il suono di un ululato, o di un grido.

Io rimasi stupefatta per un momento, ma ero abbastanza grande per capi-

re di cosa dovesse trattarsi. Il suono doveva essere una risata. Era solo pa-

pà, che fingeva di essere Babbo Natale, e non stava bruciando - era solo

l'albero acceso alle sue spalle, era solo la ghirlanda di candele sulla sua te-

sta. Indossava la vestaglia di broccato rosso, all'incontrano, e una barba

fatta di cotone per imbottiture.

Mia madre diceva che lui non si rendeva mai conto della sua forza: non

si rendeva mai conto di quanto fosse grande rispetto a chiunque altro.

Dunque non si stava rendendo conto di quanto potesse sembrare spavento-

so. Certamente fu spaventoso per Laura.

«Non la finivi più di gridare» dissi allora. «Non capivi che stava fingen-

do».


«Peggio» ribatté Laura. «Pensai che fingesse il resto del tempo».

«Cosa vuoi dire?»

«Che è così che era davvero» rispose lei in tono paziente. «Che sotto

sotto bruciava. Sempre».

L'Ondina

Questa mattina ho dormito fino a tardi, esausta dopo una notte di cupi

vagabondaggi. Avevo i piedi gonfi, come se avessi camminato a lungo su

un terreno duro; mi sentivo la testa spugnosa e molle. È stato il bussare di

Myra alla porta a svegliarmi. «In piedi!» ha trillato attraverso la fessura

delle lettere. Per pura cattiveria non ho risposto. Magari avrebbe pensato

che ero morta - crepata nel sonno! Senza dubbio si stava già preoccupando

di quale dei miei vestiti stampati a fiori mi avrebbe messo nella bara, e

stava pensando alle cibarie per il ricevimento dopo il funerale. Non l'a-

vrebbe chiamata veglia funebre, niente di così barbaro. Una veglia sembra

qualcosa fatto per assicurarsi che i morti siano davvero morti prima di but-

tarci sopra palate di terra.

Ho sorriso a quell'idea. Poi mi sono ricordata che Myra aveva una chia-

ve. Ho pensato di tirarmi il lenzuolo sul viso per darle un ultimo istante di

piacevole orrore, ma poi ho deciso che era meglio di no. Mi sono tirata su

a sedere, quindi sono scesa dal letto e mi sono messa la vestaglia.

«Un momento» ho gridato giù per le scale.

Ma Myra era già dentro, e con lei c'era la donna: la donna delle pulizie.

Era una creatura grande e grossa con l'aspetto di una portoghese: non c'era

modo di ritardarne l'entrata in funzione. Si è subito messa al lavoro con l'a-

spirapolvere di Myra - avevano pensato a tutto - mentre io la seguivo come

uno spirito che annuncia la morte, piagnucolando: Non tocchi questo! La-

sci quell'altro! Posso farlo da sola! Ora non troverò più niente! Almeno

sono riuscita ad arrivare in cucina prima di loro, e ho avuto il tempo di fic-

care le mie pagine scarabocchiate nel forno. Era improbabile che lo avreb-

bero affrontato il primo giorno di pulizie. In ogni caso non è troppo spor-

co, non ci cuocio mai niente.

«Là» ha detto Myra, dopo che la donna ha finito. «Tutto pulito e in ordi-

ne. Non ti fa sentire meglio?»

Mi aveva portato un ninnolo fresco fresco dalla Gingerbread House -

una fioriera per crochi verde smeraldo, solo leggermente scheggiata, raffi-

gurante la testa di una ragazza che sorride timidamente. I crochi dovrebbe-

ro crescere attraverso i buchi in cima ed esplodere in un'aureola di fiori,

queste le sue precise parole. Tutto quello che devo fare è innaffiarlo, dice

Myra, e ben presto sarà grazioso come una pianta.

Misteriose sono le vie attraverso cui Dio compie i suoi miracoli, come

diceva Reenie. Potrebbe darsi che Myra sia l'angelo custode a me destina-

to? O invece è un assaggio del Purgatorio? E come fare a capire la diffe-

renza?

Il nostro secondo giorno ad Avilion io e Laura andammo a trovare Ree-



nie. Non fu difficile scoprire dove viveva: tutti in città lo sapevano. O al-


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