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Cascina Biglione (casa nativa di don Bosco)



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3.1.1. Cascina Biglione (casa nativa di don Bosco)


Precisamente ai Becchi il nonno paterno di don Bosco, Fi­lippo Antonio (1735-1802), originario di Chieri, si era tra­sferito nel 1793, come mezzadro della cascina Biglione. Oggi questo edificio non esiste più: fu abbattuto tra 1957 e 1958. Al suo posto sorge il grandioso Tempio. Soltanto nel 1972 le ri­cerche d'archivio condotte da Secondo Caselle ci hanno rivelato che proprio in quella cascina era nato Giovannino.

La costruzione, inizialmente lineare (e a due piani) era stata prolungata verso nord da un edificio civile a tre piani destinato ai padroni, che vi abitavano durante le vacanze. L’insieme veniva a formare un complesso a forma di "L", del quale la parte più antica era destinata ad abitazione dei mezzadri. Poche e povere stanze: al pian terreno cucina con di­spensa, "sala" e scala per accedere alle due camere da letto del piano superiore. Qui abitavano Filippo Antonio e i suoi figli, tra cui Francesco Luigi (1784-1817). Essi coltivavano il fondo padronale esteso per più di 12 ettari.

Francesco Luigi Bosco si sposa all'età di ventun anni (1805) con Margherita Cagliero e da essa ha due figli: Antonio Giuseppe (1808-1849) e Teresa Maria (16 febbraio-18 febbraio 1810). Rima­sto vedovo nel 1811, si risposa il 6 giugno 1812 con Margherita Occhiena (1788-1856); nascono così Giuseppe Luigi (1813-1862) e Giovanni Melchiorre, il futuro don Bosco (1815-1888).

In questa casa il papà di Giovannino, colpito da polmonite acuta per essere entrato madido di sudore in cantina, muore l'11 maggio 1817, a quasi 34 anni di età.

È il primo ricordo indelebile di Giovannino:
“Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericor­dioso ci colpì con grave sciagura. L'amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa, in sulla sera si manifestò una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cu­ra e fra pochi giorni si trovò all'estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12 maggio 1817 (ndr.: si tratta in real­tà del giorno 11, come risulta dai documenti d'archivio).

Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occor­renza; soltanto mi ricordo, ed è il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere. Vieni, Giovanni, vieni meco, ripeteva l'addolorata genitrice. Se non viene papà, non ci voglio andare, risposi. - Pove­ro figlio, ripigliò mia madre, vieni meco, tu non hai più padre. Ciò detto, ruppe in forte pianto, mi prese per ma­no e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché Ella piangeva. Giacché in quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre” (MO 31-32).


Al grave lutto si aggiungono le difficoltà di un momento particolarmente critico per l'economia piemontese poiché il 1816-1817 sono anni di carestia e di fame:
“Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazio­ne. Erano cinque persone da mantenere (ndr.: mamma Marghe­rita, la suocera e i tre figli); i raccolti dell'annata, u­nica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi (...). Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano, che i men­dicanti chiedevano con premura un po' di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutri­mento. Si trovarono persone morte ne' prati colla bocca piena d'erba, con cui avevano tentato di acquetare la rab­biosa fame.

Mia madre mi contò più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirsi. Quell'amico andò in vari mercati e non potè nulla provvedere, anche a prezzi esorbitanti (...). Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per far­si imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, ingi­nocchiamoci e preghiamo. Dopo breve preghiera si alzò e disse: Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi. Quindi coll'aiuto del nominato Cavallo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta, poté con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si poté poi provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono farsi venire di lontani paesi” (MO 32-33).



3.1.2. La “Casetta”


Sulla stessa collina dei Becchi, circa 200 metri più in basso della cascina Biglione, un gruppetto di case, occupato da quattro famiglie (Graglia, Cavallo, Bechis e Ronco), formava il Canton Cavallo. Francesco Luigi Bosco l'8 febbraio 1817, tre me­si prima di morire, vi aveva comperato per lire 100 (il prezzo di un bue) una misera casetta rivolta a nord e “composta di stalla e crotta, fenéra superiore dall'alto in basso, “coperta a coppi, in cattivo stato con sito grano avanti di tavole dieci circa, come sta scritto rispettivamente nell'atto d'acquisto (8 feb­braio 1817) e nell'inventario dei beni allegato al testamento di Francesco Bosco (18 maggio 1817). La costruzione misura in tutto 12 metri di lunghezza, 3 di larghezza e 4,5 di altezza. Il muro divisorio a cui si appoggia la separa dalla casa della famiglia Cavallo. Accanto, pochi metri ad ovest, c'è l'abitazione dei Gra­glia (demolita per costruire la scala che permette di visitare il piano superiore).

L'acquisto è motivato dal fatto che Francesco viene a sape­re che i Biglione avevano intenzione di alienare la cascina (il fabbricato, come apprendiamo dai documenti catastali, fu ceduto nel 1818 alla famiglia Chiardi, da questa passò nel 1846 alla famiglia Damevino, che lo venderà ai Salesiani nel 1929) e, ancor più, dal desiderio di costituir­si un proprio patrimonio in beni immobili. Siamo infatti in pe­riodo di forte crisi economica, accompagnata da una grave care­stia che colpisce le annate 1816-1817.

Morto il marito, mamma Margherita continua ad abitare con i figli, la vecchia suocera e due garzoni di campagna nella casci­na Biglione fino a metà novembre, scadenza del contratto di mez­zadria. Nel frattempo fa sistemare il modesto edificio acquista­to da Francesco e vi trasloca la famiglia il 13 novembre 1817.


I Bosco nella “Casetta”


Dopo questa ristrutturazione il piccolo edificio risultava composto dai seguenti vani (da sinistra a destra guardando la facciata): tettoia ad uso ripostiglio, stalla, cucina e portico, al pian terreno; camera da letto, che Margherita Occhiena divi­deva con la suocera Margherita Zucca, cameretta dei figli (la camera del "sogno" a cui si accedeva dalla cucina per mezzo di una scaletta) e fienile, al piano superiore. Sulla facciata una scala in legno portava alla stanza di mamma Margherita. Alla ba­se della rampa un bugigattolo di mattoni serviva da pollaio.

In questi locali abitarono tutti insieme fino al 1831, anno in cui il fratello Antonio si sposò. Mamma Margherita cedette a­gli sposi la sua stanza, spostandosi in quella dei figli. Giu­seppe, intanto, dopo la spartizione dei beni familiari avvenuta l'anno precedente (1830), aveva preso a mezzadria il podere del Sussambrino, sulla collina tra i Becchi e Castelnuovo verso But­tigliera e vi si era trasferito. Lo seguirono anche mamma Mar­gherita e il fratello Giovanni, che intanto frequentava le scuo­le di Castelnuovo; vi rimarranno nove anni.

Sui motivi che determinarono mamma Margherita alla divisio­ne del patrimonio familiare don Bosco scrive:
“Mia madre scorgendomi tuttora afflitto per le diffi­coltà, che si frapponevano a' miei studi, e disperando di ottenere il consenso di Antonio, che già oltrepassava i vent'anni, deliberò di venire alla divisione dei beni pa­terni. Eravi grave difficoltà, perocché, io e Giuseppe es­sendo minori di età, dovevansi compiere molte incombenze, e sottostare a gravi spese. Nulla di meno si venne a quella deliberazione. Così la nostra famiglia fu ridotta a mia ma­dre, a mio fratello Giuseppe, che volle vivere meco indivi­so. Mia nonna era morta alcuni anni prima” (MO 53).
Il fratello Antonio qualche anno più tardi, nel campo di fronte alla casetta, si costruì un'abitazione più adatta ad ac­cogliere la famiglia che stava aumentando. Sarà distrutta nel 1915 per innalzare il santuarietto di Maria Ausiliatrice. Anche Giuseppe nel 1839 edificò lì accanto la sua casa. La vecchia "Casetta" paterna rimase così adibita a stalla e deposito di at­trezzi agricoli.

I nipoti di don Bosco, a più riprese, venderanno la "Caset­ta", alcuni terreni circostanti e le case dei fratelli Antonio e Giuseppe ai Salesiani. Nel 1901 don Michele Rua, primo successo­re di don Bosco, ordinerà una prima operazione di restauro della “Casetta” con­sistente nella divisione del portico a fianco della cucina in due vani sovrapposti e nella chiusura del fienile, per dare con­sistenza all'edificio. Dopo l'acquisto di casa Cavallo (1919) e di casa Graglia (1920), in occasione della beatificazione di don Bosco (1929), vi sarà un secondo radicale restauro della "Caset­ta" che verrà aperta alle visite dei pellegrini.




Scene di vita familiare


Queste povere stanze sono state testimoni della saggia edu­cazione impartita da Margherita Occhiena ai suoi figli. Le scar­se risorse economiche e la sua giovane età avrebbero giustifica­to un secondo matrimonio. L'occasione si presentò, di fatto, e convenientissima; ma la donna non volle assolutamente staccarsi dai figli (che sarebbero stati affidati ad un buon tutore), ge­nerosamente disposta ad affrontare sacrifici e privazioni, fidu­ciosa nella Provvidenza divina (cf MO 33).

A base di tutto ella pose la formazione religiosa, come ci testimonia don Bosco:


“Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella re­ligione, avviarli all'ubbidienza ed occuparli in cose com­patibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò El­la stessa le preghiere; appena divenuto capace di associar­mi co' miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchio­ni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che Ella stessa mi preparò alla prima confessione, mi accompa­gnò in chiesa; cominciò a confessarsi ella stessa, mi rac­comandò al confessore, dopo mi aiutò a fare il ringrazia­mento” (MO 33-34).
Nei figli instillò il senso vivo della presenza di Dio, Creatore provvidente e Signore:

“Ricordatevi che Dio vi vede e vede anche i vostri più nascosti pensieri” - ripeteva loro spesso - “È Dio che ha creato il mondo e ha messe lassù tante stelle. Se è così bello il firmamento, che cosa sarà del paradiso?”; e anco­ra: “Quanta gratitudine non dobbiamo al Signore, che ci provvede di tutto il necessario, Dio è veramente padre. Pa­dre nostro che sei ne' cieli!” (SM, 28-30).


Fin dai primissimi anni li avvezzò al lavoro.
“Ella non soffriva che i suoi figli stessero oziosi e addestravali per tempo al disbrigo di qualche faccenda. Giovanni, appena valicati i quattro anni, già si occupava con molta costanza a sfilacciare le verghe di canapa, della quale la madre davagli una quantità numerata. E il fanciul­letto, compiuto il suo compito, si metteva a preparare i suoi divertimenti” (MB 1, 48).
Li formò all'obbedienza, motivata, fatta per amore; al senso di responsabilità e alla riflessione prima di agire o di parlare. Dosando dolcezza e forza d'animo era costante nella correzione. Non ricusava, se necessario, di ricorrere al castigo e simbolo di questo era “una verga posta in un angolo della stanza. Non l'usò però mai, come non diede mai ai suoi figli neppure uno scappellotto” (SM 36); suppliva con mezzi tutti particolari, usati con prudenza, che riuscivano di effetto. E i bimbi imparavano a rendersi conto delle proprie azioni.

Ricordiamo, come esempio, un piccolo episodio che coinvolge Giovanni a solo quattro anni:


“Tornato un giorno dal passeggio col fratello Giuseppe, ambedue erano arsi da molta sete per essere quella la stagione estiva. La mamma andò ad at­tingere acqua e diede a bere pel primo a Giuseppe. Giovan­ni, vedendo quella specie di preferenza, quando la mamma fu a lui coll'acqua, un po' permalosetto, fece segno che non volea bere. La mamma senza dire una parola, portò via l'acqua e la ripose. Giovanni stette un momento così, e poi timidamente:

- Mamma!


- Ebbene?

- Date dell'acqua anche a me?

- Credevo che non avessi sete!

- Mamma, perdono!

- Ah, così va bene! - E andò a prendere l'acqua e sorri­dendo gliela porse” (SM 37).
“Giovanni aveva otto anni, ed un giorno, mentre la mamma era andata ad un paese vicino per le sue faccende, ebbe l'idea di togliersi alcun che posto in alto. Non giungendo­vi prese la sedia, e salito su di essa, urtò in un vaso pieno di olio. Il vaso cadendo per terra si ruppe. Confuso il piccolino, cercò di rimediare a quella disgrazia collo spazzare via l'olio sparso; ma conoscendo che non sarebbe riuscito a togliere la macchia e l'odore diffuso, pensò a far si che la mamma non avesse dispiacere. Tolta una verga da una siepe, aggiustolla per bene, e strappandole a dise­gno in vari luoghi la verde corteccia, adornolla di fregi il meglio che seppe. Venuta l'ora, nella quale sapea che la mamma sarebbe di ritorno, le corse incontro fino in fondo alla valle e appena le fu dappresso: - Ebbene, mamma, come state? avete fatta buona passeggiata?

- Sì, mio caro Giovanni! e tu stai bene? sei allegro? sei buono?

- Oh! mamma! guardate qui! - E le porgeva la verga.

- Ah! figlio mio, me ne hai fatta qualcheduna.

- Sì; e mi merito proprio che questa volta mi castighia­te.

- E che cosa ti accadde?

- Son salito così e così, e per disgrazia ho rotto il vaso dell'olio. Sapendo che merito il castigo, vi ho porta­to la verga, perchè la usiate sulle mie spalle, senza pren­dervi fastidio di andarla a cercare. - Intanto Giovanni porgeva la verga tutta fregiata e mirava in volto la madre con fare furbo, peritoso, scherzevole. Margherita osservava il figlio e la verga, e ridendo di quella infantile furbe­ria, finalmente gli disse: - Mi rincresce molto della di­sgrazia che ti è occorsa, ma siccome il tuo operare mi fa conoscere la tua innocenza, io ti perdono. Tuttavia ricorda sempre il mio consiglio. Prima di fare una cosa, pensa alle sue conseguenze” (MB 1, 73-74).
La povertà della famiglia Bosco non impediva a Margherita di esercitare la carità verso i più miseri: “I vicini venivano a lei ora per fuoco, ora per acqua, ora per legna. Agli infermi che bisognassero di vino, ne donava generosamente, rifiutando o­gni compenso. Dava a prestito olio, pane, farina” (MB 1, 149-150). In questa casa vennero cortesemente ospitati e rifocillati mendicanti di passaggio, viaggiatori smarriti, negozianti, ma anche fuggiaschi, banditi braccati e gli stessi carabinieri che li seguivano: la carità concreta, gioviale, immediata della ma­dre fu la maggiore scuola per il futuro prete dei giovani poveri e abbandonati.

Giovannino incominciò presto ad imitarla:


“Un (...) certo Secondo Matta, servitorello in una delle masserie circostanti, e della sua stessa età, ogni mattino scendeva dalla collina traendosi dietro la vacca del padro­ne. Per la colazione era provvisto di un pezzo di pane ne­ro. Giovanni invece teneva fra le mani, sbocconcellandolo, un pane bianchissimo che mamma Margherita non lasciava mai mancare a' suoi cari figliuoli. Un bel giorno Giovanni dis­se a Matta: - Mi fai un piacere?

- Ben volentieri, rispose il compagno.

- Vuoi che facciamo lo scambio del pane?

- E perché?

- Perché il tuo pane deve essere più buono del mio, e mi piace di più. - Matta, nella sua infantile semplicità, cre­dette che Giovanni reputasse realmente più gustoso il suo pan nero, e facendogli gola il pane bianco dell'amico, vo­lentieri accondiscese a quella permuta. Da quel giorno, per ben due primavere di seguito, tutte le volte che al mattino s'incontravano in quel prato facevano lo scambio del pane. Matta però, divenuto uomo e riflettendo su questo fatto, lo raccontava soventi volte a suo nipote D. Secondo Marchisio” (MB 1, 89).

La visita della "Casetta"


In occasione del centenario della morte di don Bosco, la "Casetta" è stata restaurata e consolidata. La si è riportata alla struttura volumetrica originaria, testimoniata dalle foto­grafie di fine Ottocento. La “fenera superiore dall'alto in bas­so, ove nel 1929 era stata costruita la scala di accesso alle stanze del primo piano, è oggi riaperta; il vecchio fienile, su cui Giovannino intratteneva gli amici, ricuperato. Sono rimaste inalterate le stanze del pian terreno (stalla e cucina) e del piano superiore (camera di mamma Margherita e cameretta del so­gno).

La casa attigua (casa Cavallo) è stata trasformata in sup­porto didattico-logistico per la visita alla "Casetta", con pan­nelli informativi sulla vita di Giovannino Bosco e della sua famiglia. Qui è stato collocato un monumento bronzeo, opera dello scultore Enrico Manfrini, dedicato a mamma Margherita educatrice: ella accarezza sorridente il piccolo Giovanni che le porge la verga per essere punito della marachella sopra ricordata.

La visione degli ambienti della "Ca­setta" è resa possibile attraverso finestre aperte nel muro di ponente di casa Cavallo, non essendo più permesso l'accesso diretto per motivi di stabilità dell'edificio.


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