MARGARET ATWOOD
L'ASSASSINO CIECO
(The Blind Assassin, 2000)
Immaginate il monarca Agha Mohammed Khan ordinare che l'in-
tera popolazione della città di Kerman venga assassinata o acceca-
ta - senza eccezioni. I suoi pretoriani si accingono alacremente al-
l'opera. Mettono in fila gli abitanti, tagliano la testa agli adulti,
cavano gli occhi ai bambini... In seguito, processioni di bambini
accecati lasciano la città. Alcuni, vagando per la campagna, smar-
riscono la via nel deserto e muoiono di sete. Altri gruppi raggiun-
gono insediamenti abitati... intonando canzoni sullo sterminio dei
cittadini di Kerman...
Ryszard Kapu?ci?ski
Nuotavo, il mare era sconfinato, non vedevo la riva. Tanit era
spietata, le mie preghiere furono accolte. Oh, tu che sei annegato
nell'amore, ricordati di me.
Iscrizione su un'urna funeraria cartaginese
La parola è una fiamma che brucia in un vetro scuro.
Sheila Watson
I
Il ponte
Dieci giorni dopo la fine della guerra mia sorella Laura volò giù da un
ponte con un'automobile. Il ponte era in riparazione: lei andò dritta contro
il segnale di pericolo. La macchina precipitò nel vuoto per una trentina di
metri, si schiantò sulle cime degli alberi, soffici per le foglie nuove, quindi
si incendiò e rotolò nell'insenatura poco profonda giù in basso. Pezzi del
ponte piovvero sull'auto. Di lei non rimase più nulla, se non qualche
frammento carbonizzato.
Fui informata dell'incidente da un poliziotto: la macchina era mia, ed e-
rano risaliti a me dalla targa. Il suo tono era rispettoso: senza dubbio aveva
riconosciuto il cognome di Richard. Disse che i copertoni potevano essere
scivolati su una rotaia del tram, o forse erano stati i freni a non funzionare,
ma si sentì anche in dovere di informarmi che due testimoni - un avvocato
in pensione e un cassiere di banca, persone affidabili - avevano affermato
di aver visto tutta la scena. A sentir loro Laura aveva sterzato bruscamente
e di proposito, e si era tuffata giù dal ponte senza darsi più pena che se fos-
se dovuta scendere da un marciapiede. Avevano notato le sue mani sul vo-
lante per via dei guanti bianchi che indossava.
Non erano stati i freni, pensai. Lei aveva sempre le sue ragioni. Non che
somigliassero mai alle ragioni di qualsiasi altra persona. Da questo punto
di vista era assolutamente irriducibile.
«Volete che qualcuno la identifichi, suppongo» dissi. «Verrò appena
possibile». Potevo sentire la mia voce calma, come se l'ascoltassi da una
certa distanza. In realtà riuscivo a malapena a tirare fuori le parole; avevo
la bocca intorpidita, tutto il viso irrigidito dal dolore. Mi sembrava di esse-
re dal dentista. Ero furiosa con Laura per quello che aveva fatto, ma anche
con il poliziotto per avere insinuato che l'avesse fatto. Un vento caldo mi
soffiava intorno alla testa, e le ciocche dei miei capelli si sollevavano e
vorticavano, come inchiostro versato nell'acqua.
«Temo che ci sarà un'inchiesta, signora Griffen» disse.
«Naturalmente» ribattei. «Ma è stato un incidente. Mia sorella non è mai
stata una buona guidatrice».
Riuscivo a immaginare l'ovale armonioso del viso di Laura, il suo
chignon appuntato con cura, l'abito che avrebbe potuto indossare: uno
chemisier dal piccolo collo arrotondato, di un colore sobrio - blu marino,
grigio acciaio o verde corridoio di ospedale. Colori penitenziali - che ave-
vano più l'aria di qualcosa in cui fosse stata ficcata a forza che di qualcosa
che avesse scelto di mettere. Il suo sorrisetto solenne; le sopracciglia solle-
vate in un gesto di sorpresa, quasi stesse ammirando il panorama.
I guanti bianchi: un gesto da Ponzio Pilato. Se ne lavava le mani, di me.
Di tutti noi.
A cosa aveva pensato mentre l'auto volava giù dal ponte, quindi rimane-
va sospesa nella luce del sole pomeridiano, scintillando come una libellula
in quell'istante di fiato trattenuto prima di piombare giù? Ad Alex, a Ri-
chard, alla malafede, a nostro padre e alla sua rovina; a Dio, forse, e al fa-
tale patto a tre che aveva stretto. Oppure alla pila di quaderni scolastici da
poco prezzo che doveva avere nascosto quella mattina stessa, nel cassetto
del comò dove tenevo le calze, sapendo che sarei stata io a trovarli.
Quando il poliziotto se ne fu andato, salii a cambiarmi. Per recarmi al-
l'obitorio avrei avuto bisogno di guanti e di un cappello con la veletta.
Qualcosa che coprisse gli occhi. Potevano esserci dei giornalisti. Avrei do-
vuto chiamare un taxi. E anche avvertire Richard, in ufficio: avrebbe desi-
derato avere una dichiarazione di cordoglio bella e pronta. Entrai nel mio
spogliatoio: mi ci voleva qualcosa di nero, e un fazzoletto.
Aprii il cassetto e vidi i quaderni. Sciolsi lo spago da cucina incrociato
che li teneva insieme. Notai che mi battevano i denti, e che ero tutta gelata.
Stabilii che dovevo trovarmi in stato di choc.
Ciò che ricordai in quel momento fu Reenie, al tempo in cui eravamo
piccole. Era Reenie che ci fasciava graffi, tagli e ferite di minore entità:
nostra madre poteva riposare, o fare buone azioni altrove, ma Reenie c'era
sempre. Ci tirava su e ci metteva a sedere sul tavolo smaltato della cucina,
accanto all'impasto della torta che stava stendendo con il rullo, o al pollo
che stava tagliando, o al pesce che stava sventrando, quindi ci dava una
zolletta di zucchero di canna per farci tenere la bocca chiusa. Dimmi dove
ti fa male, diceva. Smettila di urlare. Calmati e fammi vedere dove.
Ma ci sono persone che non riescono a dire dove fa male. Che non rie-
scono a calmarsi. Che non riescono neppure a smettere di urlare.
The Toronto Star, 26 maggio 1945
INCIDENTE MORTALE IN CITTÀ
SUSCITA INTERROGATIVI
SPECIALE PER LO STAR
In relazione all'incidente avvenuto la scorsa settimana sul St.
Clair Ave. Bridge, l'inchiesta del coroner ha stabilito che si tratta
di morte accidentale. Il pomeriggio del 18 maggio la signorina
Laura Chase, 25 anni, stava viaggiando in direzione ovest quando
la sua macchina ha sbandato, sfondando le barriere di protezione
di un'area del ponte in riparazione, e si è schiantata nel baratro più
sotto, prendendo fuoco. La signorina Chase è rimasta uccisa sul
colpo. Sua sorella, la signora Richard E. Griffen, moglie dell'emi-
nente industriale, ha testimoniato che la signorina Chase soffriva
di violenti emicranie che influivano sulla sua vista. In risposta alle
domande rivoltele al riguardo, ha negato ogni possibilità di ubria-
chezza, dal momento che la signorina Chase non beveva.
Secondo la polizia un copertone finito su una rotaia scoperta del
tram potrebbe essere uno dei fattori all'origine dell'incidente. So-
no stati sollevati interrogativi sull'idoneità delle misure di sicurez-
za adottate dal Municipio, ma dopo la testimonianza del perito,
l'ingegnere municipale Gordon Perkins, sono stati accantonati.
L'incidente ha provocato nuove proteste sullo stato della viabili-
tà in questo tratto di carreggiata. Il signor Herb T. Jolliffe, in rap-
presentanza dei contribuenti locali, ha dichiarato ai giornalisti del-
lo Star che non si è trattato della prima disgrazia causata dalla
mancata manutenzione delle rotaie. Il Consiglio Comunale do-
vrebbe prenderne nota.
L'assassino cieco, di Laura Chase.
Reingold, Jaynes & Moreau, New York, 1947
Prologo: Piante perenni per il giardino roccioso
Ha una sola foto di lui. L'ha infilata in una busta marrone con su scritto
ritagli e ha nascosto la busta tra le pagine del libro Piante perenni per il
giardino roccioso, dove nessun altro sarebbe mai andato a guardare.
Ha conservato la foto con cura, perché è quasi tutto ciò che le è rimasto
di lui. È in bianco e nero, scattata con una di quelle macchine fotografiche
con il flash di prima della guerra, ingombranti e simili a scatole, con i loro
obiettivi a fisarmonica e le loro custodie in cuoio di ottima fattura che
rammentavano dei musi, con cinghie e fibbie complicate. La foto li ritrae
insieme, lei e l'uomo, durante un picnic. Picnic è scritto sul retro, a matita -
non il nome dell'uno o dell'altra, solo picnic. Lei conosce i nomi, non ha
bisogno di scriverli.
Sono seduti sotto un albero; potrebbe trattarsi di un melo; al tempo non
ci aveva fatto molto caso. Lei indossa una blusa bianca con le maniche ar-
rotolate fino al gomito e un'ampia gonna tenuta stretta sotto le ginocchia.
Doveva esserci vento, da come la camicia le si incolla addosso; o forse non
dipendeva dal vento, era soltanto aderente; forse faceva caldo. Faceva cal-
do. Tenendo la mano sulla foto può sentire ancora il calore che ne emana,
come il calore rilasciato a mezzanotte da una pietra riscaldata dal sole del
giorno.
L'uomo indossa un cappello chiaro inclinato all'ingiù, che gli tiene parte
del viso in ombra. Il suo viso sembra più abbronzato di quello di lei, che è
girata a metà verso di lui e sorride, in un modo in cui non ricorda di avere
più sorriso a nessuno da allora. Sembra molto giovane nella foto, troppo
giovane, sebbene a quel tempo non si considerasse tale. Anche lui sorride -
il candore dei suoi denti risalta come la fiamma di un fiammifero sfregato -
ma ha la mano sollevata, come a schermirsi da lei per gioco, o a protegger-
si dalla macchina fotografica, dalla persona che doveva essere là, a scattare
la foto; o a proteggersi da chi in futuro avrebbe potuto guardarlo, avrebbe
potuto guardarlo attraverso quella finestra quadrata di carta lucida piena di
luce. Come per proteggersi da lei. Come per proteggerla. Nella sua mano
tesa in un gesto protettivo c'è un mozzicone di sigaretta.
Quando è sola recupera la busta marrone e sfila la foto dai ritagli di
giornale. La depone sul tavolo e la osserva, come se scrutasse in un pozzo
o in una pozzanghera - cercando qualcos'altro oltre il proprio riflesso,
qualcosa che deve avere gettato via o perduto, fuori della sua portata ma
ancora visibile, brillante come un gioiello sulla sabbia. Esamina ogni det-
taglio. Le dita di lui scolorite dal flash o dalla luce abbagliante del sole; le
pieghe dei loro vestiti; le foglie dell'albero e le piccole forme rotonde che
ne pendevano - erano mele, dunque? L'erba ruvida in primo piano. Quel
giorno l'erba era gialla perché il tempo era stato secco.
Da un lato - a un primo sguardo non si nota - c'è una mano, troncata in
corrispondenza del margine, tagliata con le forbici all'altezza del polso,
appoggiata sull'erba quasi fosse stata abbandonata. Lasciata a se stessa.
La traccia di una nuvola portata dal vento nel cielo luminoso, come una
sbavatura di gelato sul metallo cromato. Le dita di lui macchiate di fumo.
Il luccichio dell'acqua in lontananza. Tutto sommerso, ormai.
Sommerso, ma abbagliante.
II
L'assassino cieco: L'uovo sodo
Allora, cosa preferisci? chiede lui. Smoking e romanticherie, o naufragi
su una costa arida? Puoi scegliere quello che vuoi: giungle, isole tropicali,
montagne. O un'altra dimensione dello spazio - è la cosa che mi riesce me-
glio.
Un'altra dimensione dello spazio? Questa poi!
Non prendermi in giro, è un indirizzo utile. Può accadervi tutto quello
che vuoi. Navi spaziali e uniformi attillate, armi a raggi, marziani dai corpi
di calamari giganti, quel genere di cose.
Scegli tu, fa lei. Sei tu il professionista. Che ne dici di un deserto? Ho
sempre desiderato visitarne uno. Con un'oasi, naturalmente. Qualche pal-
ma da datteri non guasterebbe. Sta togliendo la crosta al suo panino. Non
le piacciono le croste.
Non ci sono grandi possibilità, con i deserti. Gli elementi del paesaggio
scarseggiano, a meno di aggiungere qualche tomba. Allora si potrebbe
pensare a un mucchio di donne nude morte da tremila anni, con figure pie-
ne e flessuose, labbra rosso rubino, capelli azzurri in una spuma di riccioli
scompigliati e occhi come fosse piene di serpenti. Ma non credo che potrei
rifilarti una cosa simile. L'orrore non è il tuo genere.
Non si sa mai. Potrebbero piacermi.
Ne dubito. Vanno bene per la massa informe. Però in copertina hanno
successo - si contorcono su qualche tizio, devono essere respinte con i cal-
ci dei fucili.
Potrei avere un'altra dimensione dello spazio, e anche le tombe e le don-
ne morte, per favore?
Mi chiedi l'impossibile, ma vedrò di fare del mio meglio. Potrei infilarci
anche qualche vergine sacrificale, con corazze di metallo, catenelle d'ar-
gento alle caviglie e abiti trasparenti. E in più un mucchio di lupi famelici.
Vedo che non ti fermi davanti a niente.
Preferisci gli smoking? Navi da crociera, biancheria candida, baci sui
polsi e ipocrite svenevolezze?
No. Va bene. Fai come meglio credi.
Sigaretta?
Fa segno di no con la testa. Lui si accende la sua, sfregando il fiammife-
ro sull'unghia del pollice.
Ti darai fuoco, gli dice.
Finora non è mai successo.
Lei guarda la manica arrotolata della sua camicia, bianca o di un azzurro
pallido, poi il polso, la pelle più scura della mano. Irradia splendore, de-
v'essere il sole riflesso. Perché non lo stanno tutti a guardare? Eppure qui
fuori, all'aperto, dà così nell'occhio... C'è altra gente intorno, seduta o stesa
sull'erba, appoggiata a un gomito - altri partecipanti al picnic nei loro pal-
lidi vestiti estivi. È proprio tutto come si deve. Ciò nondimeno lei ha l'im-
pressione che loro due siano soli; come se il melo sotto cui sono seduti non
fosse un albero ma una tenda; come se attorno a loro ci fosse una linea di-
segnata con il gesso. All'interno della linea, sono invisibili.
Allora vada per lo spazio, dice lui. Con tombe, vergini e lupi - ma a rate.
D'accordo?
A rate?
Sai, come i mobili.
Lei ride.
No, dico sul serio. Non puoi tirarti indietro, anche se ci vorranno dei
giorni. Dovremo incontrarci ancora.
Lei esita. D'accordo, risponde. Se riesco a combinare.
Bene, dice lui. Ora devo pensare. Mantiene un tono di voce normale.
Troppa insistenza potrebbe scoraggiarla.
Sul pianeta... vediamo... non Saturno, è troppo vicino. Sul pianeta
Zycron, situato in un'altra dimensione dello spazio, c'è una pianura cospar-
sa di macerie. A nord c'è l'oceano, che è di colore viola. A ovest c'è una ca-
tena di montagne, dove dicono che dopo il tramonto si aggirino voraci
morte viventi, le abitanti delle tombe in rovina disseminate nella zona. Ve-
di, ho messo le tombe in prima battuta.
Molto coscienzioso da parte tua, dice lei.
Sto ai patti. A sud c'è una distesa di sabbia, a est parecchie valli scoscese
che una volta avrebbero potuto essere fiumi.
Suppongo che siano canali, come su Marte?
Oh sì, canali, questo genere di cose. Abbondanti tracce di una civiltà an-
tica e un tempo altamente evoluta, sebbene ora la regione sia popolata sol-
tanto da esigue bande di nomadi primitivi in continuo movimento. In mez-
zo alla pianura c'è un alto tumulo di pietre. La terra intorno è arida, con
pochi cespugli stentati. Non proprio un deserto, ma abbastanza simile. È
rimasto un panino al formaggio?
Lei fruga nel sacchetto. No, dice, ma c'è un uovo sodo. Non è mai stata
così felice prima d'ora. Tutto è di nuovo fresco, deve ancora succedere.
Proprio quello che ci voleva, fa lui. Una bottiglia di limonata, un uovo
sodo e tu. Fa rotolare l'uovo tra le palme per rompere il guscio, poi lo
sbuccia. Lei guarda le sue mani, la mascella, i denti.
Accanto a me che canto nel parco pubblico, dice. Ecco il sale.
Grazie. Ti sei ricordata di tutto.
La pianura arida non è rivendicata da nessuno, continua lui. O meglio lo
è da cinque differenti tribù, nessuna abbastanza forte da annientare le altre.
Tutte di tanto in tanto vagano nei pressi del mucchio di pietre, pascolando i
loro thulk - creature blu simili a pecore dal carattere ombroso - o traspor-
tando merce di poco valore sulle loro bestie da soma, una sorta di cammel-
li a tre occhi.
Il mucchio di pietre è chiamato, nelle loro varie lingue, Tana dei Serpen-
ti Volanti, Mucchio di Macerie, Dimora delle Madri Urlanti, Porta dell'O-
blio e Fossa delle Ossa Rosicchiate. Ogni tribù racconta una storia simile
al riguardo. Sotto le rocce, dicono, è seppellito un Re - un Re senza nome.
Non solo il Re, ma anche i resti della splendida città su cui un tempo egli
regnava. La città fu distrutta nel corso di una battaglia, il Re catturato e
appeso a una palma da datteri in segno di trionfo. Al sorgere della luna fu
tirato giù e seppellito, e le pietre vennero ammucchiate per segnare il po-
sto. Quanto agli altri abitanti della città, furono tutti uccisi. Massacrati -
uomini, donne, bambini, neonati, perfino gli animali. Passati a fil di spada,
fatti a pezzi. Non fu risparmiata nessuna creatura vivente.
È orribile.
Basta infilare una pala in un punto qualsiasi del terreno per portare alla
luce qualcosa di terribile. Buon per gli affari, noi prosperiamo sulle ossa;
senza di esse non ci sarebbero storie. C'è ancora un po' di limonata?
No, dice lei. L'abbiamo bevuta tutta. Continua.
I conquistatori cancellarono il vero nome della città dalla memoria, ed è
per questo - dicono i narratori - che il posto è ora conosciuto con il nome
della sua distruzione. Il mucchio di pietre segna perciò sia un atto di me-
moria deliberata, sia un atto di oblio deliberato. In quella regione amano il
paradosso. Ognuna delle cinque tribù sostiene di essere stata l'aggressore
vittorioso. Ognuna ricorda la strage con soddisfazione. Ognuna crede che
essa fu ordinata dal proprio dio come una giusta vendetta, per via delle
pratiche empie condotte nella città. Il male va pulito con il sangue, dicono.
Quel giorno il sangue corse come acqua, perciò la pulizia deve essere stata
perfetta.
Ogni pastore che passa aggiunge una pietra al mucchio. È una vecchia
usanza - lo si fa in ricordo dei morti, dei propri morti - ma dal momento
che nessuno sa chi fossero realmente i morti sotto il tumulo, tutti deposita-
no la propria pietra, per ogni eventualità. Aggirano la questione dicendo
che quanto è successo doveva essere la volontà del loro dio, perciò la-
sciando una pietra ne onorano la memoria.
C'è anche una storia che sostiene che la città non fu davvero distrutta. In
realtà, mediante un incantesimo noto solo al Re, la città e i suoi abitanti
vennero spazzati via e sostituiti dai loro fantasmi, e furono solo questi fan-
tasmi a essere bruciati e massacrati. La vera città fu rimpicciolita e colloca-
ta in una caverna sotto il grande mucchio di pietre. Tutto ciò che c'era è
ancora là, compresi i palazzi e i giardini pieni di alberi e fiori; comprese le
persone, non più grandi di formiche, che tuttavia portano avanti la loro vita
di prima - indossando i loro minuscoli abiti, dando i loro minuscoli ban-
chetti, raccontando le loro minuscole storie, cantando le loro minuscole
canzoni.
Il Re sa cos'è successo e ciò gli provoca incubi, ma tutti gli altri lo igno-
rano. Non sanno di essere diventati così piccoli. Non sanno di essere cre-
duti morti. Non sanno neanche di essere stati salvati. Pensano che il soffit-
to di roccia sia un cielo: la luce filtra attraverso un foro di spillo tra le pie-
tre, e loro pensano che sia il sole.
Le foglie del melo frusciano. Lei solleva lo sguardo al cielo, quindi lo
sposta sull'orologio. Ho freddo, dice. Sono anche in ritardo. Potresti sba-
razzarti delle prove? Raccoglie i gusci d'uovo, appallottola la carta oleata.
Non c'è fretta, vero? Non fa freddo qui.
C'è una brezza che viene dall'acqua, dice lei. Dev'essere cambiato il ven-
to. Si china in avanti, fa per alzarsi.
Non andare ancora, dice lui, è troppo presto.
Devo. Mi staranno cercando. Se arrivo in ritardo, vorranno sapere dove
sono stata.
Si liscia la gonna, serra le braccia attorno al corpo, si gira, mentre le pic-
cole mele verdi la guardano come tanti occhi.
The Globe and Mail, 4 giugno 1947
GRIFFEN TROVATO
NELLA SUA BARCA A VELA
SPECIALE PER THE GLOBE AND MAIL
Dopo parecchi giorni di inspiegabile assenza, il corpo dell'indu-
striale Richard E. Griffen, quarantasette anni, considerato il favo-
rito alla candidatura Progressista Conservatrice nel distretto elet-
torale di St. David, Toronto, è stato rinvenuto nei pressi della sua
residenza estiva di «Avilion» a Port Ticonderoga, dove si trovava
in vacanza. Il signor Griffen è stato trovato nella sua barca a vela,
l'Ondina, ormeggiata al suo imbarcadero privato sul fiume Jo-
gues. Apparentemente è stato vittima di un'emorragia cerebrale.
La poiizia riferisce di non sospettare un delitto.
Il signor Griffen, di cui è nota la brillante carriera a capo di un
impero commerciale comprendente molti settori, tra cui i tessili,
l'abbigliamento e l'industria leggera, è stato encomiato per gli
sforzi prodigati nel provvedere le truppe Alleate di uniformi e
componenti belliche durante la guerra. Ha partecipato spesso alle
Conferenze di Pugwash ed è stato una figura di spicco sia del-
l'Empire Club che del Granite Club. Appassionato di golf, era ben
noto anche al Royal Canadian Yatch Club. Il Primo Ministro,
raggiunto al telefono nella sua tenuta privata di Kingsmere, ha
commentato: «Il signor Griffen era uno degli uomini più validi
del paese. La sua perdita lascerà un segno profondo».
Il signor Griffen era il cognato della defunta Laura Chase, il cui
romanzo postumo è stato pubblicato la primavera scorsa, e ha la-
sciato la sorella signora Winifred (Griffen) Prior, personaggio
molto noto della vita mondana, la moglie signora Iris (Chase)
Griffen, nonché la figlia Aimee, di dieci anni. I funerali avranno
luogo mercoledì a Toronto nella chiesa di St. Simon the Apostle.
L'assassino cieco: La panchina nel parco
Perché c'era gente, su Zycron? Voglio dire, esseri umani come noi. Se è
un'altra dimensione dello spazio, gli abitanti non dovrebbero essere lucer-
tole parlanti o qualcosa di simile?
Solo nei libri da quattro soldi, dice lui. Tutta roba inventata. In realtà è
andata così: la Terra fu colonizzata dagli zycroniani, che avevano svilup-
pato la capacità di viaggiare da una dimensione all'altra dello spazio in un
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