Margaret atwood



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di un'opera - una giovane schiava il cui destino era quello di uccidersi piut-

tosto che tradire l'uomo che amava, che a sua volta amava qualcun'altra. È

così che andavano le cose, nelle opere. Non consideravo quel profumo di

buon augurio, ma ero preoccupata di avere uno strano odore. In effetti ce

l'avevo. Quella stranezza era venuta da Richard, ma ora era mia. Sperai di

non aver fatto troppo rumore. Involontari respiri affannosi, brusche inspi-

razioni, come quando ci si tuffa nell'acqua fredda.

Per cena ci fu bistecca con contorno di insalata. Mangiai quasi solo insa-

lata. A quel tempo negli alberghi la lattuga era sempre la stessa. Sapeva di

acqua verde chiaro. Sapeva di gelo.

Il viaggio in treno fino a New York il giorno seguente fu tranquillo. Ri-

chard lesse i giornali, io le riviste. Il genere di discorsi che facemmo non

era diverso da quelli che facevamo prima di sposarci. (Esito a chiamarli di-

scorsi, perché io non parlavo molto. Sorridevo e assentivo, e non ascolta-

vo).


A New York cenammo in un ristorante con alcuni amici di Richard, una

coppia di cui ho dimenticato i nomi. Erano nuovi ricchi, senza alcun dub-

bio: talmente nuovi che saltava agli occhi. Quanto agli abiti, sembrava che

si fossero coperti di colla, quindi si fossero rotolati nelle banconote da cen-

to dollari. Mi chiesi come l'avessero fatto, quel denaro; aveva un'aria poco

pulita.


Quella gente non conosceva troppo bene Richard, né desiderava farlo:

gli dovevano qualcosa, tutto qui - per qualche favore non detto. Avevano

paura di lui, erano leggermente deferenti nei suoi confronti. Lo dedussi dal

gioco degli accendini: chi accendeva che cosa a chi, e quanto in fretta. Ri-

chard era felice della loro deferenza. Era felice che gli accendessero le si-

garette, e che di conseguenza le accendessero anche a me.

Mi venne in mente che Richard fosse voluto uscire con loro non solo

perché desiderava circondarsi di una piccola cricca di lacché, ma perché

non desiderava stare solo con me. Potevo biasimarlo a stento: avevo poco

da dire. Ciò nonostante ora - in compagnia - nei miei confronti era premu-

roso, mi metteva con tenerezza il cappotto sulle spalle, mi rivolgeva picco-

le, amorevoli attenzioni, teneva sempre una mano su di me, delicatamente,

da qualche parte. Ogni tanto studiava l'ambiente, controllando quali tra gli

altri uomini lo invidiassero. (Questo lo dico col senno di poi, naturalmente:

allora non mi rendevo conto di nulla).

Il ristorante era molto caro, e anche molto moderno. Non avevo mai vi-

sto nulla del genere. Le cose scintillavano più che brillare; c'era legno

sbiancato e rifiniture in ottone e vetro sgargiante dappertutto, e una gran

quantità di laminato. Sculture di donne stilizzate in ottone o acciaio, lisce

come caramelle, con sopracciglia ma senza occhi, con fianchi affusolati

ma senza piedi, con braccia che si fondevano con i busti; sfere di marmo

bianco; specchi rotondi come oblò. Su ogni tavolo, una sola calla in un sot-

tile vaso di acciaio.

Gli amici di Richard erano perfino più grandi di lui, e la donna sembrava

più vecchia dell'uomo. Indossava un visone bianco, nonostante il tempo

primaverile. Anche il vestito era bianco, un disegno ispirato - ci disse a un

certo punto - all'antica Grecia, alla Vittoria alata di Samotracia, per la pre-

cisione. Le pieghe dell'abito partivano da sotto il petto, dove correva un

cordoncino dorato che poi si incrociava tra i seni. Pensai che se avessi avu-

to un seno così flaccido e cadente non mi sarei mai messa un simile vesti-

to. La pelle che si vedeva al di sopra della scollatura era grinzosa e coperta

di lentiggini, come pure le braccia. Mentre lei parlava il marito sedeva in

silenzio, con le mani serrate e il suo sorrisetto immutabile; teneva saggia-

mente lo sguardo abbassato sulla tovaglia. Così questo è il matrimonio,

pensai: questo tedio condiviso, questo nervosismo, e quei piccoli solchi

polverosi che si formano ai lati del naso.

«Richard non ci aveva avvertito che lei era così giovane» disse la donna.

Il marito disse: «Le passerà» e sua moglie rise.

Considerai la parola avvertire: ero tanto pericolosa? Solo nel modo in

cui lo sono le pecore, ora suppongo. Così ottuse da mettere a repentaglio la

propria vita, da finire sui precipizi o intrappolate dai lupi, cosicché qualche

guardiano deve rischiare il collo per toglierle dai guai.

Presto - dopo due giorni a New York, o furono tre? - ci imbarcammo per

l'Europa a bordo del Berengeria, che a sentire Richard era la nave che

prendevano tutte le persone che erano qualcuno. Il mare non era mosso per

quel periodo dell'anno, ma ciò nonostante vomitai e stetti male come un

cane. (Perché si citano sempre i cani, in questi casi? Perché sembra che

non possano farci niente. Neanch'io potevo).

Mi portarono una bacinella e del tè freddo leggero con zucchero ma sen-

za latte. Richard disse che dovevo bere champagne perché era la cura mi-

gliore, ma non volli rischiare. Era più o meno premuroso, ma anche più o

meno annoiato, sebbene dicesse che era un peccato che mi sentissi male.

Dissi che non volevo rovinargli la serata e che sarebbe dovuto uscire e ve-

dere gente, e così fece. Il vantaggio del mio malessere era che Richard non

mostrò alcuna voglia di mettersi a letto con me. Il sesso può andare a me-

raviglia con molte cose, ma il vomito non è una di queste.

La mattina seguente Richard disse che avrei dovuto fare lo sforzo di pre-

sentarmi a colazione, perché saper reagire voleva dire essere già a metà

dell'opera. Sedetti al nostro tavolo, mangiucchiai del pane e bevvi dell'ac-

qua, cercando di ignorare gli odori della cucina. Mi sentivo incorporea e

flaccida e con la pelle grinzosa, come un pallone sgonfio. Richard si cura-

va di me a intermittenza: conosceva gente, o così sembrava, e la gente co-

nosceva lui. Si alzava, stringeva mani, tornava a sedersi. A volte mi pre-

sentava, a volte no. Ma non conosceva tutti quelli che avrebbe voluto. Era

chiaro dal modo in cui continuava a guardarsi intorno, oltre me, oltre quelli

con cui stava parlando - al di sopra delle loro teste.

Durante il giorno mi ripresi gradualmente. Bevvi ginger ale, che mi gio-

vò. Non mangiai la cena, ma vi partecipai. Di sera ci fu uno spettacolo di

cabaret. Indossai il vestito che Winifred aveva scelto per una simile occa-

sione, grigio tortora con una mantellina di chiffon lilla, e sandali assortiti,

lilla, con i tacchi alti e aperti in punta. Non mi ero veramente impratichita

a camminare su tacchi così alti: vacillavo leggermente. Richard disse che

l'aria di mare doveva farmi bene; disse che avevo la giusta quantità di co-

lore, un leggero rossore da scolara. Disse che ero meravigliosa. Mi guidò

al tavolo che aveva riservato, e ordinò un martini per me e uno per sé. Dis-

se che il martini mi avrebbe rimesso al mondo in men che non si dica.

Ne bevvi un po', dopo di che Richard sparì, e c'era una cantante ritta sot-

to un proiettore blu. Aveva i capelli neri che le ricadevano in un'onda su un

occhio, e indossava un vestito nero a tubino ricoperto di grossi lustrini a

scaglie, che aderiva strettamente al suo didietro sodo ma sporgente ed era

tenuto su da quello che sembrava uno spago intrecciato. La fissavo affa-

scinata. Non ero mai stata in un cabaret, e neanche in un night club. Faceva

ondeggiare le spalle e cantava Stormy weather con una voce simile a un

voluttuoso lamento. Le si vedeva quasi l'ombelico.

La gente sedeva ai suoi tavoli e la guardava e ascoltava scambiandosi

giudizi su di lei - libera di apprezzarla o meno, di esserne o meno sedotta,

di approvare o disapprovare la sua esibizione, o il suo vestito, o il suo di-

dietro. Lei però non era libera. Doveva andare fino in fondo - cantare,

muoversi. Mi chiesi quanto la pagassero per farlo, e se ne valesse la pena.

Solo se si era poveri, decisi. Da allora mi è sempre sembrato che la frase

sotto i riflettori indicasse una precisa forma di umiliazione. Il riflettore era

qualcosa da cui bisognava chiaramente tenersi alla larga, se possibile.

Dopo la cantante fu il turno di un uomo che suonò un piano bianco, in

gran fretta, e quindi di una coppia, due ballerini professionisti: un numero

di tango. Erano vestiti di nero, come la cantante. I loro capelli scintillavano

come pelle verniciata sotto il riflettore, che adesso proiettava una luce di

un verde acido. La donna aveva un ricciolo scuro incollato alla fronte e un

grande fiore rosso dietro un orecchio. Il suo vestito, svasato da metà co-

scia, per il resto era aderente come una calza. La musica era irregolare,

zoppicante - come un quadrupede che barcolli su tre zampe. Un toro az-

zoppato che giri in tondo a testa bassa.

Quanto alla danza, era più una battaglia che una danza. Le facce dei bal-

lerini erano fisse, impassibili; si lanciavano sguardi sfavillanti, aspettando

l'occasione di mordersi. Sapevo che era un numero, vedevo che era esegui-

to sapientemente; malgrado ciò, sembravano entrambi feriti.

Venne il terzo giorno. Nel primo pomeriggio andai a camminare sul

ponte per prendere un po' d'aria fresca. Richard non venne con me: stava

aspettando dei telegrammi importanti, disse. Ne aveva ricevuti già molti;

apriva le buste con un tagliacarte d'argento, leggeva il contenuto, quindi li

stracciava o li infilava nella sua valigetta, che teneva chiusa a chiave.

Non avevo una particolare voglia di averlo con me sul ponte, ma ciò no-

nostante mi sentivo sola. Sola e perciò trascurata, trascurata e perciò falli-

ta. Come se mi fosse stato fatto un bidone a un appuntamento, o fossi stata

piantata; come se avessi il cuore spezzato. Un gruppo di inglesi in abiti di

lino color crema mi fissava. Non era uno sguardo ostile; era dolce, remoto,

leggermente curioso. Nessuno sa fissare come gli inglesi. Mi sentivo spie-

gazzata e sporca, e poco interessante.

Il cielo era coperto; le nuvole erano di un grigio sporco, piene di protu-

beranze ciondoloni, come l'imbottitura di un materasso zuppo. Pioviggina-

va. Non portavo il cappello, per paura che potesse volare via; avevo solo

una sciarpa di seta annodata sotto il mento. Ero appoggiata al parapetto e

guardavo su e giù, le onde color ardesia che rotolavano incessantemente, la

scia della nave che scarabocchiava il suo breve messaggio senza senso.

Come l'indizio di un incidente nascosto: la striscia di uno chiffon strappa-

to. La fuliggine delle ciminiere si posava su di me; i capelli mi si sciolsero

e si incollarono alle guance in strisce bagnate.

Dunque questo è l'oceano, pensai. Non sembrava profondo come avreb-

be dovuto. Cercai di ricordare qualcosa che forse avevo letto al riguardo,

una poesia o qualcos'altro, ma non ci riuscii. Frangiti, frangiti, frangiti.

C'era qualcosa che cominciava a quel modo. C'erano dentro fredde pietre

grigie. Oh, mare.

Volevo gettare qualcosa fuori bordo. Mi pareva il caso. Alla fine gettai

un penny di rame, ma non espressi alcun desiderio.

VI

L'assassino cieco: Il vestito pied-de-poule



Gira la chiave. C'è una serratura a chiavistello, una piccola fortuna. Gli è

andata bene questa volta, ha in prestito un intero appartamento. È di una

donna sola, un'unica grande stanza con uno stretto bancone da cucina, però

ha un bagno tutto suo, con una vasca dalle zampe ad artiglio e asciugamani

rosa. Roba di lusso. Appartiene alla ragazza di un amico di un amico, fuori

città per un funerale. Quattro interi giorni di sicurezza, o quanto meno l'il-

lusione di essa.

Le tende sono intonate al copriletto; sono di una pesante seta grezza co-

lor ciliegia, sopra tendine leggere. Tenendosi leggermente discosto dalla

finestra, guarda fuori. La vista - ciò che scorge attraverso le foglie gialle -

è sugli Allan Gardens. Un paio di ubriachi o vagabondi giacciono privi di

sensi sotto gli alberi, uno con la faccia sotto un giornale. Anche a lui è ca-

pitato di dormire così. I giornali inumiditi dal proprio respiro odorano di

povertà, di sconfitta, di imbottitura ammuffita con sopra peli di cane. Sul-

l'erba sono disseminati cartelli e cartacce spiegazzate, i resti della notte

scorsa - una dimostrazione, i compagni hanno battuto sui loro dogmi e sul-

le orecchie degli ascoltatori, finché è durata. Ora due uomini sconsolati

fanno pulizia, con bastoni dalla punta d'acciaio e borse di iuta. Almeno c'è

lavoro per i poveracci.

Lei attraverserà il parco in diagonale. Si fermerà, lancerà occhiate fin

troppo esplicite per vedere se qualcuno sta guardando. Dopodiché, sarà lì.

Sulla scrivania bianca e dorata - chiaramente di una donna - c'è una ra-

dio della grandezza e della forma di una mezza pagnotta. L'accende: un

trio messicano, le voci come corda liquida, dure, morbide, intrecciate. Ec-

co dove dovrebbe andare, in Messico. Bere tequila. Lasciarsi andare, la-

sciarsi andare ancora di più. Lasciarsi trascinare via. Diventare un

desperado. Mette la macchina da scrivere portatile sulla scrivania, la apre,

alza il coperchio, ci infila un foglio. Sta finendo la carta carbone. Ha tem-

po per qualche pagina prima che lei arrivi, se arriverà. A volte viene bloc-

cata, o intercettata. O almeno così sostiene.

Gli piacerebbe sollevarla e metterla nella lussuosa vasca, coprirla di

schiuma. Sguazzare là dentro con lei, maiali tra le bolle rosa. Forse lo farà.

Ciò su cui sta lavorando è un'idea, o l'idea di un'idea. È su una razza di

extraterrestri che mandano un'astronave a esplorare la Terra. Sono fatti di

cristalli a un alto stadio di organizzazione, e cercano di entrare in contatto

con le creature della Terra che ritengono simili a loro: occhiali, finestre,

fermacarte veneziani, calici di vino, anelli di brillanti. Falliscono. Manda-

no un rapporto in patria: Questo pianeta contiene molti interessanti resti di

una civiltà un tempo fiorente ma ora estinta, probabilmente di una catego-

ria superiore. Non sappiamo quale catastrofe abbia causato l'estinzione di

ogni vita intelligente. Attualmente il pianeta ospita soltanto una varietà di

filigrana viscosa e verde e un gran numero di globuli di fango semiliquido

dalle forme eccentriche, sbatacchiati qua e là dalle fluttuanti correnti del

fluido leggero e trasparente che ricopre la superficie del pianeta. Gli acuti

strilli e i sonori gemiti prodotti da questi globuli vanno ascritti a vibrazio-

ni d'attrito, e non devono essere scambiati per linguaggio.

Ma non è una storia. Non può essere una storia, a meno che gli alieni

non invadano e non saccheggino e qualche donna non salti fuori della sua

tuta. Ma un'invasione non si accorderebbe con la premessa. Se gli esseri di

cristallo pensano che il pianeta non ha vita, perché dovrebbero prendersi la

briga di sbarcarci? Per ragioni archeologiche, forse. Per raccogliere dei

campioni. All'improvviso migliaia di finestre vengono risucchiate dai grat-

tacieli di New York da un aspirapolvere extraterrestre. Migliaia di presi-

denti di banca vengono risucchiati anch'essi, e cadono morti gridando. Sa-

rebbe bello.

No. Non è ancora una storia. Ha bisogno di scrivere qualcosa che venda.

Ritorna alle donne morte che sbavano sangue, con quelle non si sbaglia

mai. Questa volta darà loro capelli viola, le metterà in azione sotto i vele-

nosi raggi lilla delle dodici lune di Arn. La cosa migliore è immaginare l'il-

lustrazione della copertina con cui probabilmente se ne verranno fuori i ra-

gazzi, e partire da lì.

È stanco di loro, di queste donne. È stanco delle loro zanne, della loro

flessuosità, dei loro seni simili a mezzi pompelmi, sodi ma maturi, della

loro ingordigia. È stanco dei loro artigli rossi, dei loro occhi da vipere. È

stanco di sfondare le loro teste. È stanco degli eroi che si chiamano Will o

Burt o Ned, nomi di una sillaba; è stanco delle loro armi a raggio, dei loro

aderenti abiti metallici. Dieci centesimi a brivido. Eppure, è un mezzo di

sostentamento, sempre che riesca a mantenere il ritmo, e i mendicanti non

possono permettersi quasi mai di scegliere.

Sta di nuovo finendo i soldi. Spera che lei gli porti un assegno, da una

delle caselle postali che lui tiene sotto falso nome. Glielo girerà e lei lo in-

casserà al suo posto; con il nome che ha, alla sua banca non avrà problemi.

Spera che porti qualche francobollo. Spera che porti altre sigarette. Gliene

sono rimaste solo tre.

Cammina su e giù. Il pavimento scricchiola. È di legno duro, ma è mac-

chiato dove è colata acqua dal radiatore. Quel palazzo di appartamenti è

stato eretto prima della guerra, per uomini d'affari soli di buona reputazio-

ne. Allora le cose erano più promettenti. Riscaldamento a vapore, acqua

calda a non finire, corridoi rivestiti di piastrelle - tutto all'ultimo grido.

Ormai si può dire che ha visto tempi migliori. Qualche anno prima, quando

era giovane, aveva conosciuto una ragazza che abitava là. Un'infermiera,

se ben ricorda: preservativi nel cassetto del comodino. Aveva un fornello a

due fuochi, qualche volta gli aveva preparato la colazione - uova al bacon,

pancake con sciroppo d'acero, se l'era leccato dalle dita. C'era una testa di

cervo imbalsamata e attaccata al muro, lasciata dai precedenti affittuari; lei

asciugava le calze appendendole alle corna.

Avevano trascorso i sabati pomeriggio, i martedì sera, ogni momento

che lei aveva libero, a bere - scotch, gin, vodka, qualunque cosa. Le piace-

va ubriacarsi subito. Non voleva andare al cinema, o fuori a ballare; sem-

brava che non volesse romanticherie, né alcuna loro parvenza, per fortuna.

Tutto quello che voleva da lui era la prestanza fisica. Le piaceva stendere

una coperta sul pavimento del bagno; le piaceva la durezza delle piastrelle

sotto la schiena. Era un inferno per le sue ginocchia e i suoi gomiti, non

che sul momento ci facesse caso, la sua attenzione era altrove. Lei mugo-

lava come se fosse sotto i riflettori, muovendo la testa, rovesciando gli oc-

chi. Una volta l'aveva presa in piedi, nella cabina armadio. Una sveltina in

piedi, con l'odore delle palline di naftalina, tra i tessuti crespi degli abiti

della domenica, i completi di lambswool. Lei aveva pianto di piacere. Do-

po averlo mollato aveva sposato un avvocato. Un'unione astuta, un matri-

monio bianco; ne aveva letto sui giornali, divertito, senza rancore. Buon

per lei, aveva pensato. A volte le puttane vincono.

Giorni spensierati. Giorni senza nomi, pomeriggi stupidi, rapidi e terreni

e presto finiti, e senza desideri prima o dopo, senza alcun bisogno di parole

e nulla da pagare. Prima che rimanesse coinvolto nelle cose in cui era ri-

masto coinvolto.

Controlla l'orologio e poi di nuovo la finestra, ed eccola che arriva, a-

vanzando a lunghi passi in diagonale attraverso il parco. Oggi indossa un

cappello a larghe tese e un tailleur pied-de-poule con una cintura ben stret-

ta, una borsetta schiacciata sotto il braccio, la gonna a pieghe che oscilla di

qua e di là, nella sua curiosa andatura ondeggiante, come se non si fosse

mai abituata a camminare sulle sue gambe. Ma forse dipende dai tacchi al-

ti. Si è spesso chiesto come facciano le donne a tenercisi in equilibrio. Ora

si è fermata come per un segnale convenuto; si guarda intorno in quel suo

modo stupefatto, come se si fosse appena svegliata da un sogno inquie-

tante, e i due tizi che raccolgono le cartacce la squadrano. Ha perso qual-

cosa, signorina? Ma lei tira dritto, attraversa la strada, può vederne dei

frammenti attraverso le foglie, ora probabilmente sta cercando il numero

civico. Ora sta salendo i gradini d'ingresso. Il citofono suona. Lui spinge il

bottone, schiaccia la sigaretta, spegne la lampada sulla scrivania, apre la

porta.


Ciao. Sono senza fiato. Non ho aspettato l'ascensore. Chiude la porta, ci

si appoggia con la schiena.

Non ti ha seguito nessuno. Ho controllato. Hai delle sigarette?

E il tuo assegno, e una bottiglia di scotch della miglior qualità. L'ho ru-

bato dal nostro bar ben fornito. Ti avevo detto che abbiamo un bar ben

fornito?


Sta cercando di essere disinvolta, perfino frivola. Non le riesce mai be-

ne. È bloccata, aspetta di vedere cosa vuole lui. Non fa mai la prima mos-

sa, non le piace fare passi falsi.

Brava ragazza. Si muove verso di lei, l'abbraccia.

Sono una brava ragazza? A volte mi sento come la donna di un gangster

- che ti fa le commissioni.

Non puoi essere la donna di un gangster, io non lo sono: non ho neppure

un'arma. Guardi troppi film.

Per niente, gli dice lei sul collo. Potrebbe tagliarsi i capelli. Soffici cardi

selvatici. Gli slaccia i primi quattro bottoni, fa passare la mano sotto la

camicia. La sua carne è così densa, così compatta. A grana fine, bruciata.

Ha visto portacenere intagliati in un legno così.

L'assassino cieco: Il broccato rosso

È stato bello, dice lei. Il bagno, è stato bello. Non ti avevo mai im-

maginato con degli asciugamani rosa. In confronto al solito, è piuttosto

lussuoso.

La tentazione si cela ovunque, dice lui. Le comodità attirano. Direi che

si tratta di una sgualdrina dilettante, non credi?

L'aveva avvolta in uno degli asciugamani rosa e portata a letto bagnata e

scivolosa. Ora sono sotto il copriletto di seta grezza color ciliegia e le len-

zuola di rasatello, bevono lo scotch che lei ha portato. È una buona misce-

la, fumosa e calda, va giù liscia come acqua. Lei si stira voluttuosamente,

chiedendosi soltanto di sfuggita chi laverà le lenzuola.

Non riesce mai a superare la sensazione della trasgressione in tutte quel-

le stanze - la sensazione di violare i confini privati di chiunque ci viva di

solito. Le piacerebbe rovistare negli armadi, nei cassetti delle scrivanie -

non per prendere qualcosa, soltanto per guardare; per vedere come vive

l'altra gente. La gente vera; gente più vera di lei. Le piacerebbe fare lo

stesso con lui, se non fosse che non ha armadi, cassetti di scrivania, nulla

che sia suo. Niente da trovare, niente che lo tradisca. Solo una valigia blu

piena di segnacci, che tiene chiusa. Di solito è sotto il letto.

Le sue tasche non forniscono indizi; qualche volta le ha frugate. (Non

era spiare, voleva soltanto sapere dov'erano le sue cose, e che cos'erano, e


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